La tabula rasa

C’era un tempo in cui le persone erano affascinate da questi strani strumenti, pionieri del mondo moderno. Io ero lì. C’erano i VIC 20 e poi, più avanti, i Commodore 64. Giocavi. Ma più che un gioco, ti sembrava di essere trasportato dagli alieni in una realtà differente. E se volevi diventare un informatico professionista, dovevi cimentarti con le schede perforate o i terminaloni con questi fosfori verdi, che più che speranza infondevano solo tristezza. Dentro quei terminali, se guardavi bene tra le lettere luminose dello schermo, potevi scovare il buio più profondo che la mente dell’uomo avesse mai escogitato.

vic20

A quel tempo ero assai giovane, molto più di oggi, e capivo veramente poco del mondo che mi circondava. Poi crescendo, convinto che l’informatica sarebbe stata per me solo un gioco, ho scoperto di continuare a capire sempre pochissimo, ma nel frattempo il mondo è andato avanti. Ricordo perfettamente quando andavi negli uffici pubblici o in banca o a scuola o in qualsiasi altro luogo e, non te ne accorgevi proprio, ma la vita era dominata dalla carta. Sulla carta abbiamo fabbricato un intero mondo per secoli e secoli. Sulla carta facevamo tutto. Dettavamo le regole, le uniche valide. Sancivamo i nostri impegni. Scrivevamo la nostra storia. Il foglio di carta, che per la maggior parte di noi rappresenta ancora una specie di porto sicuro lontano dalle tempeste, aveva e ha una caratteristica straordinaria ormai dimenticata. E’ vuoto. I latini senza sapere niente del passato avevano una formula straordinaria per indicare la funzione occulta delle tavole per scrivere e della carta: “tabula rasa”. Abbiamo perso completamente il significato di quella frase. Il foglio di carta era senza una sua anima, senza una sua storia. Ripartivi dall’inizio e ti trovavi a dover rimettere un anima dentro al foglio ogni volta.
I più scaltri alla fine avevano inventato e facevano uso della carta carbone per risparmiare l’inevitabile impegno che serviva anche per le questioni più semplici.

A quel tempo io facevo lo spettatore del mondo informatico nascente anche se, lo confesso, qualche volta mi cimentavo nei videogiochi dei bar. Un tempo anche quelli erano tutto un brulicare di ragazzetti appassionati per la novità. Oggigiorno non è più così. Ormai i videogiochi da bar sono più simili a degli scheletri di dinosauri, che a uno strumento di interazione. Qualche giorno fa, ero in un cinema multisala in attesa dell’inizio del film (Lights Out, ndr), e ho osato avvicinarmi alla zona dove erano semi morenti i videogiochi. Mia figlia, ormai più che ventenne, si è affrettata a strattonarmi via dicendomi che era disdicevole stare lì come i bambini.
tokioLei non sa che, al tempo della carta, io avevo giocato qualche volta. A dire il vero avevo giocato ad un solo videogame da bar. Ma ero un campione! Nel bar dove andavo ai tempi dell’università, c’era un altro avventore, mai conosciuto ( i nostri orari non combaciavano ), con cui facevamo a gara a batter reciprocamente il record di “Tokio, Scramble Formation”. Il gestore del locale mi guardava male ogni volta perché, senza consumare niente come si addiceva ad uno studente spiantato, con una moneta sola stavo lì per una o due ore. E poi dovevo filare esausto a fare una doccia.
Quante creature malvage ho annientato nei cieli di Tokio!
E mentre mi perdevo in quelle battaglie senza speranza, il futuro macinava il mio destino.
Pochi anni dopo sono finito, mio malgrado, ad occuparmi di information technology. All’inizio con una certa lontanza, poi sempre più addentro nel profondo. Ho fatto un percorso e ho imparato a conoscere la complessità del mondo IT. Così sono finito in una terra di nessuno. Non sono il classico esperto del settore, né un nerd tuttofare, né un manager che comanda facendo finta di capire qualcosa della professione che governa.

Nessuno ne parla veramente, nessuno razionalizza in maniera coerente il percorso del nostro mondo. Ma le nostre vite sono cambiate, repentinamente. Perché non sono poi passati molti anni da quando sparavo alle creature malvage sopra i cieli di Tokio e ora la società di un tempo non esiste più.
Io credo dipenda tutto dall’essenza della carta che non c’è più. Sì, voi direte, la carta c’è ancora in una infinità di procedure e nessuno vuole toglierla veramente. Secondo me il percorso è un altro. Le persone sono affezionate ancora alla carta e non vogliono abbandonarla, ma non sanno veramente il perché. Ostacolano il cambiamento, ormai sempre meno a dire il vero, ma non stanno comprendendo che quello che a loro manca non è la carta. A loro manca la tabula rasa.