Senza Titolo (1)

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Pj guardava sconsolato fuori verso il nulla. Sembrava cercare quasi ispirazione in tutte quelle gocce di pioggia che rigonfiavano la superficie esterna della finestra impedendo di intravedere qualsiasi fattezza del mondo esterno.
Il lettore alle sue spalle lo osservava enigmatico. Probabilmente si stava chiedendo perché fosse lì in quel momento a sprecare il suo tempo prezioso nel tentativo di capire qualche altro oscuro insospettabile risvolto del collegamento esistente tra le anime.

Pj sentiva il suo sguardo solidamente fisso tra le sue spalle e la sua nuca. Fu in quel momento che i suoi riccioli ribelli ebbero un moto impercettibile, quasi sospinti dalle onde sonore, quando il lettore proferì alcune parole con solennità:

«C’è della ruggine tra di noi!» – fece una pausa, poi sembrò voler ripartire di nuovo e invece rimase in silenzio.
Pj si sentì colto sul vivo. La pioggia cadeva incessantemente da settimane. Il mondo era immerso profondamente in un clima ideale per la ruggine. Sentiva di dover rispondere qualcosa, ma  non gli sembrava che il tempo fosse maturo per lo sforzo di girarsi e confrontarsi con uno sguardo verace dopo mesi di pioggia continua. Allora parlò dritto, lasciando che  la sua risposta rimbalzasse indietro dal vetro della finestra verso il lettore:

«Che sarà mai un po’ di FEdueOtre quando ci sono anche treHdue. Un po’ di ruggine dà alla vita un colore sanguigno di decomposizione, per ricordare che le certezze sono un’illusione.» – le sue parole riflettendosi sul vetro assunsero un tono ovattato e profondo come se fossero state alimentate direttamente da uno dei tuoni di sottofondo del mondo esterno.

«Pensavo fossi differente! Pensavo fossi uno su cui ci si può contare. » – si fermò un attimo e, questa volta, ricominciò. – «Qualcuno che doveva scrivere qualcosa di sensato o di profondo o di bello o di brutto. » – si sospese un secondo, come per respirare un secondo, ma sul volto gli si colorò una sfumatura cianotica come se l’aria fosse veramente satura di Hdue e ogni altra parola si trasformò sul nascere in espressione spenta.
Fu in quel frangente che Pj si voltò, cercò lo sguardo del lettore simulando una finta rassegnazione e prese a parlare con molta tranquillità:

«Dovrei forse parlare del tempo? O del nuovo governo? O dovrei raccontare che l’altro giorno ero in un luogo pubblico affollato. Ho contato venti tavoli, cinquantasette persone, delle quali trentaquattro completamente immerse nel loro smartphone. Una media di uno virgola quindici persone ad ogni tavolo che di fatto parlava solo con sé stesso. » – si fermò qualche istante sospettando che il lettore volesse stimare la media per ogni tavolo di persone che stavano interagendo solo via etere e poi riprese – «Oppure dovrei scrivere un raccontino su come la ruggine arrugginisce la capacità di scrivere delle persone? Oppure potrei girarmi di nuovo verso fuori contando le gocce d’acqua sulla finestra? Perché qui è giorni che non si vede un cazzo di niente. » – quella frase era stata messa là apposta per disaffezionare il lettore alla discussione.
Invece non fu così. Pj si voltò di nuovo verso fuori, e il lettore lentamente percorse i pochi passi che lo separavano da quella finestra, gli si mise in fianco e cominciò a cercare di sbirciare fuori. Passò forse un minuto. Il lettore ruotò verso Pj la testa mantenendo fermo il busto e aspettò che Pj facesse altrettanto e, fissandolo, disse:

«Non trovi che ruggine e rugiada abbiano una sonorità davvero simile? » – Pj annuì con un sorriso e in sincrono si voltarono di nuovo incollando il loro naso sul vetro. Fuori si intravedeva appena la maestosa sagoma dell’astronave madre che continuava imperterrita da mesi a pompare vapor acqueo dal mare dentro l’atmosfera. E nessuno sapeva ancora perché.

 

P.S. Titolo originale commissionato da FIK. 😉

Negazione negata

A dire il vero non l’avrebbe mai fatto. Non con lui. Non avrebbe mai aggiunto altro caos al casino della sua vita.
Ma quel giorno c’era del desiderio che si muoveva dentro di lei.
E fu più facile assecondarlo, invece che celarlo dietro una faticosa negazione.

La lunghezza perfetta

Ricordo perfettamente le discussioni parlando di noi, all’aperto, seduti sotto il glicine gigante del nostro ristorante preferito nei dintorni di Parma.
Mentre una brezza leggera circondava dolcemente i nostri volti, e qualche goccio di vino attentava alla nostra lucidità, le chiedevo provocandola: «Qual’è la lunghezza perfetta?» Lei mi guardava sorridendo, di quel sorriso sornione che solo le donne sanno imbastire sfiorandosi distrattamente i lunghi capelli in un gioco sottile carico dell’essenza di tutti i misteri.
Con gli occhi scintillanti dritti verso i miei, mi ripeteva sempre come fosse la prima volta: «Non bisogna tirarlo per le lunghe. È l’insieme che conta. Il coinvolgimento. L’emozione che trasmette.»
Scuotevo la testa fingendo contrarietà, mi fermavo un attimo per trovare il giusto tono solenne per la mia voce e riprendevo: «Io non credo proprio. E non lo dico io. È una cosa scritta duemila e più anni fa: da sempre le donne hanno un problema irrisolto con il serpente. E le cose non mi sembrano affatto cambiate da allora.»

Lei simulava un vago imbarazzo colorando di rosso la sua pelle, quasi fosse in preda ad un ricordo malcelato, e, continuando a fissarmi negli occhi, ripeteva immancabilmente: «No. Nel mondo frenetico di oggi, questa è la lunghezza perfetta per il nostro racconto».

Stai al tuo posto

Me ne ero accorto subito. Eppure sapeva bene quanto ci tenessi ai miei attrezzi. Sapeva anche che le volevo bene, certo, e forse per questo aveva creduto di poter fare tutto ciò che desiderava con le mie cose senza chiedere il permesso. Ma si sbagliava. Eravamo sposati già da alcuni anni, quando quel giorno aveva prelevato un po’ di tutto dal mio capanno: cacciaviti, chiavi inglesi, scalpelli e martelli. Per fare cosa poi non so. Prima che arrivassi a casa aveva già riposto tutto. Malamente, alla rinfusa, senza nessun ordine. Quella fu la prima volta che la picchiai e, devo dir la verità, fu davvero facile. Alla fine avevo perso quasi completamente la sensibilità alla mano destra, il palmo mi friggeva, ma ero certo che non avrebbe mai più sfiorato la mia ferramenta senza il mio permesso.
Avevo ragione! Da allora non l’aveva più toccata. E così oggi sono certo che presto finirà anche di lasciare, ogni dannato giorno, le sue chiavi di casa sparse sul mobile in ingresso. Perché, appena rientrerà in casa dall’orto, oggi saremo certi che sarà stato l’ultimo giorno in cui le avrò lasciato fare liberamente anche questo.

Condivisa fragilità

Il dodici per cento di loro viveva sereno amando, pienamente ricambiato, il proprio compagno, il diciassette per cento viveva tranquillamente “alla giornata” senza preoccuparsi molto delle emozioni che avrebbe sperimentato giorno dopo giorno, il trentadue per cento di loro vagava costantemente in cerca del compagno ideale con cui trascorrere il resto della vita, il trentanove per cento, invece, teneva continuamente sotto scacco affettivo il proprio partner per mantenerne con innocente sicurezza il controllo.

Tuttavia, quando l’ordigno inesploso smise di essere tale, il cento per cento di loro ne ebbe la vita sconvolta.

L’abat jour

AbatJour

Lei era come una abat jour, la mia personale abat jour. Ogni volta, come ad esempio accadde in quei lunghi mesi, quando decideva di spegnersi, tutto il mondo intorno a me assumeva il sapore dell’impenetrabile notte.

Così, mentre brancolavo nel buio, finii per incocciare il mio alluce sulla gamba dello scrittoio e  allora fu facile decidere di lasciarla andare.

Girovagando

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Girovagavo stancamente tra i blog che mi venivano proposti. Una sequenza disordinata di riflessioni, di piccole illuminazioni, di storie profonde nella vita di qualcuno, di aneddoti divertenti, di immagini che immortalavano l’istante, di pensieri raccolti in qualche punto della rete e poi rielaborati, frasi ad effetto sorprendenti e frasi semplici cariche di emozione, cronache egocentriche e intuizioni universali. Commenti allegri, commenti sinceri, commenti di circostanza, commenti ammirati, commenti inutili, commenti forzatamente celati. E poi frammenti di sé, desideri, sogni, speranze, certezze. Sentimenti, molti sentimenti. Amore in tutte le sue declinazioni, da quello sprecato a quello anelato, passando attraverso quello che lascia i suoi Segni. Poesia degli animi. Bisogni chiari di condividere, bisogni oscuri di uscire da dove si è.

C’era un ordine segreto in quell’apparente caos. Non era così semplice da scovare. Bisognava chiudere gli occhi e percepire che dietro ogni frase scritta c’era una vita, intensa e reale, che sublimava una parte di sé.

Il finale non è nella corsa

Corsa_finale

Non mi era mai piaciuto correre.
E non sapevo nemmeno bene come mai, nonostante questo, da alcuni anni a quella parte ogni volta che potevo mi cimentavo in una inusuale, faticosa corsa campestre tra canne riverse sui canali e uccelli del malaugurio. Non sceglievo momenti qualsiasi della giornata. Esisteva un unico frangente buono per mettere alla prova il mio fisico: l’una del pomeriggio, sotto il sole, preferenza per le giornate di intensa canicola.

Io credo che questo correre fosse il mio modo per scongiurare il crescere della mia pancia: conoscevo bene ogni suo difetto. E forse rappresentava anche la nuova strada per allenare me stesso a dare, ogni giorno, tutto quello che avevo dentro di me per limitare i miei rimpianti. Amavo il silenzio del vuoto di anime dei luoghi accaldati che percorrevo e amavo il vociare della natura che cicalava, stanca padrona di quegli argini soleggiati.

Quel giorno, ricordo ancora benissimo, calura e afa gareggiavano per primeggiare nei pensieri degli uomini e nei disperati spazi riempitivi dei telegiornali vacanzieri. Il termometro segnava trentacinque gradi all’ombra e ogni desiderio di movimento era frenato dalla appiccicosa sostanza che copriva i nostri corpi.
Con il caldo, le persone perdono facilmente sensibilità e gentilezza, e alla notizia della mia imminente corsa, vi fu una vera inaspettata insurrezione popolare nei dintorni della mia abitazione. Scopo dell’insurrezione: tenermi ancorato alle mura di casa.

Fu allora che estrassi tutto il mio orgoglio e la mia spavalda simpatia, e liquidai sul nascere ogni principio di insurrezione con un perentorio sorriso:
– Non temete, state tranquilli, se starò per morire … vi avviso!  –

Ma mia figlia adolescente rispose con una prontezza che mi sorprese:
– Ma Papi, … dicono tutti così! –

Fu così che quel giorno affrontai la mia corsa pensando al racconto che avrei scritto di lì a poco. E non sentii il caldo intenso perché era come se, fendendo l’immobile aria torrida, fossi protetto dal mio nuovo mantello di giovane saggezza.