Il difetto del possesso

Modellino_Auto

Oggi riflettevo su alcuni accadimenti recenti della mia vita intorno ai quali ruotano una serie di sentimenti molto contrastanti. Nel perdermi in questi pensieri mi sono ritrovato a ragionare a lungo sulle diverse espressioni e sfaccettature con cui si esprimono il possesso e la sua bramosia.

E’ sorprendente come, quando si è giovani, si faccia davvero fatica anche solo a riconoscere che certe nostre azioni seguono l’unica direttrice che ci vorrebbe portare a prendere il controllo di qualcosa.

Non ho molti ricordi della mia infanzia. Tuttavia, tra i pochi, ne ho uno molto nitido. Credo di non averlo mai raccontato, perché un po’ me ne vergogno. E forse questo è il luogo giusto in cui parlarne senza temere troppo il giudizio critico che rettamente potrà suscitare.

Ero all’asilo delle suore, ora naturalizzato Scuola Materna. Ho passato quegli anni tra le sue mura buie e opprimenti con un peso costante nell’animo e la fobia per il refettorio colmo di sapori inconciliabili con il mio palato. Credo che, ad eccezione dei pomeriggi passati placidamente a trafficare con le costruzioni lego, l’unico vero ricordo che mi rimane è di un singolo giorno in cui un abitante dell’asilo, irrequieto e vagamente antipatico, è arrivato nella nostra scuola con una automobilina lustra e finemente lavorata grande quanto il palmo di una nostra mano.

L’ho tenuto d’occhio tutto il tempo, gli sono stato vicino, e ho visto bene, nel suo giocare convulso in cortile, la fuoriuscita dalle tasche del modellino di auto, che ho lasciato nella sabbia alcuni lunghi minuti prima di appropriarmene. Ricordo ancora i pensieri che mi scorrevano nella mente, la bramosia e il peso sorprendente di quel piccolo oggetto metallico, l’ansia del resto del pomeriggio per la paura di essere scoperto. La sera a casa ho giocato libero, ma non felice per quella piccola bellissima macchinina tra le mie mani. Con un gran peso nel cuore che sento ancora tutto.

Pochi giorni dopo, non ci crederete, l’ho persa anch’io quell’auto giocattolo. Forse ancora oggi vaga di cortile in cortile cercando sempre un nuovo giovane proprietario a cui far sperimentare la confusione del possesso.

Qualche anno dopo è arrivato il momento in cui mi sono innamorato di ragazze. A lungo ho dovuto fronteggiare quella diversa forma di possesso che molti preferiscono chiamare nella sua forma più edulcorata. La gelosia è l’essenza di quel bisogno di tenere stretto a sé in esclusiva qualcuno. Quando manifesti questo bisogno esplicitamente varchi la soglia del ridicolo o dell’importuno, quando te lo tieni tutto dentro allora vieni accusato di non amare abbastanza.  Quando si ama e si vuole possedere l’oggetto del proprio amore si sbaglia sempre e si soffre su tutti i fronti.

Di differenti sfumature di possesso ce ne sono un’infinità. Il denaro è un grande istigatore, ma ci sono forme sempre nuove e moderne. Ad esempio nel mondo di oggi, chi possiede le informazioni se le tiene strette e le usa spesso contro il mondo circostante riversandole goccia a goccia.

Nel mezzo di queste insulse divagazioni meditative sul possesso sono finito per immaginarmi quale potesse essere l’etimologia della parola, perché da parecchio tempo a questa parte associo a questo termine una sensazione come di morte. Con un po’ di ingenuità, che a ripensarci ora mi fa sorridere, mi ero convinto che al centro della sua origine doveva esserci la parola sesso. E tutto mi appariva inconciliabile.

Infatti no, decisamente no, l’etimologia parla di tutt’altro. Il possedere è la combinazione dei concetti dominare e sedere. Ogni tanto avere accesso veloce alle informazioni dà soddisfazione. Ora mi appare tutto più in sintonia con le mie sensazioni: il possedere è un po’ come schiacciare, e il senso di morte che ne traggo appare avere un significato profondo.

Il possesso, quando lo sperimenti, ha il sapore della conclusione, della fine di tutto. Uccide il desiderio, schiaccia la persona amata posseduta, rende (se almeno tu hai questa fortuna) il denaro che hai stoccato virtualmente nel conto in banca assolutamente insignificante rispetto a quello che potrebbe diventare accumulando altre ricchezze, banalizza il sapere che hai faticosamente conquistato di fronte ai dilemmi di cui non sai ancora nulla.

Ecco il motivo per cui non amo il possesso ed ecco il motivo per cui, se tornassi bambino, adesso, quella automobile giocattolo la raccoglierei e la darei subito al suo proprietario. Lui un po’ più sbruffone, io un po’ più felice.

Addio compagna di viaggi

Alberi

Una sera, molti mesi fa, al rientro da uno dei miei frequenti viaggi, ho deciso di lavare l’auto.  Era inguardabile e anche solo avvicinandosi a lei si rischiava che una parte dello sporco che la proteggeva avrebbe potuto decidere di cambiare ospite. Anticipo un concetto importante, per me le macchine sono solo pezzi di ferro. Ci fanno compiere in libertà il piccolo miracolo del salto spaziale da un luogo all’altro del nostro perimetro di azione quotidiano, ma a parte questo, sono solo pezzi di ferro.

Bene, quella sera sono rimasto molto colpito, perché arrivato al lavaggio automatico vicino a casa ad un’ora piuttosto tarda, credo fossero quasi le undici di sera, sono riuscito a fare coda. 🙂

Esiste un popolo di maschi, o presunti tali, che dedicano alla cura della loro auto attenzioni meticolose  e professionali, cure che difficilmente estenderebbero ad altre componenti importanti della loro vita.

Ho fatto coda per lavare l’auto, non è stato semplicissimo nemmeno accedere all’area “pulizia degli interni” e posso garantire che non c’era luce sufficiente nemmeno per immaginare di riuscire a scovare lo sporco. Molti avventori, passavano poi al bar dell’area di servizio. Estratto da una capanna di legno, addobbato con luci al neon colorate, recuperate io credo da qualche discarica d’altri tempi, disponeva di un’ampia dotazione di sedie di plastica per rendere comoda la loro pausa.

Spero che in quell’affollato spiazzo antistante il piccolo bar si sia parlato soprattutto di figa, perché l’idea che il tema principale possa essere stato il calcio mi disturba parecchio.

La faccio breve, quella sera mi sono allontanato da quel luogo con un principio di nausea e sono rientrato a casa con l’unica certezza di non appartenere alla setta degli adoratori del possesso automobilistico.

La vita tuttavia con il tempo sa presentare punti di vista sempre diversi anche alle questioni più semplici e più scontate. E a molti mesi di distanza ora non sono nemmeno più la persona che è rientrata a casa quella sera.

Sono passati pochi giorni da quando ho fatto compiere i chilometri alla mia auto in riva al Lago di Garda. E’ stato un passaggio strano nel quale, per tutta una serie di motivi, non nascondo, ho provato della tenerezza. Davvero molti chilometri, molte storie si sono incrociate intorno a questa auto, momenti iracondi, momenti stanchi, momenti romantici, momenti divertenti. Tutto racchiuso nello spazio del suo abitacolo.

La settimana scorsa, arrivavo a Milano, ed è comparso un rumore strano. Non uno dei soliti rumori artritici che era abituata a farmi sentire, era un suono più secco, frequente e ripetitivo di qualsiasi altro suono emesso prima. Il pomeriggio mi ha riportato indietro a casa, sempre più rumorosa ed affaticata. Siamo arrivati dal meccanico di fiducia, che con un tono misto tra il dispiaciuto (per aver perso una buona cliente) e il saggio universale (perché l’esperienza rende il medico dell’officina una specie di dio nel mondo dei motori) ha detto: “Questa auto è arrivata al capolinea!”

Mi ha colpito molto. Era già chiaramente guasta nella lontana Milano, ma mi ha riportato indietro, abbiamo superato assieme, arrancando in autostrada, gli ultimi TIR delle nostre avventure. Ieri abbiamo fatto gli ultimi eroici quaranta chilometri per raggiungere l’officina dove oggi l’ho venduta, comprandone un’altra, esteriormente non molto diversa da lei. E’ quasi certo che lei andrà incontro ad una nuova vita in qualche stato estero non ben precisato, e un po’ mi sembra di doverla invidiare. Di certo non riesco a non provare ammirazione e riconoscenza, perché abbiamo affrontato davvero una montagna di chilometri, ma non ha avuto nessun cedimento. Sarebbe bastato un piccolo guasto al momento giusto, una crisi di paura nel sandwich del traffico, una piccola sbandata e facilmente ora non sarei più qui a scrivere.

Noi uomini sbandiamo e ormai non ce ne accorgiamo nemmeno più, facciamo danni senza darcene alcun peso, lei invece non ha mai perso la retta via negli infiniti momenti importanti in cui aveva in mano la mia vita. E non si è tirata indietro fino alla fine. Non abbiamo nemmeno mai una sola volta veramente rischiato la vita, nonostante la montagna di chilometri che abbiamo scalato.

Le auto sono solo pezzi di ferro, ma forse con il tempo e la pazienza riescono a raccogliere intorno a sé quei pezzi di umanità e di affetto, che si staccano dalla nostra vita per la crudezza del mondo che viviamo. E forse per questo, non amo di certo il possesso dei pezzi di ferro, ma mi dispiace davvero che se ne sia andata.

Addio vecchia compagna di viaggi, sei stata soprattutto un’eroica, fedele, instancabile, contenitrice dei miei ricordi.

Un difetto della musica

Flauto Traverso

Come molte altre persone sulla faccia di questa terra ho una passione, non esagerata, ma continua nei confronti della musica. Sono frequenti le situazioni in cui percorro lunghi tragitti in automobile o altrettanto lunghe serate di lavoro ascoltando musica per rilassarmi. A volte, lo confesso, mi capita di rivivere un singolo brano a ripetizione, senza sosta, per tutto il tempo.

La musica è come una magia. Ti entra dentro non solo attraverso gli organi di senso preposti allo scopo, talvolta investe tutto il tuo corpo e ti pare di sentirla quasi più sulla pelle che con l’udito. Ti entra dentro e ti trasforma.

Io credo che questo suo potere sia legato all’armonia che è in grado di stabilire con il nostro animo. Anzi, forse è l’unica espressione della produzione umana che riesce in qualche misura ad emulare l’equilibrio che talora le persone riescono ad instaurare tra di loro. Perché quando ascoltiamo una musica in sintonia con il nostro stato d’animo ci fondiamo con essa e ci perdiamo nei suoi movimenti armonici e nelle parole delle sue melodie.

Il panorama musicale a cui possiamo attingere è vastissimo e si estende ogni giorno di più. Possiamo abbandonarci ad uno di quei motivetti accattivanti, che per dieci giorni filati ti sembrano una componente irrinunciabile della tua vita, ma poi repentinamente decidi che non lo ascolterai mai più. Oppure puoi abbandonarti ad un ever-green che ogni giorno muove le emozioni di decine e decine di migliaia di persone. Oppure ancora possiamo farci trasportare dal vento di modernità delle playlist randomiche della Rete che ti fanno assaggiare frutti ancora vergini per il tuo palato musicale. In effetti, a ben pensarci, le dinamiche del rapporto con la musica non sono molto dissimili dalle relazioni che sperimentiamo con altre persone.

Si potrebbe parlare dei musicisti, dei cantanti e dei compositori. Penso che nei loro confronti si sperimenti una delle poche occasioni in cui il sentimento di invidia sia davvero giustificato, perché estrarre armonia pura da pezzi di ferro e bocche da sfamare credo sia una fortuna straordinaria. Il buon Dio ha preferito non dotarmi del senso del tempo, né tantomeno dell’intonazione, – evidentemente con me aveva altri obiettivi – e ha preferito concedermi l’opportunità di amare la musica solo di riflesso. Ma spero per questo possa considerare la mia dichiarata invidia con clemenza.

C’è tuttavia una sensazione che si accompagna all’ascolto della musica che io non amo per niente. Fortunatamente mi assale solo qualche volta, ma non sono pochi i casi in cui è così forte che riesce ad azzerare il mio desiderio di lasciarmi trasportare dentro alle note. Vorrei abbandonarmi ad un pezzo amato perché è in grande sintonia con il mio stato d’animo contingente, magari inizio pure ad ascoltarlo e poi … PUFF! … mi viene in mente, vengo assalito dalla convinzione che io, il giorno dopo, quello stesso pezzo, non riuscirei nemmeno a farlo cominciare. Perché sento già che non avrò più la predisposizione giusta, il desiderio di toccare le stesse corde interiori del mio spirito.

E’ una sensazione che si accompagna sempre alla tristezza.

Spesso spengo tutto e mi metto a pensare. Mi sento come in certe fasi iniziali di una amicizia – non so se capita solo a me – quando desidero incontrare una persona perché sono nello spirito giusto per approfondire la nostra sintonia, ma percepisco già che il giorno dopo o io o quella persona non avremo più la stessa predisposizione all’armonia. Se penso alla musica che ascoltavo ieri, oggi mi sembra sicuramente ancora bellissima, ma su di me non può più fare lo stesso effetto. E’ un suo difetto o forse la proiezione dei miei difetti su di lei.

Mi perdo in questi pensieri e mi rattristo ancora di più.

La musica è vera magia per il nostro io interiore, ma porta con sé il germe della superficialità e della instabilità, e asseconda sempre la nostra pessima predisposizione ai cambi di umore.

Spesso trattiamo le persone intorno a noi come brani musicali, ma facciamo un grande errore. Una canzone ci dà gioia e ricchezza, ma noi a lei non diamo proprio niente. Con le persone è o dovrebbe essere diverso.

Boomstick Award

Boomstick

Ecco che mi tocca un compito difficile. Qualche giorno fa ho ricevuto una nomination inaspettata.

Di mio non sarei per questo tipo di catene perché, anche se capisco l’utilità e la ricchezza insita nel creare relazioni, mi piace di più navigare nel confortevole mondo della colloquialità non sollecitata e dell’anonimato.

Tuttavia questo è un premio particolare. Non è un vero premio 🙂 e per giunta origina da un personaggio cinematografico che ho sempre considerato mitico. Autoironico, eroico, divertente e trasognato come pochi altri nella storia del cinema. Le creazioni di Sam Raimi dall’Armata delle Tenebre a Drag me to Hell hanno sempre suscitato in me una profonda ammirazione per l’originalità e l’articolazione delle loro acute intuizioni.

Comunque non posso proprio sottrarmi al dare spazio a questo award soprattutto per un altro motivo. L’origine della nomination arriva da un luogo la cui padrona di casa, sia che stia parlando di una allegra giornata di sole oppure della più buia notte di tempesta, non manca mai di trasmettere energia straordinaria e voglia di vivere fuori dal comune. Per questo motivo e per altri piccoli risvolti vagamente sincronici considero la nomina in questione con estremo rispetto.

Le regole da seguire sono semplici, e le riporto fedelmente subito oltre, ma mi piace riportare anche una frase dal sito originario: “il Boomstick è un premio cazzuto. Se l’avete vinto non siete di sicuro delle mezze cartucce, ma… se non rispetterete le 4 semplici regole che lo caratterizzano, allora mezze cartucce diventerete“.

Le regole:

1 – i premiati sono 7. Non uno di più, non uno di meno. Non sono previste menzioni d’onore

2 – i post con cui viene presentato il premio non devono contenere giustificazioni di sorta da parte del premiante riservate agli esclusi a mo’ di consolazione

3 – i premi vanno motivati. Non occorre una tesi di laurea. È sufficiente addurre un pretesto

4 – è vietato riscrivere le regole. Dovete limitarvi a copiarle, così come io le ho concepite

Ed ora riporto i miei “premiati con pretesto”, in molti casi persone che non hanno proprio bisogno della mia menzione:

1 –  Ivano Mingotti , leggo sempre le sue poesie, quando arrivano all’improvviso, quando sto facendo tutt’altro ed entro per cinquanta secondi in un mondo diverso e profondo.

2 – Elisa , trovo passaggi toccanti in molte sue parole.

3 – Paolo Zardi, un amico al quale si deve, almeno come lontanissima origine, l’idea per cui oggi imbratto un po’ la Rete con i miei pensieri. Proprio in questi giorni ha bisogno di quel pizzico di fortuna in più per raggiungere i risultati che più merita.

4 – Morena Fanti, frasi intelligenti, stile perfetto.

5 – Fuori dalla rete, ci trovo un mix articolato di ironia, saggezza, dubbi e profondità.

6 – Carolinsigna, ci trovo pensieri lineari e molta condivisibile serenità.

7 – Amo il web non ricambiato, un luogo dove talvolta trovo il modo buono per sorridere su questioni limitrofe al mio lavoro.

Ancora un grazie sentito per chi ha deciso di incatenarmi a questa catena.

Soldato

Soldati

Sono in pausa pranzo in un locale molto affollato. Mi avvicino quel tanto che basta alla televisione per riuscire a sentire le notizie, perché il vociare degli avventori continua nonostante le scene truculente che scorrono al telegiornale. Come dare loro torto se continuano a discutere i loro affari? In fondo quelli dall’altra parte della telecamera distesi immobili nel loro sangue sono il nemico, gente che fa del cellulare ultimo grido l’idolo da venerare, mentre qui le persone muoiono di fame. Sullo schermo scorre veloce una sovraimpressione che sancisce il numero di vittime: 87 di cui 45 civili.

Ibrahim è stato bravo, penso tra me e me, ottantasette è un numero niente male, è quarto nella classifica di sempre; del resto si vedeva bene che era incazzato, aveva perso tutta la sua famiglia: moglie, figlio e tutti i fratelli. E quando non hai più niente a questo mondo, chi ti ferma più? Due giorni fa lo avevo incontrato, occhi fieri e determinati, concentrato su quale sarebbe stato il punto preciso e il momento ideale in cui farsi esplodere. L’odio azzera la paura. Quelli come lui non falliscono e rendono semplice il nostro compito.

Il nostro compito … Un tempo c’erano le guerre anche qui, un tempo si andava al fronte e si combatteva, si impugnavano le armi e si faceva morire o si moriva. Si mutilava o si rimaneva mutilati. Oggi è diverso, se crei una linea immaginaria dove combattere quelli ti mandano tutto l’arsenale che hanno e cancellano i tuoi soldati e tutto il fronte. E non rimane niente, prima ancora di poter dire “la guerra è iniziata”.

I miei superiori sono stati sempre chiari: se vogliamo che il nostro popolo si affranchi da questa vita di stenti servono soldi e armi e ancora soldi. E nessuno è disposto a dare abbastanza denaro se non porti avanti una guerra. E una guerra esiste solo se ci sono dei luoghi precisi in cui il sangue dell’uomo viene versato; non importa dove ciò avviene, l’importante è trovare questi luoghi anche al prezzo di farsi saltare in aria … Oppure bisogna aspettare nel dolore che il nemico si sciolga lentamente nel vuoto dei suoi valori.

Non oso raccontare a nessuno il sogno che insistentemente torna a tormentarmi tutte le notti da alcuni mesi; nel sonno vedo l’unico vero fronte, quello su cui dovrebbero confrontarsi i nostri popoli. Io vago per la periferia delle nostre città: miseria, fame, malattie e dolore. Le truppe nemiche avanzano e i soldati posizionano le loro artiglierie dando comandi frenetici nella loro incomprensibile lingua e subito intorno a noi inizia a piovere una gragnuola fittissima di pani e altri viveri, medicine e bottiglie di acqua. In molti cadono senza vita colpiti a morte dagli oggetti lanciati dal nemico; finalmente hanno finito di soffrire. Terminato l’attacco i superstiti seppelliscono i morti mestamente e raccolgono i viveri e i medicinali per cominciare una nuova vita e la guerra finisce. I pezzi dell’artiglieria del nemico sono inservibili, vengono abbandonati con i loro percussori grondanti mollica di pane e sono pronti per essere trasferiti nei nostri futuri monumenti ai caduti.

Mi libero dai miei sogni prima di rientrare nell’ufficio dove mi sta aspettando il prossimo soldato. Qualcuno li seleziona, io li motivo, altri ancora li preparano e infine qualcuno li segue da lontano mentre arrivano al loro obiettivo. Una catena di montaggio: nessuno potrebbe sobbarcarsi da solo il peso di portare a compimento il percorso di questi proiettili umani. Iniziano a scarseggiare, un tempo il costo più alto era l’esplosivo dei loro zainetti, ora sono loro la merce preziosa; anche la qualità inizia a diventare un problema. Gli Ibrahim sono cosa rara … Quello di oggi, non voglio neanche conoscere il suo nome, non sono dello spirito giusto, non ha nessun motivo per andare a schiantarsi contro il nemico. Non voglio sapere quale torto ha commesso per essere lì. Gestisco la discussione con un po’ di maestria dopo aver letto poche note della sua scheda personale; lui mi osserva con la fronte già imperlata di sudore, può voler dire tutto, si sa, ma quelle gocce, mi fanno capire perfettamente quale sarà l’esito di quella azione. Lo rassicuro parlando della pensione che riceverà la sua famiglia, potrà essere una bella cifra se il risultato sarà particolarmente positivo; non gli dico che è normale che nel caos di questi tempi già dopo due o tre mesi si perda traccia di chi ha diritto a qualcosa. Di certo scoraggerò l’idea che si erano fatta su di lui, un esperimento dicevano: volevano installargli webcam e auricolari e volevano guidarlo da lontano, passo passo fino all’obiettivo finale, fino a farlo saltare in aria da remoto. Lo congedo con un sorriso di incoraggiamento.

Poi mi lascio cadere sulla poltrona e osservo in alto sopra la libreria la confezione del mio nuovo smartphone. Mi è stato regalato dai superiori come premio per il lavoro svolto; ora è ancora lì, imballato, intatto, mi fissa continuamente da alcuni mesi a questa parte, vuole essere aperto …

Il complechilometro della mia auto

Lago di Garda - Complechilometro della mia auto

Un paio di giorni fa, mentre venivo a Milano, per una serie di sincronismi, ho accompagnato la mia auto a compiere i chilometri (333.333) in riva al Lago di Garda. Vi risparmio i particolari del piccolo evento di questa mia esistenza, festeggiato con birra e tramezzini di autogrill, sotto l’influsso di sentimenti contrastanti tra l’autoironico, l’incredulo e il soddisfatto. La verità è che stiamo parlando di qualcosa come 4,8 volte la circonferenza della Terra percorsa in auto nei miei spostamenti degli ultimi due anni. 🙂

Evidentemente i miei genitori non potevano immaginarlo, ma quando mi hanno messo in mano a dieci anni i romanzi di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari” e “Il giro del mondo in 80 giorni” io mi sono appassionato e si è compiuta una sorta di sinistro imprinting.

E’ la seconda volta nella vita che mi ritrovo a guidare un’auto che ho portato fino a superare la soglia psicologica di questi trecentotrentatremilachilometri. La prima volta ero assai più giovane e l’evento mi è passato vicino senza particolari riflessioni. A suo tempo questa meta era arrivata in maniera molto più graduale, in molti più anni e con una dinamica molto più naturale. Ora è stato tutto diverso. Si è trattato di un accadimento arrivato nel tumulto esistenziale, ricchissimo di riflessioni e di collegamenti.

Lo so, molti potrebbero pensare a quanto di sbagliato ci possa essere nel condurre una vita così poco attenta ad alcuni degli aspetti più banali della ragionevolezza. Vi posso garantire che ci sono veramente tanti diversi risvolti tutti sbagliati. I rischi, gli impatti ambientali, lo “spreco” di tempo, e se continuassi non rimarrebbe più spazio per altre parole in questo articolo. E so anche perfettamente che la grandissima maggioranza di persone, trovandosi al mio posto, sarebbe stata molto più saggia e avrebbe trasformato l’esigenza lavorativa in opportunità, avrebbe colto l’occasione per diventare, almeno un po’, cittadina di un’altro luogo. La ricchezza e la nostra crescita si ottengono anche cambiando le prospettive e favorendo il cambiamento.

Lo so, è tutto vero, però, ci ho pensato molto mentre sulle rive del lago riflettevo sull’evento: ha molto senso questa mia vita degli ultimi due anni trascorsa quotidianamente in due punti diversi della cartina geografica d’Italia. Non avrà un gran significato per la maggioranza delle persone, questo è certo, però io credo che nella vita non dobbiamo sempre ancorarci a quanto sia ragionevole fare, a quanto sia ovvia e saggia la consuetudine. Penso semplicemente che ognuno di noi ha un suo modo di esistere interiore che deve assecondare. Per stare bene con sé stesso, per trovare l’armonia anche nelle difficoltà, per non dimenticare che il sentimento deve avere uno spazio importante se non nella misura del tempo a sua disposizione almeno in quello dei desideri da perseguire.