Un tempo si decideva sull’aborto

Quando avevo immaginato di cominciare a scrivere in questo blog mi ero ripromesso che non avrei parlato di politica. A distanza di due anni possiamo dire che il buon proposito è stato mantenuto, anche se, statisticamente parlando, una volta all’anno, casualmente sempre in autunno, mi capita invece di parlare della politica. Si potrebbe immaginare che io stia per rivelare quale voto esprimerò tra qualche giorno andando alle urne. Temo non sarà così, perchè in una certa misura non è nemmeno ancora certo cosa voterò. Posso solo dire che “andare alle urne” è una frase carica di armonia ed evocazione e quindi ai seggi ci finirò.

Credo di aver avuto quindici o sedici anni quando i miei genitori sono stati chiamati a dare un giudizio dirimente sull’ammissibilità dell’aborto. Anni prima lo avevano fatto anche sul matrimonio. Per loro e per gli italiani si era trattato di una sorta di percorso a tappe per cambiare nel profondo i costumi e la cultura della nostra nazione. Sulle scelte di allora io non ho avuto nessun peso ma un po’ ricordo l’atmosfera che si viveva. C’era soprattutto la sensazione di decidere qualcosa di importante. Da allora sono sono state molte le battaglie importanti che i promotori referendari hanno fatto loro: si è cercato di decidere se era lecito il finanziamento dei partiti, se potevamo avere centrali nucleari, se l’Enel poteva avere centrali nucleari all’estero (le centrali nucleari piacciono 🙂 e per questo ne teniamo molte ad agghindare il bordo dei nostri confini), se i cacciatori avevano veramente diritto di passeggiare nelle campagne altrui, sul numero di miglia marine oltre le quali poter costruire le stazioni di pompaggio di carburante, … Cose così.

In questo periodo contemporaneo avevamo avuto di nuovo la sensazione di poter votare qualcosa di importante. La politica moderna tuttavia è riuscita anche questa volta nell’intento di annacquare le nostre potenzialità. Mi hanno fatto crescere nella convinzione che “sfortunatamente” i nostri referendum non sono propositivi, ma solo abrogativi. Non stiamo parlando di qualche anno, intendiamoci, parliamo di tutta la mia vita intera. La mia e quella di molti altri. Vite passate nella convinzione che non si potesse veramente proporre qualcosa di importante da far decidere al popolo. La repubblica italiana, i padri costituenti, non avevano previsto questa possibilità. E non basta. Eravamo vissuti nella convinzione che un referendum se non raggiunge il quorum di votanti non serve a niente.

E oggi invece? cosa mi dicono?

“No, caro Paolo, sei un elettore che non ha capito niente! È ovvio! Se vuoi decidere se un cacciatore può violare un campo agricolo non recintato hai bisogno che altri venticinque milioni di italiani vogliano cancellare un capoverso da una oscura legge. Ma se invece ti è saltato in mente il ghiribizzo di cambiare tutto, allora sì puoi cambiare una qualche leggiucola, che ne so, la Costituzione, toglierle un po’ di quella muffa che si è accumulata in questo dopoguerra troppo prolungato e poi, non c’è problema, bastano altri due gatti a votarla assieme a te che tutto è fatto. Semplice no?”
“In fondo, caro Paolo, non ti vorrai mica mettere a fare il sofista sul fatto che non ti abbiamo lasciato decidere un cazzo per il resto della vita? La vuoi o non la vuoi cambiare in meglio quest’Italia.”

E a queste convincenti posizioni cosa potevo rispondere se non un:

“Ciumbia! Certo che voglio cambiare l’Italia in meglio!”

“Ah, bravo!” – mi dicono – “E ora ascolta qua.” – continuano – “Se sopprimiamo il Senato e qualche articolo, sì è vero cambiamo tutto, ma è troppo semplice. Si accorgerebbero tutti che vogliamo risparmiare, velocizzare lo stato, rendere lineari i processi decisionali e basta. Meglio portare da 9 a 438 le parole dell’articolo 70 con ben 12 rimandi ad altri articoli cosicchè non si capisca proprio tutto e poi magari, invece di dire gli ambiti di competenza legislativa delle regioni, che così ormai sappiamo che non funziona, proviamo a dire quelli della Camera, così, con un po’ di culo, ci andrà meglio. Che ne pensi?”

“Mah ” – rispondo timidamente – ” … mi sembra interessante … ma semplificare un po’ di più, non si può proprio fare?”

“Cazzo! Non capisci proprio niente!” – mi dicono perentori – “Abbiamo anche fatto che possiamo votare in quattro gatti e ti cambiamo l’Italia, e ancora niente. Sei il solito cazzone che non sai mai deciderti. Facciamo così. Semplifichiamo ancora. Facciamo che se voti sì allora è come se confermassi la carica dell’attuale Presidente del Consiglio, così, con un po’ di fortuna, non c’è nemmeno bisogno di andare a votare alle prossime politiche. Dì che siamo fighi!”

“Siete fighi! Vado sìcuramente a votare!”

Esco da questa illuminante discussione che finalmente mi sembra chiaro come sono cambiati i tempi da quando si votava per decidere sull’aborto. Sono sempre un po’ confuso, perchè vorrei davvero cambiare l’Italia, e in più mi sento dentro una specie di gabbia. Ero convinto che il popolo italiano si fosse espresso per il divorzio molto molto tempo fa, ma il nostro matrimonio con questa politica stanca e senza stimoli non accenna a potersi incrinare. È tutto proprio come in quelle relazioni che si trascinano nella insulsa consuetudine in cui uno dei due coniugi impone all’altro tutte le peggiori dinamiche, minacciando un abbandono che per noi sarebbe solo una salvezza.

Mi chiedo come mai non ci sia nessuno che semplifichi davvero, qualcuno che scriva nella costituzione italiana un articolo che dica “le leggi dello stato non possono rimandare ad un’altra legge, devono essere autoconsistenti”, qualcuno che dica se Senato non deve essere Senato non sia, se questo o quell’ente non influenza nel bene la nostra vita di cittadini allora muoia. Perchè siamo obblligati a tenerci un coniuge che da cinquantanni ci tiene chiusi sempre di più nella povertà coltivando sempre di più i suoi interessi? È davvero così difficile trovare forme e persone attente maggiormente alla missione piuttosto che alla professione del governante? Qualcuno che non confonda costantemente la sacrosanta locuzione latina “Ora pro nobis” in “Dona pro nobis”? Se pensassero veramente alla loro missione potremmo pagarli pure di più.

Diversamente eroina

Aveva poche decine di minuti prima di iniziare il suo turno allo sportello. Doveva cercare nuove irregolarità, vere o presunte che fossero, non era importante, non ci sarebbero state differenze. Se la ricordava bene l’ultima generosa una-tantum: un premio accuratamente calcolato con una formula a partire dal numero di cartelle esattoriali che aveva fatto uscire l’anno prima.
Per cui, selezionando qua e là qualche codice fiscale, pregustò l’arrivo del nuovo anno.
Il lavoro allo sportello era difficile, ma le riusciva naturale. Proprio per questa sua abilità aveva fatto un po’ di carriera. Selezionò la maschera muro di gomma e si mise davanti alle persone, spingendo il pulsante e alzando i suoi occhi annoiati al rosso display che sanciva il numero fortunato del prossimo utente.
Il primo era un omone grezzo e accigliato, partì con uno stentato italiano rivendicando ingiustizie subite e continuò tuonando in un crescendo dialettale sfiorando l’insulto. Alle sue urla lei reagì con indifferenza, scuotendo la testa e spingendo un po’ più avanti il suo busto. E l’uomo calò il tono con lo stesso ritmo con cui scese il suo sguardo. Se ne andò scontento continuando a imprecare ad alta voce dentro se stesso.
Seguì una donna, una commercialista. Con loro ci si intendeva facile. Erano tutti parte dello stesso ingranaggio. Veniva per conto di un suo cliente a cui era stato contestato il mancato pagamento delle rate di un’altra cartella. La posizione invero non mostrava anomalie, ma fu facile convincere la commercialista che sarebbe stato un equo scambio riconoscere sì i pagamenti, ma tenere la multa per imprecisati errori formali.
Fu il turno di un signore distinto. Alto e brizzolato. Il viso profondamente triste. Provò a spiegare che i soldi non ce li aveva. Supplicava. Lei sbirciò a terminale la sua posizione. Un debito con lo Stato non elevato, ma da quattro anni non vedeva stipendio, e le sanzioni crescevano. Prima di quella tristezza doveva essere stato un bell’uomo, per questo fece uscire la frase di circostanza ripetuta già mille volte accompagnandola con un bel sorriso. Lo salutò con tenerezza, mentre un vecchio dietro di lui già incalzava.
Finse di ascoltare l’anziano, che si lamentava delle tasse sulla sua pensione, ma il suo sguardo seguì il lento incedere dell’uomo. Lo vide uscire, fare qualche passo ancora, finché gli si fece vicino una donna. Le sembrò di essere in un cinema di seconda visione. Il suo campo visivo era coperto in gran parte dal volto rugoso del vecchio ciarliero, ma a fuoco vide solo la donna porgere un borsello all’uomo. Parole tra loro. Si protese calda a stringerlo tra le braccia. Rimasero così forse trenta secondi, poi lei si voltò, una mano nella sua e si girò di lato per allontarsi, ma il suo braccio si tese sempre più, perché lui non si muoveva. Estrasse invece qualcosa dal borsello, se lo puntò alla testa e crollò come un sacco vuoto.
Il resto del giorno fu confuso.
Era prevista una sessione di lavoro pomeridiana. Un importante dirigente doveva presentare i nuovi obiettivi da raggiungere. Era alto e mentre parlava di profilo guardando ora lo schermo, ora la platea, il suo ventre piatto faceva intravedere sotto la camicia aderente una malcelata tartaruga. Le sarebbe piaciuto essere la sua segretaria.
Il dirigente parlava delle nuove strategie. Non era grave far uscire cartelle pazze. Il ventisette percento dei contribuenti pagava comunque anche senza avere torti. Bisognava solo stare molto attenti e selezionare i contribuenti con disponibilità economiche commisurate alle multe e su quelli concentrare gli sforzi per la nuova campagna.
Arrivò il momento delle domande finali, dopo gli applausi per l’avvincente presentazione. E non seppe nemmeno bene perché le uscì quella stupida domanda.
«Ma voi? Che cazzo ci dovete fare con tutti ‘sti soldi?»