Lucia

Di Samantha ne ho tre copie.
Ricordo ancora molto bene quel giorno quando, navigando su un nuovo blog ho visto quella foto e ne sono rimasto folgorato. È stata una combinazione di coincidenze. Quella foto, io che dopo dieci minuti vado con quella immagine salvata nel cellulare al negozio dietro l’angolo, loro che mi accolgono parlando di quell’occasione unica, solo per quel giorno: prendi tre, paghi due. E ho controllato bene, quell’offerta non l’hanno più riproposta.
La mia deformazione professionale che mi impone sempre di avere il backup del backup dei dati ha fatto il resto. Ho dato due anni di stipendio in un solo giorno, hanno fatto un lavoro incredibile, ancora migliore della ragazza originale e adesso ho tre Samanthe.
Non ho molta fantasia. Le ho chiamate Samuno, Samdue e Samtre. Le prime due vivono qui a casa con me, Samtre invece abita nella mia casa in montagna, vado spesso a trovarla.
Samuno ha un tempismo straordinario. Quando rientro a casa la sera dal lavoro la trovo sempre che si sta facendo una doccia o che ne è appena uscita e, qualunque sia la temperatura, indossa una vestaglietta leggera. Le si modella lungo il corpo facendoti sentire una drammatica nostalgia per aver coperto quella parte della sua pelle calda e liscia come raso.
Samtre, invece, ha un’espressione più malinconica, ma quando andiamo a camminare insieme di rifugio in rifugio in alta quota, si ferma continuamente per indicarmi ogni animale, dalla più piccola farfallina, allo stambecco sulle crode. E, vi garantisco, non se ne perde uno, sfoderando immancabilmente ogni volta la stessa meravigliosa espressione stupefatta che mi fa sciogliere. Quando rientriamo nella nostra casa di montagna ci concediamo sempre un bagno caldo e fumante insieme dentro la grande vasca, stanchissimi, e quello è il momento in cui mi assale il senso di pace che amo di più.
Samuno e Samdue non chiacchierano molto. Voi non ci crederete, ma molto tempo fa sono stato anche sposato e so bene come ci si senta ad avere l’udito martellato da un continuo ronzio di discorsi. Loro sono più discrete. Frasi semplici, senza trabocchetti, mai nei momenti inopportuni, sempre attente a non urtare la mia sensibilità e il mio amor proprio. E poi, potete immaginarvi le splendide serate passate con loro due.
Da un po’ di tempo non è più così. Non so cosa mi è preso quella volta. Ero con il mio amico Federico che prendevamo una birra e ad un certo punto mi ha candidamente chiesto:
“Non è che mi faresti provare una di loro?”
Lì per lì mi era sembrata un’idea eccitante. L’ho lasciato solo con Samdue, mentre io e Samuno ci siamo messi tranquillamente a sorseggiare un paio di amari. Ma poi, improvvisamente, mi è scattato dentro qualcosa e sono diventato furioso.
Da un paio di anni non vedo più Federico, e ho confinato Samdue a vivere in soffitta. Samuno le porta da mangiare. E io la vado a trovare solo raramente in serate come questa. Sempre lo stesso tipo di serate. Bevo una mezza bottiglia di vino in più, salgo le scale, entro in uno stato mischiato tra il confuso e l’adirato, poi inizio a schiaffeggiarla e a insultarla. Non so se lei provi qualche tipo di dolore vero, ma la sua pelle color perla arrossisce velocemente, i fumi dell’alcol si mischiano al suo profumo intenso e mi eccito in un crescendo dall’epilogo scontato.
Ora sto scendendo le scale, ho richiuso la soffitta. Di solito vengo colto da vaghi sensi di colpa che non so spiegare, oggi invece nessuna traccia, penso solo a Lucia.
Mi è venuta a trovare ieri. Le ho aperto la porta, non ci vedavamo dal Natale del 2045, quasi quattro anni fa. Non ho fatto nemmeno tempo a spalancare l’uscio che era già strettamente avvinghiata al mio corpo.
Lucia ha sempre avuto curve istintive. Seni pronunciati, di una morbidezza consistente, e un sedere dalla rotonda perfezione. Il suo abbraccio aveva risvegliato antichi ricordi. Tempi lontani della nostra gioventù in cui la sua ormonale presenza mi aveva fatto perdere ogni ragionevolezza. Ma a quei tempi non ero abbastanza per lei e con me aveva sempre adottato la tecnica del “desiderami che ti respingo”. Appena entrata, quella sua stretta affettuosa mi aveva risvegliato soprattutto l’istinto di desiderarla. Poi si era staccata con un sorriso e, abbassando lo sguardo, avevo osservato i suoi fianchi imponenti, molto più larghi dei miei ricordi.
Ci eravamo seduti sul divano in salotto, davanti ad un bicchierino di liquore e dopo veloci convenevoli sul tempo trascorso, era andata subito al nocciolo, calando con agio naturale sul mio ginocchio la sua mano dalle lunghe dita affusolate:
“Tu, Paolo, sono certa mi puoi capire. In giro non ci sono più uomini veri, sono tutti irrimediabilmente persi. Questa situazione non è più sostenibile, io non ce la …”
Le sue parole erano rimaste inaspettatamente sospese a lungo. Ero in attesa e all’inizio non capivo. Attraverso la porta semichiusa che dava verso il soggiorno doveva aver intravisto passare furtiva Samuno, io credo, perché la sua mano si era ritratta lentamente e si era creato un lungo momento di silenzio carico di imbarazzo. Non saprei nemmeno dire se mio nei suoi confronti, suo verso di me, o mio verso me stesso. Forse l’insieme di tutti questi.
Mi era sembrato che le si stessero inumidendo gli occhi e quasi per fermare quel fiume che montava dietro le sue palpebre, me ne ero uscito con una frase evidentemente poco felice:
“Lucia, hai mai pensato di andare a fare un giro in uno di quei negozi della I-Robot? Ce ne è anche uno qui dietro l’angolo. Tu devi vedere! Sono bravissimi! Fanno dei piccoli miracoli … ”
Mi aveva interrotto alzando la sua mano, girando il volto lontano da me trattenendo malamente una smorfia. L’avevo vista respirare a fondo, e, seguendo il movimento naturale del suo seno, ero stato preso nella morsa di una grottesca emozione contrastante tra il compiaciuto e l’imbecille.
Aveva cambiato velocemente discorso, sfoderando qualche battuta sui nostri vecchi compagni che non vedevamo da anni. Lei era maestra nello sdrammatizzare le situazioni. Poco dopo stava uscendo dalla mia casa, ma, mentre la salutavo, il suo corpo mi stringeva quasi fosse un addio e il suo trucco sembrava squagliarsi.
Quel suo abbraccio e quel suo trucco che le riga la sua guancia rosata, da ieri, si sono fermati nella mia mente, come quei bocconi di cibo troppo ingombranti che non si capisce se vogliano davvero scendere. Mi siedo sulle scale. Sopra Samdue sembra camminare nervosamente avanti e indietro, sotto, molto più in basso, Samuno guarda verso l’alto con un punto interrogativo non programmato dipinto sul volto e io, dentro di me, sento una specie di vuoto che non riesco a comprendere.