Ricordo perfettamente le discussioni parlando di noi, all’aperto, seduti sotto il glicine gigante del nostro ristorante preferito nei dintorni di Parma.
Mentre una brezza leggera circondava dolcemente i nostri volti, e qualche goccio di vino attentava alla nostra lucidità, le chiedevo provocandola: «Qual’è la lunghezza perfetta?» Lei mi guardava sorridendo, di quel sorriso sornione che solo le donne sanno imbastire sfiorandosi distrattamente i lunghi capelli in un gioco sottile carico dell’essenza di tutti i misteri.
Con gli occhi scintillanti dritti verso i miei, mi ripeteva sempre come fosse la prima volta: «Non bisogna tirarlo per le lunghe. È l’insieme che conta. Il coinvolgimento. L’emozione che trasmette.»
Scuotevo la testa fingendo contrarietà, mi fermavo un attimo per trovare il giusto tono solenne per la mia voce e riprendevo: «Io non credo proprio. E non lo dico io. È una cosa scritta duemila e più anni fa: da sempre le donne hanno un problema irrisolto con il serpente. E le cose non mi sembrano affatto cambiate da allora.»
Lei simulava un vago imbarazzo colorando di rosso la sua pelle, quasi fosse in preda ad un ricordo malcelato, e, continuando a fissarmi negli occhi, ripeteva immancabilmente: «No. Nel mondo frenetico di oggi, questa è la lunghezza perfetta per il nostro racconto».