Il difetto della resilienza

Resilienza

Negli ultimi mesi mi sono imbattuto più volte nella resilienza e nella sua dichiarata scesa in campo. Potremmo dire che c’è una recrudescenza nell’uso di questo termine, di cui, solo pochi anni fa, non conoscevo nemmeno il significato, non per lo meno nella sua accezione psicologica.

E’ una di quelle poche parole particolari, che quando le senti nominare capisci che dietro ad essa c’è molto di più. In sole dieci lettere racchiude tutto un universo di dolore, energia e proiezione al futuro che rende la speranza il nuovo motore di una vita. E’ una parola bella. Nasce dalla sofferenza, ma ne oscura lo spettro, dando alla forza e al valore della persona il motivo della sua rinascita.

Eppure, questa parola è strana.

Negli ultimi mesi l’ho sentita chiamare in causa almeno una decina di volte. Sempre in modalità riflessiva. Sempre da donne. Per la mia cultura scientifica tendo a dare alla statistica un senso, non assoluto, ma sicuramente di indirizzo, e quando percepisco che una distribuzione non sta seguendo un andamento usuale che a lungo andare emuli la perfezione di una gaussiana, finisco sempre con il perdermi in riflessioni per cercare l’origine della possibile anomalia.

Sicuramente, in passato, mi è capitato di sentire qua e là qualche uomo parlare di resilienza, ma, se la memoria non mi inganna, erano sempre ingegneri che decantavano la straordinaria capacità di un certo materiale nell’assorbire l’energia elastica quando posto in forte trazione.
Se guardo la storia recente cercando di immedesimarmi con l’occhio maschile dell’ingegnere medio, l’idea che tutte le donne, che ho sentito invocare la resilienza su sé stesse, siano state posizionate su una morsa emotiva e lì siano state sottoposte alla dolorosa applicazione di una continua torsione sull’animo e sul cuore, mi sembra il pericoloso sintomo di un latente conflitto di generi.

A dire il vero, non credo che il genere maschile sia completamente immune dal subire eventi traumatici e non penso che, a modo suo, alla bisogna, non sappia tirare fuori una giusta dose di resilienza. Forse semplicemente non le dà un nome, forse non sente il bisogno di esternare un suo stato interiore vagamente trionfale nell’aver scoperto dentro sé stesso quel barlume di energia necessario a costruire la pericolante staccionata con cui conta di confinare il suo dolore.

Poche cose mi sono chiare. Da qualsiasi punto di vista si guardi la questione, la resilienza non può essere solo una App dell’animo femminile, né può soppiantare la presa di coscienza che essa origina sempre da un disagio profondo. Non possiamo assegnare una colpa generica ed esclusiva al mondo esterno che ci porta ad attingere il massimo dalle nostre energie più vive per non soccombere, perché diamo sempre anche noi il nostro contributo alla creazione delle situazioni che ci riguardano. Non possiamo permettere che il termine resilienza diventi una moda, perché dietro ad esso c’è troppa sofferenza, valore ed eroismo che non devono andare sprecati in luoghi comuni. E non dobbiamo nemmeno escludere a priori che la constatazione che essa si manifesti così forte e orgogliosa nel genere femminile rappresenti proprio un sintomo della possibilità che, nei tempi moderni, il genere maschile si stia dimostrando sempre più inadeguato a seguire le necessità del cuore della nostra società.

Difficile dare una visione accorta di questa insistente comparsa della resilienza nel nostro mondo, ma di certo, soprattutto per la sofferenza che essa indomitamente cerca di vincere, dobbiamo cercare di evitare la sua diffusione incontrollata, la sua recrudescenza.

Un difetto delle donne

Un difetto delle donne

Da alcuni anni a questa parte sono andato consolidando un’ammirazione sempre più convinta nei confronti delle donne. Lo so, e non voglio proprio addentrarmi nelle discussioni relative agli errori che sicuramente si compiono quando si generalizza, tuttavia io credo sia un fatto incontrovertibile che l’energia che sprigiona da una donna, la flessibilità del suo pensiero e la comprensione ampia e intuitiva del mondo che la circonda sono tutti elementi chiaramente più sviluppati nel genere femminile e a mio avviso difficilmente confutabili.

Non sto parlando solo di valutazioni in media, né sto collocando queste mie convinzioni nel contesto di un qualsiasi ipotetico antagonismo tra i generi. Sono convinzioni che più tempo passa più si radicano. Il genere maschile ha altri pregi, differenti. Anzi forse, mi verrebbe da dire, il genere maschile tende ad essere molto forte su alcuni tratti caratteriali che per loro natura sono bivalenti. Possono essere a seconda della circostanza e del campo di applicazione un grande pregio oppure una funesta sventura. Ma l’obbiettivo di questo articolo è quello di accendere un piccolo riflettore su una sfiga comune a quasi tutte le donne e quindi degli eventuali pregi degli uomini, ammesso che ce ne siano, per oggi ci dimentichiamo. Dei difetti degli uomini, poi, non ci possiamo proprio occupare in questo blog, perché questo luogo virtuale, come dichiarato in un vecchio articolo, concede spazio solo ad articoli di dimensione contenuta. 😉

Bene, veniamo al sodo. Nel tempo ho vissuto sulla mia pelle e ho visto in mille casi quella che mi sembra una caratteristica peculiare e diffusissima in tutte le donne. E’ un tratto che compare quasi dal nulla e rimane seminascosto dietro ai loro modi gentili e alla dolcezza, sensibilità ed eleganza che contraddistingue il loro agire.

Non so se vi è mai capitato di osservare, ma, quando una donna raggiunge un adeguato livello di confidenza con una persona, specialmente se dell’altro sesso, arriva sempre il momento in cui si fa strada in lei una convinzione inamovibile. La certezza che solo lei sa cos’è bene per la persona che ha vicino. Più della persona stessa.

Che sia un figlio, un amico, un amante, un marito o qualsiasi altra figura a lei vicina a cui lei vuole dell’affetto sincero, in lei scatta in automatico questa improvvisa visione profonda di cosa sia necessario a quella persona per stare bene, per essere completa, per vivere serena e non commettere errori.

Io credo che questo sia un effetto collaterale, sicuramente tollerabile, ma estremamente spiccato e a tratti limitante, del gene della maternità che esse portano fortunatamente con sé.

Senza questo effetto collaterale molte di loro sarebbero assolutamente perfette.