Il dilemma del come spiegare

Cumuli_e_Luna

Conoscevo Franca da una quindicina d’anni. All’inizio ci frequentavamo con la compagnia di amici comuni. La nostra amicizia, sempre genuina, si era sviluppata gradualmente, all’inizio molto superficiale, poi sempre più stretta per le innumerevoli affinità che ci legavano.
Negli ultimi anni la compagnia si era sciolta, essendo tutti gli altri persi a seguire il corso delle loro vite, tra coniugi e figli, lavoro e routine esistenziale.

Io e Franca invece avevamo continuato a vederci, ritagliandoci innocui spazi all’interno delle nostre relazioni sentimentali per coltivare le sintonie della nostra amicizia. E ci trovavamo spesso da soli o in compagnia a gustare una chiacchiera davanti ad un aperitivo o passeggiando abbracciati allegramente per il centro rimanendo entrambi sorpresi dall’arguzia dei suoi commenti su bancarelle e passanti. Quando ero con lei tutto si muoveva in un’armonia che non ammetteva incertezze e si sviluppava con una serena naturalezza che lasciava spazio solo per la nostra spontaneità.

Forse proprio per questo, a dire il vero, non riuscivo a spiegarmi come mai quella sera finimmo in quella situazione. Il bosco intorno all’abitato iniziava a scurirsi preparandosi alle tenebre e nel cielo altissimi cumuli nembi si sviluppavano a vista d’occhio minacciando di ricoprire la luna con il loro carico di pioggia fitta. Intorno a noi le luci fioche dei lampioni appena accesi gareggiavano senza primeggiare con la luminosità  diffusa del tramonto frettolosamente partito dall’orizzonte per arrivare in tempo per trasformarsi in alba di lì a qualche ora. Una certa ansia si faceva strada nei nostri cuori e non tanto per l’atmosfera quasi magica dell’imbrunire, ma per il fatto che avevamo già provato ormai troppe volte a trovare la strada per ritornare alla nostra auto per rientrare alle nostre case e sempre questi ceffi alti e minacciosi ci avevano sbarrato ogni passaggio.

Non sapevamo chi fossero. Erano strani. Lunghi e magri come fuscelli, con un volto innaturalmente scarno. Lei subito aveva associato il loro viso all’urlo di Munch.
E a fatica, dalla piazza principale, eravamo riusciti a raggiungere una piazzetta laterale appartata da cui sapevamo si sarebbe potuto imboccare un sentierino stretto e ripido che ci avrebbe portato al parcheggio, ma lì dall’alto vedemmo bene che intorno alla nostra auto altri due di quei brutti ceffi si aggiravano minacciosi. Ci fermammo un attimo, fissandoci negli occhi. Non riuscivamo proprio a spiegarci come saremmo potuti uscire da quella situazione. Credo che dal mio sguardo trasparissero i segni di un crescente smarrimento, perché lei si fece carico della situazione e trovò la soluzione.

Mi prese la mano, sorridendomi, stringendola forte. Io per reazione le presi l’altra, si avvicinò lentamente e con naturalezza in un momento che sembrò durare una vita appoggiò le sue labbra sulle mie. Il bacio fu come se da sempre fossimo abituati all’intimità, ma con l’emozione dirompente del primo bacio della vita. Lasciammo le nostre mani per avvolgere con le nostre braccia il corpo dell’altro e continuammo. Spinse il suo bacino contro il mio e io assecondai il suo movimento andandole incontro.

Non so quanto durò quel lungo passaggio, so che il pensiero dei ceffi più sotto non era più all’ordine del giorno. Ci scostammo un attimo, con un sorriso dipinto in volto, che più che dalla bocca nasceva dagli occhi e con un movimento sincrono, quasi le nostre menti fossero mosse da una coscienza comune, raggiungemmo una panchina a pochi metri da noi, mi distesi e lei si accovacciò sopra di me con leggiadria massimizzando il contatto tra i nostri corpi. Sentivo distintamente ogni singolo punto del mio corpo dolcemente sfiorato dal suo e ognuno di quei punti mi lanciava vibrazioni ed emozioni che accrescevano la mia eccitazione e il mio trasporto.

Con il suo viso chino su di me, lasciò che i suoi lunghi capelli, in caduta libera, circondassero il mio volto come in una prigione. E in quella gabbia, le sue labbra fecero scorribande a lungo e senza freno a sondare ogni angolo del mio viso. Voi non avete idea di quanto morbide fossero quelle labbra e quanto, anche solo sfiorando la superficie della mia pelle, mi stessero entrando dentro l’anima.

 Paparapapà paparapurapurapù ….    La musica della sveglia del cellulare si fece sempre più insistente, nonostante il mio inconscio si rifiutasse completamente di distogliersi dal momento magico che stavo vivendo. Ci vollero, io credo, alcuni minuti prima che la realtà riuscisse ad acquisire un barlume della sua sostanza. Con fatica alzai la schiena tendendo le braccia puntellate dietro per mantenerla ritta. Ero confuso. Non era l’eccitazione ancora viva a tenermi in quello stato. Era quella sensazione naturale e intensa di amore appena sbocciato che stava scuotendo ogni poro della mia pelle che non riuscivo più a riportare ad una dimensione nota della mia esperienza.

Ci vollero altri minuti prima che riuscissi a modificare la mia posizione. Mi girai di lato, con i piedi a sfiorare il pavimento ancora freddo dalla notte e rimasi a ciondolare lì seduto perso in pensieri sempre più tumultuosi. Proprio nel pomeriggio dovevo vedermi con Franca. E adesso? Come avrei mai potuto spiegarle che tra noi era tutto cambiato?

L’importanza dell’aria e come la viviamo

Aria2

Un po’ di tempo fa, non poi così poco visto il susseguirsi di giornate che da allora ho visto passare, tutte così insensibili da non chiedermi mai il permesso di andarsene per lasciare il passo alla successiva, avevo scritto da qualche parte nel mondo virtuale questa frase:

Per capire veramente quanto importante sia l’aria bisogna provare a trattenere il respiro

Ad essere sincero non sono nemmeno mai stato sicuro che si trattasse di originale farina integrale del mio sacco. Ormai nella storia dell’umanità è stato detto e scritto, ascoltato e letto così tanto che non si può mai essere certi di non trafugare l’originalità con pensieri personali mischiati a ricordi inconsci che riaffiorano mistificanti.
Ma a dire il vero questa questione è abbastanza irrilevante.

La vita insegna a piccoli passi lezioni importanti e spesso difficili da capire nella loro pienezza. E da allora il corso dell’esistenza non si è risparmiato nel farmi provare di quando in quando i momenti di apnea in cui si capisce appieno quanto l’aria sia importante. E quella frasetta di allora rimane inevitabilmente sempre valida.

Da un po’ di tempo a questa parte, però, il mio pensiero si è modificato. E una delle cose più belle che ci possano capitare nella nostra inevitabile introspezione è accorgerci che su certe questioni sappiamo rielaborare e modificare emozioni e percezioni fino ad apprezzare aspetti precedentemente non valutati e fino a creare nuovi stati di coscienza e sentimento che ci fanno sentire dentro un processo continuo di crescita. Un cammino che non ha vere soste.

Oggi non scriverei più quella frase, e non perché l’aria sia meno importante oggi del passato. Non scriverei più quella frase perché da tempo ho capito che il centro vero è da un’altra parte, nella nostra personale, intima e cosciente attitudine a vivere l’indispensabile, costante, presenza dell’aria. E, guarda il caso, si gode veramente dell’aria non quando la tratteniamo dentro di noi, ma quando la facciamo nostra, e, dopo che le abbiamo iniziato a togliere l’ossigeno, la liberiamo sperando che al prossimo passaggio sia di nuovo carica di vitali molecolone.

Ecco, oggi ero perso in queste riflessioni, che non potranno che essere oscure, perché l’autore oggi è fuori servizio. Tuttavia mi è venuta questa intuizione geniale (licenza poetica) che volevo condividere: molti aspetti e vicende della vita si vivono bene solo se riusciamo davvero a riportarli al semplice meccanismo del respirare.

Quando inventammo la tenerezza

UomoCaverne

La caverna della nostra comunità era ampia e spaziosa, piena di cunicoli ed anfratti, dove l’odore della carne consumata nelle sere di estate, prima di coricarci, permaneva a lungo intenso e pungente e ti sembrava di continuare a mangiare anche quando sul fuoco non era rimasto più niente se non ossa spolpate.
L’avevamo conquistata molte lune prima e da allora nessuno straniero era più riuscito nemmeno ad avvicinarcisi. L’imboccatura della galleria era difficile da raggiungere, in cima alla collina e solo una comunità molto più numerosa della nostra avrebbe potuto sperare di farla sua.

Da allora vivevamo un periodo sereno, fatto di caccia abbondante lontano da predatori pericolosi, coltivazioni improvvisate, ma rigogliose, e armonia tra di noi. Fu in quel periodo che cominciammo a frequentarci di più dei soliti accoppiamenti occasionali in uso tra noi della comunità.  Dapprincipio non fu facile convincerla. Le stranezze, qui, non piacciono a nessuno, hanno il profumo del pericolo. Ma quando le fissavo gli occhi, anche all’inizio quando si scostava scontrosa, vedevo che dentro di lei si muoveva una luce che sembrava dire: “No! Assolutamente no! … ma mi incuriosisce.”

Trovavo la sua curiosità stimolante quanto le curve che portava con disinvoltura davanti e dietro. Mi piaceva da morire passarle vicino sfiorando con il mio braccio il suo seno pronunciato. Nessun altro maschio lo considerava, tutti così atavicamente concentrati sul sedere delle femmine. Ci volle tempo, ma poi si capì che il mio strano comportamento, non la lasciava indifferente e quel che accadde dopo fu molto chiaro.
Un giorno avevo provato ad avvicinarmi sornione e strusciante, ma lei si ritrasse scontrosa e stizzita, lasciandomi dentro l’animo una sensazione che io associai al dolore fisico. Per molti giorni non osai più nemmeno farmi vicino, poi, inaspettatamente, ero appena rientrato da una lunga battuta di caccia, gli altri uomini si complimentavano dandomi pacche sulle natiche per il ricco bottino conquistato e, di nascosto, lei mi si fece in fianco e si strofinò plastica su di me.

Non so bene nemmeno come accadde, quel giorno ero troppo confuso per fissare i ricordi, tuttavia quella sera ci ritrovammo in uno dei cunicoli della caverna, la luce fioca la illuminava dolcemente, e passammo del tempo distesi, uno sopra l’altra, uno dentro l’altra. Io ero confuso, lei era preoccupata. Credo le sembrasse innaturale almeno quanto a me (e forse molto di più) non essere penetrata da dietro, come sempre, fino ad allora, si era fatto nella nostra comunità.

Piano, piano, da allora, i nostri incontri si fecero più lunghi e inconsueti. Tantissime volte ci ritrovavamo distesi fianco a fianco, la fissavo ammaliato nei suoi occhi luminosi, con la mano sinistra le sorreggevo la testa palpando i suoi capelli lunghi e sottili che raccoglievano terra e polvere in una consistenza morbida e piena di riflessi. L’altra mano era rapita dalle sue dita che giocherellavano intrecciandosi con i miei polpastrelli. Il suo fianco era appoggiato alla mia gamba, mentre i nostri bacini rimanevano avvinghiati, compenetrati, ondeggiando soavemente quasi immobili. Passavamo in quella posizione lungo tempo e si capiva come lei amasse molto rimanere lì, distesa, oggetto di attenzioni, rubando ogni possibile istante prima di ritornare alle faccende di gestione dei raccolti a cui erano preposte le femmine della comunità.

Poi venne il giorno.
La stavo tenendo stretta a me, con il mio braccio destro sotto il suo sinistro, e con l’altra mano le facevo oscillare le anche giocosamente in un preludio di carezze. Avevo occhi solo per lei, per il suo sguardo e il suo sorriso, per la sua carne soda e muscolosa che si intravedeva sotto la pelle che la copriva. Non avrei potuto accorgermi in nessun modo della clava che scendeva pesante, senza esitazioni, con un colpo secco sulla mia testa.

Stramazzai a terra in un tonfo e per poco l’avrei trascinata al suolo con me, se il capo della comunità non l’avesse afferrata per i capelli dopo aver ripreso il controllo della clava. La trascinò per la capigliatura qualche metro più in là dentro la caverna, mentre lei non opponeva nessuna resistenza. La girò rivolgendola verso di me, le si mise dietro, le sollevò la pelle di leopardo che la copriva giù fin oltre i glutei e la infilzò.

La testa mi sembrava rotta in mille pezzi, sanguinavo a fiotti. Il dolore lancinante si mischiò ad una rabbia profonda. Gli anziani della comunità sostenevano che quando stai per morire rivedi la tua vita. Velocissima. Speravo che avrei rivisto i miei momenti con lei …
Non è così. Io dapprincipio vidi solo il rosso del mio sangue, poi la testa, sì, si riempì di immagini, ma non mi riguardavano. Forse erano lampi che avevano a che fare con il futuro.

Vidi qualcuno che sosteneva che alle donne erano cresciuti i seni solo dopo che erano cambiate le posizioni dell’accoppiamento. Ma io sapevo bene che non era così.
Vidi missionari che vantavano diritti su posizioni. Ma chi cavolo erano questi missionari?
Vidi un fiume di persone credere che noi uomini delle caverne usavamo la clava per controllare la femmina riottosa. Ma quando mai? La clava serviva ad altro.
E vidi mille altre immagini. Tutte cazzate!

Chiusi gli occhi. Li tenni al riparo qualche frazione di secondo dal sangue che colava copioso sul volto e poi giù subito fino a terra. Avevo freddo. Feci l’ultimo sforzo della mia vita. Aprii le palpebre. Riuscivo a mettere a fuoco solo il centro del mio campo visivo. C’era lei. Oscillava al ritmo imposto dall’ominide dietro di lei, il profilo dei suoi seni usciva rigonfio tendendo la pelle di leopardo che mal li conteneva. Mi fissava con dolcezza. I suoi denti storti e incrociati mi lanciavano un sorriso enigmatico. Era bellissima!

I due microbi

Ingranaggi

Romt era un microbo che viveva sulla punta di un dente di un ingranaggio dentro un orologio da polso, massiccio, tutto d’acciaio, cinturino incluso. Giovanna, la proprietaria dell’orologio, non aveva la benché minima idea della sua esistenza.

Romt era un compagnone. Era esuberante e pieno di vita, trascinava tutti con il suo buon’umore e aveva in ogni situazione lo spirito giusto per entusiasmare. Gli capitava spesso di passare intere giornate raccontando la barzelletta che piaceva a tutti, quella sul mitocondrio innammorato, che scatenava intorno a lui la più viva ilarità e faceva assiepare addosso a lui le altre microbine che abitavano quel luogo dell’Universo che loro chiamavano casa. Dopo il divertimento gli piaceva molto donare sé stesso attraverso i peduncoli che pescavano dritti dritti dentro di lui le sue catene di DNA. In quei momenti provava qualcosa di profondo che gli sembrava desse un senso preciso alla sua vita. Questo estrarre pezzi del suo io più recondito e autentico per donarli a chi gli stava vicino, gli creava una sensazione come di eternità.
E spesso si perdeva a guardare il panorama sopra di lui, immerso in queste sensazioni, pensando a futuri momenti ancora differenti dal passato.

Gult era una microba che viveva nell’avallamento tra due denti di un ingranaggio dello stesso orologio. Giovanna, pur non conoscendo l’esistenza nemmeno di Gult, viveva bene lo stesso.

Gult era una tipa schiva. Non dava confidenza a nessuno, e passava tutto il tempo sempre intenta nelle sue faccende con lo sguardo rivolto verso il basso. Nulla la distraeva e nulla la interessava veramente.
Ma quel giorno fu presa da una sensazione strana. Le sembrava di percepire come se il suo tempo stesse cambiando, come se ci fosse qualcosa di nuovo, mai provato prima, da assecondare. Alzò allora lo sguardo e lo vide da lontano. Era tutto un movimento armonico, tutto un fermento di energia ed entusiasmo. E i rumori lontani che arrivavano dal suo luogo erano di allegria e spensieratezza.

Gult non era mai stata attratta dalla mondanità, non si era mai interessata alle leggerezze e il suo occhio era sempre stato ancorato alla levigata superficie di casa sua. Ma quel giorno alzò lo sguardo e sorrise, perché quel personaggio lontano di cui non conosceva nemmeno il nome, aveva qualcosa di straordinario, aveva un fascino che lo rendeva importante. Non era perché si atteggiava a capetto animatore della sua brigata, si vedeva che laggiù dove viveva era l’idolo di tutti. Ma questo non significava niente. Era la dolcezza con cui alzava lo sguardo nella sua direzione che la colpì. E i giorni che seguirono lei non fu più quella di prima.

Romt la notò subito. Gli occhi alzati avrebbero potuto fermarsi su mille obiettivi differenti, invece non ebbe nemmeno modo di razionalizzare, fu rapito da quella vista e su di essa si concentrò come mai gli era capitato nella vita. Non sapeva nemmeno spiegarsi perché. Era una microba dall’aspetto dimesso e quasi ordinario, si capiva che era una tipa schiva e non predisposta ad appassionarsi alle caratteristiche goliardiche del suo carattere. Tuttavia aveva una bellezza che andava oltre l’estetica, rispondeva ai suoi ondeggiamenti con impercettibili movimenti in sintonia perfetta con lui. E queste non sono armonie che si incontrano tutti i giorni.

I loro ingranaggi regolavano la fase lunare dell’orologio e il loro avvicinamento fu lento e sempre più carico di passione attesa e complicità. In tutto quel periodo, Romt raccontò la sua barzelletta preferita da tutti con un po’ meno partecipazione del solito e fece fatica a dar retta a tutti i suoi amici che cercavano di trascinarlo nella mischia del divertimento. Spesso non si faceva nemmeno coinvolgere finché da lontano, ma ogni giorno sempre più vicino, Gult non gli faceva un cenno con un sorriso di lasciarsi andare a chi lo cercava così insistentemente.
Gult, dal lato suo, sempre più spesso abbandonava le sue faccende per ammirare l’avvicinamento di quel microbo così affascinante e spavaldo, che arrossiva con tenerezza quando la guardava.

Da poco erano riusciti a scambiarsi reciprocamente i nomi e già pregustavano l’imminente momento dell’abbracciarsi stretti, quando Giovanna stava attendendo con  impazienza l’arrivo dell’amico che non vedeva da tempo. I suoi ricordi erano un po’ offuscati, ma non si ricordava che fosse persona da dover aspettare così tanto tempo. L’impazienza virava velocemente all’insofferenza e il giornale, che stava sfogliando distrattamente nell’attesa, le ricordò che la fase lunare di quel giorno sarebbe stata una bella luna piena e non quella falce appena accennata che riportava il suo orologio.

Armeggiò allora sulla rotella dell’orologio finché la fase lunare non fu posizionata su una bella luna piena e ne trasse quel po’ di soddisfazione utile per dimenticare il disagio del ritardo del suo imminente partner. Soppesò sul polso l’orologio d’acciaio. E il peso greve del metallo le dette  una piacevole sensazione un po’  bondage, che la fece eccitare e sorridere al pensiero che nessuno avrebbe conosciuto il suo piccolo segreto.

Gult e Romt ebbero un incontro intensissimo e sconvolgente. Ma molto, molto veloce, e dovettero fare subito le loro scelte. Gult capì subito che il mondo di Romt non poteva fare per lei. Sarebbe sempre stata un pesce fuor d’acqua, intenta in faccende che gli altri non avrebbero potuto né comprendere, né apprezzare. Romt avrebbe dovuto decidere se abbandonare la sua casa, le sue amicizie, i festini in cui era il mattatore, la sua barzelletta ripetuta all’infinito, tutto in cambio di una semplice incerta perfetta sintonia.

Allontanandosi, ritto e contrastato sulla punta del dente del suo ingranaggio, Romt guardò a lungo Gult con il volto chino intenta nelle sue faccende, sperando che alzasse il suo sguardo. Perché questo è quello che successe.

Un difetto dei giovani (maschi) di oggi

Il_Grnochi_Rosa

Oggi, dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a ricaricare le pile esauste, si sarebbe dovuto lavorare ad un raccontino, invece, complici le coincidenze, così non è stato. Ne è sortita una giornata da difetti.

Alla mattina presto è arrivata la signora gentile ed energica che mi aiuta a tenere pulita e in ordine la casa, le ho offerto il caffè, come è consuetudine del sabato prima dell’inizio dei lavori,  e abbiamo scambiato due parole in ordine sparso. Sono così venuto a sapere che la Cgia di Mestre ha appena emesso un’altra delle sue analisi statistiche di grande interesse per il panorama economico italiano, immediatamente echeggiata dal telegiornale di prima serata di una tv locale a larghissima diffusione provinciale. Praticamente, se l’analisi e la sua interpretazione sono corrette, in Italia il lavoro c’è tutto, ma ai giovani italiani non piace più sporcarsi le mani.
A dire il vero questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Non sono riuscito a leggere, né a conoscere il contenuto del comunicato, e qualche perplessità su tutta questa abbondanza di posti di lavoro, non vi nascondo, mi rimane forte. Tuttavia mentre parlavo delle implicazioni di questa notizia shock, il mio pensiero è andato a finire su un evento che si è manifestato profondo negli ultimi dieci-quindici anni di silenziosa e devastante efficacia. Un tempo le compagnie telefoniche mobili erano quello che erano, con il loro target di mercato di riferimento fatto di business man tesi a dimostrare che il loro telefonino era più cazzuto con una tariffa più capace di fare miracoli di tutte le altre. E si sa bene, i business man non perdono né il pelo, né il vizio. Sono ancora tutti là a misurarsi su queste cose strategiche.

Le compagnie telefoniche però si sono un po’ dimenticate di questa importante corsa all’apparire del business, perché il centro delle loro attenzioni si è spostato da tempo su giovani e giovanissimi.
A dire il vero anche questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Ora sento già sfregolare le mani di quei lettori tra voi che stanno aspettando il momento di poter scrivere con soddisfazione come commento qualcosa del tipo “Questo articolo è una vera ca..ata!!!”. Perché mettere in relazione organica l’attento studio della Cgia di Mestre con il solerte impegno delle compagnie telefoniche che compiono quotidianamente l’altruistico straordinario miracolo di far colloquiare tra loro incessantemente questa montagna di giovincelli appare impresa fuor dall’umana possibilità.

Fortunatamente mi soccorre in extremis proprio la panacea di tutto, di sempre, da sempre: il sesso. E anche il collegamento impossibile diventa facile.

Perché sappiamo tutti bene che passiamo il nostro tempo, diciamo per non offendere nessuno una cifra variabile dal 50% al 95% del nostro tempo (che nel seguito per semplicità indicheremo con la cifra tonda del 90%), con il pensiero o il retropensiero finalizzato all’accoppiamento. E i giovani di questi ultimi quindici anni sono stati facilitati anche troppo su questo fronte, perché le loro famiglie benestanti (e non) li hanno messi nelle condizioni di avere in tasca sempre due cose: qualche soldo, giusto il minimo che serve per sballare un po’, e un cellulare, il buon veicolo per rimanere sempre in connessione con il centro dell’attenzione di qualcun altro.

Mi sembra di poter dire che ragazzi e ragazze vivano queste comuni fortune con approcci molto diversi in sintonia con la loro armonia di genere. Le ragazze vivono il cellulare come uno strumento per aumentare il proprio fascino, istillare curiosità e contatti, punzecchiare il materiale emotivo dei maschietti intorno a loro. I ragazzetti sono invece molto più rozzi e pesanti, rapaci e ottusi.

Faccio un salto indietro nella mia gioventù e mi immagino come avrei potuto reagire ad una vita così come viene offerta ai giovani maschi di oggi. Il 90% dei miei pensieri sarebbero soddisfatti (o comunque persi) attraverso forme diverse di comunicazione tutte in mio potere, avrei avuto in tasca sempre più soldi di quelli di cui avrei avuto stretta necessità.
E allora se avessi dovuto imboccare un lavoro faticoso (magari di muratore ed idraulico in cui si costruisce qualcosa di concreto) per portare a casa gli stessi soldi che già avevo in tasca, chi me l’avrebbe fatto fare? Ho visto molte facce di certi ragazzi di oggi dire la stessa cosa.
Se avessi voluto usare quel 10% di energie residue per fare qualcosa di importante avrei accettato un primo lavoro per meno di duemila-tremila euro al mese? I ragazzi di oggi tendono a non farlo. Molto meglio fare qualcosa di idealizzato, non pratico, oppure peggio, finalizzato solo a poter esercitare un giorno una professione che soddisfi quell’arcigna voglia, propria dell’animo maschile, di primeggiare schiacciando chi ci è intorno.

Purtroppo lo studio della Cgia di Mestre è aria fritta. Usa la cognizione comune che i giovani d’oggi apparentemente hanno tutto quello che serve per appagare il 90% dei loro bisogni apparenti, per giustificare il fatto che il lavoro abbonda sulla bocca degli stolti. Ci sono problemi infiniti intorno a tutto ciò, dall’economia reale, alle banche, dalla etica (sentite come suona male anche solo scritta), al lavoro pubblico, dalla mancanza di linee guida di lungo termine, alla pazienza e alla determinazione per perseguirle.

Tuttavia, cari giovani maschi di oggi, lo so i vostri genitori vi proteggeranno da questo evento, ma un giorno le vostre compagne vi spiegheranno l’obiettivo dell’accoppiamento, diventeranno facilmente insofferenti anche se avrete in tasca molti euro e l’ultimo cellulare i-grido, e se avrete troppo apprezzato soldi e divertimenti facili, farete davvero fatica a fare il piccolo passaggio che intercorre tra l’essere fruitore e l’essere creatore. Perché per fare questo insignificante passaggio è necessario prendere le proprie palle e metterle sull’incudine. Prima lo si fa, prima ritornano della loro forma naturale.

Un difetto dei blog

Edera

Oggi passeggiavo tranquillo per le lande che frequento usualmente in questo periodo. Tra le altre questioni un po’ più rilevanti, pensavo anche a quale sarebbe stato il mio prossimo post. Ho una serie di raccontini, idee e altre sciocchezuole che aspettano di essere sviluppate e poi consegnate alle rotative virtuali del tasto Pubblica di wp.

Ma la verità è che in questi giorni non ho veramente voglia di raccontare niente. Non mi sento all’altezza dell’uscire dal banale. Mi sento come se fossi avvolto da un’edera che oscura tutto,  anche le antenne sensoriali.

In questo frangente la voglia di dire qualcosa diventa effimera e i pensieri sono rivolti soprattutto alla confusa introspezione.

Ora che di questo articolato mondo dei blog capisco qualcosa di più dello zero assoluto di qualche mese fa, devo dire che è una figata da molti punti di vista. E, se dovessi riassumere al massimo questo pensiero per non diventare noioso, direi  che credo tutto abbia a che fare con il rispetto, la libertà e la comprensione reciproca. Per lo meno nella maggioranza dei casi.

Il rispetto di chi scrive qualcosa nei confronti dei propri sparuti potenziali lettori, e, dall’altra parte, proprio i lettori, che leggono quando vogliono, con l’attenzione che si sentono di fornire in quel momento della loro vita, con lo spirito ugualmente aperto alla critica, alla suggestione, alla costruttiva valutazione, alla curiosa attenzione. Questa libertà e l’arricchimento nella comprensione che ne consegue è la vera anima del mondo blog e dello spirito che lo anima.

Ma, in giorni come questi, la predisposizione è ancora differente. Sarà l’atmosfera vacanziera che il popolo immerso nelle sue holidays immancabilmente trasuda anche in questi luoghi, saranno le piccole insignificanti storie personali che accadono nella realtà, sarà il repentino passaggio dal caldo torrido al fresco inatteso di questi giorni, difficile valutare. Il risultato finale è che in questi giorni mi è chiarissimo uno dei limiti più grandi di questo spazio virtuale dei blog.

Si sente la mancanza nel non avere a disposizione uno strumento blog che, all’occorrenza, diventi introspettivo. Che ti consenta, ogni tanto, di scrivere qualcosa non rivolto all’ignoto o alle altre persone intorno a noi, ma che sia esclusivamente indirizzato a tutti quei pochi o tanti io (c’è chi ne ha di più, chi ne ha di meno, ma tutti siamo un po’ multipli dentro noi stessi) che abitano la nostra mente e il nostro cuore. Si sente la mancanza di poter scrivere qualche parola, anche raffazzonata (tanto la comprensione dovrebbe essere facile, almeno così si spera), e lasciarla là a disposizione perché l’io di turno che ne ha voglia ed è ispirato, la possa leggere e dia i suoi consigli e i suoi commenti.

Immaginatevi se a fronte di un disagio, o un dubbio esistenziale, o lo scoramento, o l’entusiasmo, o l’amore cieco, potessimo lasciare arrivare gli io nascosti dentro di noi ad uscire allo scoperto, leggere quando ne hanno voglia,  comprendere e rielaborare, proporre, fare un passo avanti o uno indietro spontaneamente. Arriverebbe il Pj razionale, ancorato alla sua ottusa convinzione che due più due fa cinque, e rifletterebbe senza il bisogno di convincere nessuno su niente, l’io romantico che non si accanirebbe a punzecchiare questo nostro cuore più pervicacemente del mondo femminile intorno a noi, arriverebbe l’io sognatore e magari capirebbe che per questa volta è meglio tenere i piedi per terra, il Pj prudente o quello coraggioso che potrebbe finalmente convincersi che questo è il suo momento. E piano piano si farebbero sentire, così, senza una regola tutti gli altri. Il Pj bambino, quello serioso, quello burlone, quello stanco, il pilota esperto, il centauro mancato, lo sportivo alla Decoubertain, il Pj un po’ maligno, quello che vorrebbe bere un amaro prima di coricarsi e quello che fuma tranquillamente seduto in poltrona … E così via. Una cosa è certa. L’ipotetico blog di cui parliamo avrebbe davvero un sacco di followers.

Purtroppo un diario non sarebbe la stessa cosa. Equivale a mettere tutti i PJ che abbiamo dentro di noi nello stesso luogo e nello stesso tempo a discutere in una riunione troppo spesso ciarliera e improduttiva. Mentre lasciandoli ciascuno libero a sé stesso, senza vincoli di sorta e bisogno di interagire l’un l’altro, se ne vedrebbero, io credo, delle belle.

Chissà quanti commenti e osservazioni argute, tutte da rielaborare a posteriori per trasformare la nostra confusa introspezione in crescita ripida, rapida e produttiva.
Ecco cosa manca a questo mondo dei blog. Uno spazio completamente privato e incomprensibile al resto dell’Universo, dove far accedere in libertà qualche rara volta solo i nostri io interiori.
E se poi, vi chiederete, uno di loro perdesse la sua password di accesso?
(direi io) Sfiga! La password non si può recuperare e dovrebbe starsene buono senza rompere più le palle … per il resto della vita.