Gli ingranaggi

È sorprendente come nella vita e nella meccanica tutto funzioni nella stessa maniera. Due ingranaggi studiati per muoversi assieme, ad esempio le ghiere di un vecchio orologio da polso, se sono in fase tra loro, scandiscono il tempo sotto la stella della perfezione. Ma se si muovono solo minimamente fuori sequenza, i loro denti si scontrano, come mostruose mandibole affamate,  e sgretolano, giro dopo giro, ogni brandello della loro carne d’acciaio.
Tra le persone le dinamiche non sono poi così diverse. Si può essere anche fatti gli uni per gli altri, ma se si perde la sintonia, è davvero facile, anche senza volerlo, mutilare irrimediabilmente chi ci sta vicino.

Milanesi

E’ qualche anno che, mio malgrado, bazzico per Milano. In realtà, Milano non la conosco per niente e la sostanza è che esisto in Milano perlopiù perché qui io lavoro, e vivere e lavorare, ancorché spesso facciamo finta che non sia così, sono concetti antitetici.
Vi anticipo. Qualcuno, leggendo il seguito di questo articolo, potrebbe pensare che io intenda con queste poche righe dare dei giudizi. Non è affatto così. Non sono titolato a valutare alcunché, ne tanto meno a giudicare nessuno.
Il fatto è che ogni tanto, mentre vado o mentre torno, vengo sorpreso da piccole cose che mi fanno simpatia e mi fanno sentire che, anche lavorassi qui per vent’anni, non potrei mai assumere il layout esistenziale di un Milanese. Sono anni che passo per la tangenziale e sono sempre stato affascinato dalla sede di una vecchia azienda (che credo sia fior fior di azienda, n.d.r.) che si chiama Calamit. E il logo sull’edificio stile anni settanta recita un accattivante “Magneti Calamit”, che, se ci pensate bene, è la somma sintesi di tutto un complesso lavoro di costruzione di un’immagine aziendale. Sono invece solo poche settimane, da quando mi sono accorto che lì, lungo la tangenziale, a poche centinaia di metri dalla Calamit, esiste un’altro esempio di genialità concreta della mentalità milanese. Ci sono i “Pellet Bruciaben”.
E’ più forte di me, quando passo lì vicino, non riesco a bloccare un sorriso che mi sale dal profondo. Non dovete credere che io non ci provi a soffocarlo quel sorriso, ci provo sempre, e lui, sornione, se ne salta fuori sempre e mi disarma.
I Milanesi sono così. Geni del marketing, adoratori sfrenati della semplicità votata all’efficienza, costruttori di mode simpatiche per variare la quotidianità.
E la loro attitudine si spiega facilmente. La vita qui è frenetica, scandita da tempi serrati e da lunghe pause in attesa che si liberi qualcosa o qualcuno, non c’è spazio per la rielaborazione creativa, per gestire la complessità, per inventarsi qualcosa anche sulle questioni più usuali. No, si và di semplicità. Io lo considero un insegnamento di vita.
C’è un nuovo paese da creare alla periferia di Milano con cui colonizzare qualche spazio verde? Ha senso perdere del tempo per inventarsi un nome significativo? No. Diamogli un qualsiasi prefisso non ancora utilizzato (va bene anche “Chissene”, perché “Carug”, “Agr” e “Lin” sono già stati utilizzati), l’importante è che abbia alla fine “ate”  così tutti sapranno, anche se non l’hanno mai sentito prima, che si tratta di un paese alla periferia di Milano. Tanto, che importanza può avere? Tutti i suoi abitanti, nella realtà, vivranno in coda in tangenziale comunque.
I Milanesi sono un popolo a sé. Multietnico in origine. Molti italiani sicuramente, diversi “terroni” (termine che qui viene nostalgicamente utilizzato solo dalle persone originarie del sud per evocare le loro origini ormai nebulose nei ricordi, ma radicate nell’animo). Però la sostanza è che si è creato un macroclima locale nel raggio di cinquanta chilometri dal centro di Milano in cui l’etnia si è omogeneizzata nel frullatore del traffico.
Qui vige il concetto comprensibile. Badate bene che non sempre nel lavoro le cose sono semplici. Anzi, più aumenta la competitività, più bisogna gestire la complessità. Però qui è impossibile portare avanti un ragionamento che richieda più di tre passaggi. La mente Milanese si ferma, smette di funzionare, si entra in un empasse, da cui si può uscire solo aumentando il numero di Milanesi coinvolti, frazionando il problema, o semplificando la soluzione con esempi noti, meglio se coinvolgono in qualche passaggio qualche fenomeno tipico della tangenziale intasata.
Immagino che tutte queste cose che ho detto siano abbastanza oscure. La soluzione “milanese” per chiarificare la questione sarebbe stata molto semplice.
Se fossi stato un Milanese al posto di queste cinquecento inutili parole avrei scritto: “Rientrato al lavoro. Tangenziale sgombra. Musica a palla, quella giusta.”.

 

Insonnia

Vorrei dormire
ma non posso,
i pensieri contemplano
tutte le direzioni
come particelle in fuga
in una camera a nebbia.
Il tempo si è fermato
giacchè passato e futuro
si sono appena scontrati.
E io li ho visti.
E ho visto il vuoto presente.
L’equilibrio si spezza
l’attesa svanisce
la notte ne cela
il confuso presagio.

 

Déjà vu

Sto scrivendo questo articolo, il mio nuovo wordpress sostiene che questo è l’articolo numero cento e mi sento un po’ come nel film Matrix. Quando si percepisce un déjà vu, vuol dire che qualcuno, magari un cattivo, ha deciso di riscrivere la realtà virtuale in cui noi ignari viviamo.
Non mi piace l’idea che ci sia un doppio articolo numero cento e quindi riempio queste poche righe quasi più con l’idea di tracciare una linea di separazione tra due argomenti su un foglio di appunti, piuttosto che con l’intento di sfoggiare pensieri significativi.

Il blog ha una nuova casa, l’aspetto è molto simile a dove viveva qualche giorno fa, ora però ci sono limiti significativi nell’interazione con il mondo wordpress.com, nonostante abbia con successo attentato al libero arbitrio dei followers migrandoli su questa nuova spiaggia. Sono stato a lungo incerto sulla migrazione dei follower. Non volevo farlo, anche se poi qualche commento al centesimo articolo (quello vero, non questo) mi ha spinto ad agire diversamente.
Oggi, ero in viaggio verso la casa in montagna dove trascorrerò qualche giorno, mentre guidavo interagivo con un blog straordinario e riflettevo su alcune questioni squisitamente tecniche e su alcuni principi che muovono questo mondo. Pensavo alla libertà. Non saprei nemmeno declinarne bene i motivi, ma la mia sensazione è che questa nuova casa, assolutamente identica a quella di prima sotto moltissimi aspetti, in realtà, mi fa sentire più libero. E questa cosa mi piace molto.
Sarà che ultimamente sono ostile a tutti i meccanismi che tendono ad irregimentare le persone, sarà che il mio know-how informatico deve trovare qualche insulso sfogo, sarà che non mi dispiace l’idea di non essere agganciato troppo strettamente al mondo wordpress.com dove troppo spesso vedo (non me ne vogliano i lettori) usare i like come merce di scambio quasi alla stessa stregua dei grandi facebooks … non so bene, forse mi sto facendo prendere da una certa misantropia virtuale, non so bene nemmeno se questa sensazione di libertà durerà, però sono contento di avere una nuova dimora.
Voi direte: “Sì, figo, bella tutta sta libertà, ma mica ci hai chiesto se volevamo essere migrati come follower !?!”.
E io vi direi: “Cazzo! Avete dannatamente ragione!” E se solo sapessi qual’è il simbolo dell’emoticon della vergogna magari vi piazzerei qui un :$ o qualcosa di simile.