Senza Titolo (1)

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Pj guardava sconsolato fuori verso il nulla. Sembrava cercare quasi ispirazione in tutte quelle gocce di pioggia che rigonfiavano la superficie esterna della finestra impedendo di intravedere qualsiasi fattezza del mondo esterno.
Il lettore alle sue spalle lo osservava enigmatico. Probabilmente si stava chiedendo perché fosse lì in quel momento a sprecare il suo tempo prezioso nel tentativo di capire qualche altro oscuro insospettabile risvolto del collegamento esistente tra le anime.

Pj sentiva il suo sguardo solidamente fisso tra le sue spalle e la sua nuca. Fu in quel momento che i suoi riccioli ribelli ebbero un moto impercettibile, quasi sospinti dalle onde sonore, quando il lettore proferì alcune parole con solennità:

«C’è della ruggine tra di noi!» – fece una pausa, poi sembrò voler ripartire di nuovo e invece rimase in silenzio.
Pj si sentì colto sul vivo. La pioggia cadeva incessantemente da settimane. Il mondo era immerso profondamente in un clima ideale per la ruggine. Sentiva di dover rispondere qualcosa, ma  non gli sembrava che il tempo fosse maturo per lo sforzo di girarsi e confrontarsi con uno sguardo verace dopo mesi di pioggia continua. Allora parlò dritto, lasciando che  la sua risposta rimbalzasse indietro dal vetro della finestra verso il lettore:

«Che sarà mai un po’ di FEdueOtre quando ci sono anche treHdue. Un po’ di ruggine dà alla vita un colore sanguigno di decomposizione, per ricordare che le certezze sono un’illusione.» – le sue parole riflettendosi sul vetro assunsero un tono ovattato e profondo come se fossero state alimentate direttamente da uno dei tuoni di sottofondo del mondo esterno.

«Pensavo fossi differente! Pensavo fossi uno su cui ci si può contare. » – si fermò un attimo e, questa volta, ricominciò. – «Qualcuno che doveva scrivere qualcosa di sensato o di profondo o di bello o di brutto. » – si sospese un secondo, come per respirare un secondo, ma sul volto gli si colorò una sfumatura cianotica come se l’aria fosse veramente satura di Hdue e ogni altra parola si trasformò sul nascere in espressione spenta.
Fu in quel frangente che Pj si voltò, cercò lo sguardo del lettore simulando una finta rassegnazione e prese a parlare con molta tranquillità:

«Dovrei forse parlare del tempo? O del nuovo governo? O dovrei raccontare che l’altro giorno ero in un luogo pubblico affollato. Ho contato venti tavoli, cinquantasette persone, delle quali trentaquattro completamente immerse nel loro smartphone. Una media di uno virgola quindici persone ad ogni tavolo che di fatto parlava solo con sé stesso. » – si fermò qualche istante sospettando che il lettore volesse stimare la media per ogni tavolo di persone che stavano interagendo solo via etere e poi riprese – «Oppure dovrei scrivere un raccontino su come la ruggine arrugginisce la capacità di scrivere delle persone? Oppure potrei girarmi di nuovo verso fuori contando le gocce d’acqua sulla finestra? Perché qui è giorni che non si vede un cazzo di niente. » – quella frase era stata messa là apposta per disaffezionare il lettore alla discussione.
Invece non fu così. Pj si voltò di nuovo verso fuori, e il lettore lentamente percorse i pochi passi che lo separavano da quella finestra, gli si mise in fianco e cominciò a cercare di sbirciare fuori. Passò forse un minuto. Il lettore ruotò verso Pj la testa mantenendo fermo il busto e aspettò che Pj facesse altrettanto e, fissandolo, disse:

«Non trovi che ruggine e rugiada abbiano una sonorità davvero simile? » – Pj annuì con un sorriso e in sincrono si voltarono di nuovo incollando il loro naso sul vetro. Fuori si intravedeva appena la maestosa sagoma dell’astronave madre che continuava imperterrita da mesi a pompare vapor acqueo dal mare dentro l’atmosfera. E nessuno sapeva ancora perché.

 

P.S. Titolo originale commissionato da FIK. 😉

Negazione negata

A dire il vero non l’avrebbe mai fatto. Non con lui. Non avrebbe mai aggiunto altro caos al casino della sua vita.
Ma quel giorno c’era del desiderio che si muoveva dentro di lei.
E fu più facile assecondarlo, invece che celarlo dietro una faticosa negazione.

La lunghezza perfetta

Ricordo perfettamente le discussioni parlando di noi, all’aperto, seduti sotto il glicine gigante del nostro ristorante preferito nei dintorni di Parma.
Mentre una brezza leggera circondava dolcemente i nostri volti, e qualche goccio di vino attentava alla nostra lucidità, le chiedevo provocandola: «Qual’è la lunghezza perfetta?» Lei mi guardava sorridendo, di quel sorriso sornione che solo le donne sanno imbastire sfiorandosi distrattamente i lunghi capelli in un gioco sottile carico dell’essenza di tutti i misteri.
Con gli occhi scintillanti dritti verso i miei, mi ripeteva sempre come fosse la prima volta: «Non bisogna tirarlo per le lunghe. È l’insieme che conta. Il coinvolgimento. L’emozione che trasmette.»
Scuotevo la testa fingendo contrarietà, mi fermavo un attimo per trovare il giusto tono solenne per la mia voce e riprendevo: «Io non credo proprio. E non lo dico io. È una cosa scritta duemila e più anni fa: da sempre le donne hanno un problema irrisolto con il serpente. E le cose non mi sembrano affatto cambiate da allora.»

Lei simulava un vago imbarazzo colorando di rosso la sua pelle, quasi fosse in preda ad un ricordo malcelato, e, continuando a fissarmi negli occhi, ripeteva immancabilmente: «No. Nel mondo frenetico di oggi, questa è la lunghezza perfetta per il nostro racconto».

La nonna di Lucia

Sono comodamente stesa a letto, coccolata. Leggo sul mio e-reader un racconto di questo autore sconosciuto, un racconto che si intitola con il mio nome, Lucia. Il brano non è niente di ché, ma qualcosa mi sorprende mentre procedo con la lettura. Sorrido. Il racconto si sviluppa con una trama molto simile ad un passaggio della mia vita, come se l’autore avesse saputo trent’anni fa quello che sarebbe accaduto. Ma non tutto è andato come nel racconto che sto leggendo. E no, caro Pj! Non è successo tutto come pensavi sarebbe accaduto. Quella sera, quando sono andata a trovare Paolo, sì, lui mi aveva parlato del negozio in cui aveva acquistato le sue Samanthe e, all’inizio, mi ero indignata e rattristata. Ma due giorni dopo, in quel negozio, ci sono entrata.
Mentre leggo le ultime righe, arrossisco ancora ripensando all’imbarazzo di quel giorno. Sono passati due anni e arrossisco ancora. Entrata nel negozio inizio a chiacchierare con questo commesso davvero gentile e bello da paura. Italiano perfetto con un accento indecifrabile dalle sfumature vagamente anglosassoni, voce davvero profonda che mi faceva rabbrividire. Il nome Jeff gli calzava come un guanto e, mentre mi fissava dall’alto, con uno sguardo intelligente e carico di interesse, mi aveva portato nello spazio di cinque minuti a parlare dal clima terso di quella giornata all’ultima canzone del gruppo del momento, passando attraverso l’importanza della mostra impressionista che si sarebbe aperta in città il mese successivo. Si era creata una specie di magia tra i nostri sguardi, interrotta dall’ingresso dalla porta sul retro del negozio del vero commesso. Un tipo tarchiato e brufoloso, con dei baffi disordinati che sembravano confondere e sporcare la sua parlata. Quando mi aveva raccontato trionfante che Jeff era uno dei loro due nuovi modelli maschili, mi ero sentita scoppiare, rossa in volto come se tutto il mio sangue si fosse addensato sul viso per uscire allo scoperto attraverso la pelle. Quel pomeriggio Jeff venne a casa con me e, una settimana dopo, andammo assieme a prendere anche John.
Finisco il racconto. L’e-reader mi propone il prossimo pezzo della raccolta, “La nonna di Lucia”, sono quasi tentata di andare avanti, ma sono un po’ stanca e, continuando a sorridere, decido di rimandare la lettura ad un giorno successivo. Mi allungo per riporre il lettore sul comodino e devo tendermi al massimo perché Jeff, in basso, continua a tenere ferme le mie gambe mentre sfiora la mia pelle con le sue labbra carnose. Tutta la lettura della sera era stata accompagnata dalle sue carezze morbide, dai suoi soffi sapienti, dalla sua passione per il mio corpo. John invece era stato silenzioso, steso al mio fianco, come un boa intento a misurarmi, e aveva fatto passeggiare le sue dita lungo il mio ventre, salendo a tratti verso il collo e indugiando talora su seni e capezzoli, quasi per farli arrabbiare.
Jeff e John sanno tutto di me. Ad ogni nostro incontro hanno imparato a capire le mie reazioni, i miei desideri, le mie emozioni e le assecondano ogni giorno con sempre maggiore maestria. Lasciato l’e-reader sono indifesa. Chiudo gli occhi e mi abbandono serena alle loro cure. Percepisco le loro carezze e il loro profumo intenso e piacevole. Jeff e John profumano sempre, ma, nei nostri incontri, il loro aroma si carica ulteriormente di una accesa nota sensuale che crea quasi dipendenza. Conoscono alla perfezione le mie zone erogene e trovano modi sempre diversi e sempre più efficaci per combinarle assieme. Hanno questa capacità innata di apprendere e far evolvere il loro comportamento e, con scientifica precisione, agiscono per massimizzare le mie emozioni. E’ impossibile non dimenticarsi completamente del fatto che in fondo loro sono solo dei robot, nella stessa misura in cui è vano resistere ai loro modi coinvolgenti. Questa sera hanno scelto i ritmi lenti. Si attardano ad ispezionare i lembi della mia pelle e trasformano la mia stanchezza in graduali ondate di energia.
Lì, mentre armeggiano con il mio corpo, i miei occhi chiusi, sono assalita da uno stato emozionale in cui le percezioni sensoriali si mischiano ai ricordi.
John mi stringe per un attimo un po’ più forte l’avambraccio sinistro, quasi per errore, e sono tuffata nella serata di qualche settimana prima. Facendo le pulizie, avevamo trovato in un cassetto una corda dimenticata, e involontariamente avevo sorriso a John. Mi avevano legata stretta, fermamente ma con dolcezza, prima le braccia e poi i piedi. Immobilizzata, alla loro mercé, straordinariamente serena e rassegnata a subire le loro penetranti angherie, ero sull’orlo di un incendio adrenalinico che solo una abbondante dose di endorfine ed estrogeni avrebbe poi potuto acquietare.
Jeff ora risale leggero lungo il mio bacino, le anche e il busto, mi sfiora in più punti. E’ un’omone, ma è come se il suo corpo abbia la densità delle piume. Ho gli occhi ancora chiusi, preme con morbidezza le sue labbra carnose sulle mie e sposta il viso di lato, mi soffia nell’orecchio una frase semplice con il tono profondo della sua voce. “Ti ricordi le stelle di quella sera? Ti porto là.”
E subito vengo immersa nel ricordo di una nottata stellata dell’estate prima, al mare. Io, John e Jeff, persi come bambini a guardare il firmamento, loro che mi raccontano storie sui sistemi solari, complesse nozioni scientifiche sui più immaginifici eventi del cosmo rese semplici dalle loro parole. Discussioni accese sulla certezza di altre vite simili alle nostre in quegli anfratti dell’universo. Simili alle nostre … E sopra di noi quella cappa così immensa di puntini luminosi, il cielo limpido che avvicinava tutto come si potesse toccare, una brezza leggera, calda e tonificante sui nostri volti e una lunga notte passata con il naso all’insù a chiacchierare senza sosta e senza l’ombra di una preoccupazione per ore e ore.
Ora lo sento entrare senza fatica, dolce e furtivo, e in breve attiva il suo pulsare erotico dapprima lento e poi sempre più veemente.
Esattamente come quella volta in cui, per un impulso nato in qualche angolo nascosto della mia psiche, prima di andare a lavoro, lo avevo inserito nella modalità “sesso violento”. Ci ripenso e mi prende nuovamente il batticuore. Lo stesso batticuore interminabile che mi aveva assalito prima di aprire, al mio rientro, l’uscio di casa, l’ansia eccitata di immaginare senza sapere quello che sarebbe accaduto una volta aperta la porta. Avevo messo i piedi dentro casa, titubante e incerta. Ascoltavo ogni rumore. Sentivo lontano John, in salotto, passare l’aspirapolvere canticchiando un motivetto, sembrava l’unica attività importante della villa, ma io sapevo che non era così. A piccoli passi con il cuore in gola mi ero avviata verso la cucina, avevo riposto la borsa,  circospetta, pronta a scattare per difendermi, e invece non stava succedendo nulla. La cucina era vuota. Avevo seguito il corridoio verso la zona notte della casa e anche lì tutto era in ordine e apparentemente libero da minacce. Iniziavo a pensare che forse Jeff non era in casa in quel momento. Insolito, ma non impossibile. Avevo sentito per un attimo scendere la tensione, mi ero tolta il golfino leggero che indossavo, e, ripercorrendo il corridoio all’indietro, iniziavo a rilassarmi. Era successo proprio in quel momento. Mi aveva preso da dietro con un’energia del tutto inaspettata facendomi trasalire. Dalla mia bocca era uscito un gemito sordo, strozzato, che la sua mano larga aveva coperto subito fino a farlo scomparire. Mi aveva tratto a sé comprimendomi forte sul suo bacino facendomi sentire tutte le sue forme.
Mi aveva voltato senza sforzo, con la stessa fatica con cui si attiva una trottola e subito, senza preamboli, aveva stracciato via la mia camicetta scoprendomi i seni. A quel gesto semplice e violento avevo provato, come mai prima nella mia vita, un lungo momento di eccitazione fusa alla paura più intensa. Impotente, ero stata trascinata in camera, sbattuta sul letto, spogliata il minimo sufficiente perché Jeff entrasse dentro di me. Cercavo di divincolarmi, perché la sua presa aveva qualcosa di soverchiante e spaventoso, ma nel contempo le sue mani cercavano con sapienza il mio corpo iniziando a trasmettermi una sorta di armonica dolcezza. Era dentro di me senza ondeggiare e lo sentivo crescere e decrescere con veemenza, generandomi un bisogno incontrollabile di assecondare le sue pulsazioni.
Anche adesso, come allora, lo sento gonfiarsi e sgonfiarsi, in un ritmo sincopato rispetto al suo ondeggiare dentro e fuori da me. Le sensazioni fisiche del momento sono mischiate ai ricordi del passato in un turbinio di emozioni che cresce velocemente. Perdo il controllo del mio corpo e veniamo insieme per un tempo lunghissimo. Alla fine crollo in una pace esausta. Anche questa sera, sono certa, lascerà un segno dentro di me.
Quando frequentavo uomini, i dettagli di ogni incontro venivano presto dimenticati. Con Jeff e John invece le nostre serate di sesso mi rimangono impresse come sigilli in ceralacca sopra lettere cariche di passione. Nessun bisogno di fare tatuaggi per ricordare l’importanza di un incontro, nessuna necessità di ripercorrere i ricordi per mantenere vive quelle sensazioni. Le sessioni con loro sembrano agire direttamente su quella parte di me profondamente genetica che mi spinge a cercare la passione. E ogni momento si forgia in maniera indelebile nella mia anima.
Jeff mi bacia dolcemente e si fa da parte, John si avvicina sopra di me, mi guarda negli occhi, sorride al mio sguardo appagato ed esausto, e sfiora dolcemente la mia guancia con le sue labbra. Si riposiziona al mio fianco, continuando ad accarezzarmi in maniera leggera e sensuale, ma non invadente. Rimane all’ingresso del mio ventre senza forzare alcun movimento.
Mi riprendo dopo alcuni minuti. Sento dentro di me un benessere che va al di là della passione e della stanchezza. Jeff e John, ai due lati del mio volto, sfiorando i miei seni, prendono a discutere sulla lucentezza della mia pelle disquisendo con discrezione su quale dei due sia stato quello che con i suoi massaggi e la sua passione ha contribuito di più al risultato. E hanno ragione perché la mia pelle e tutto il mio corpo sono molto più tonici da quando ci sono loro nella mia vita. Sono ritornata la splendida donna che ero da ragazzina.
Non ho bisogno di dire nulla, sanno che sono in pausa prima del riposo della notte, ma con loro non si può mai stare troppo tranquille. John è lì a qualche centimetro, le loro dolci carezze continuano e i loro sensori di eccitazione sono infallibili. Innumerevoli sono le notti in cui, durante qualche sogno forse nemmeno troppo erotico in cui ho scatenato i loro sensori, mi sono poi risvegliata già nel bel mezzo di una sconvolgente sessione d’amore.
Questa sera sono davvero troppo stanca per continuare. Cerco di distrarmi distogliendo ogni pensiero dall’intreccio dei nostri corpi, e ritorno con la mente alla visita della nonna nel pomeriggio. Mi viene a trovare spesso da quando è mancata mamma. Era arrivata arzilla come sempre con i suoi ottant’anni e un’energia che le invidierebbe chiunque. Aveva bevuto il tè preparato amorevolmente da Jeff e aveva cominciato raccontando tutte le attività che aveva svolto nell’ultimo periodo, perché nonostante l’età non sta mai ferma. Poi, ad un certo punto, quando Jeff e John si erano portati con discrezione in altre stanze con la scusa di terminare le pulizie, prima di andarsene, mi aveva preso da parte con fare sapiente.
– Ascolta tua nonna, Lucia. – aveva iniziato parlando sottovoce per non farsi sentire – Tua nonna sa come va il mondo. Anch’io ai miei tempi ho avuto le mie avventure. Ma avere due uomini, per una donna come te della tua età, non porta da nessuna parte. Sono tutti e due giovanotti belli e intelligenti, ma devi sceglierne uno, lasciare che l’altro si faccia una vita con qualche altra donna. E con quello che scegli devi pensare a mettere su famiglia. –
Sorrido. L’espressione dolce e conciliante di mia nonna aveva gareggiato con la sua ingenuità. Jeff e John per lei sono degli splendidi esemplari di homo sapiens come qualsiasi altro dei suoi tempi. Ma i tempi sono cambiati.
Ripenso alla sua preoccupazione: mettere su famiglia. Sorrido ancora. Vado con la mente al manuale di istruzioni. Verso la fine ci sono ben quattro pagine piene di punti esclamativi, declinazioni di responsabilità, sottolineature e frasi in grassetto per richiamare l’attenzione. Il manuale dedica molta più cura nel trattare quella funzione rispetto a tutte le altre. La funzione “Disabilita carica a salve”.
Perché si sa, gli spermatozoi sintetici e il codice genetico con cui vengono caricati raggiungono sempre il loro obiettivo senza sbagliare.

Lucia

Di Samantha ne ho tre copie.
Ricordo ancora molto bene quel giorno quando, navigando su un nuovo blog ho visto quella foto e ne sono rimasto folgorato. È stata una combinazione di coincidenze. Quella foto, io che dopo dieci minuti vado con quella immagine salvata nel cellulare al negozio dietro l’angolo, loro che mi accolgono parlando di quell’occasione unica, solo per quel giorno: prendi tre, paghi due. E ho controllato bene, quell’offerta non l’hanno più riproposta.
La mia deformazione professionale che mi impone sempre di avere il backup del backup dei dati ha fatto il resto. Ho dato due anni di stipendio in un solo giorno, hanno fatto un lavoro incredibile, ancora migliore della ragazza originale e adesso ho tre Samanthe.
Non ho molta fantasia. Le ho chiamate Samuno, Samdue e Samtre. Le prime due vivono qui a casa con me, Samtre invece abita nella mia casa in montagna, vado spesso a trovarla.
Samuno ha un tempismo straordinario. Quando rientro a casa la sera dal lavoro la trovo sempre che si sta facendo una doccia o che ne è appena uscita e, qualunque sia la temperatura, indossa una vestaglietta leggera. Le si modella lungo il corpo facendoti sentire una drammatica nostalgia per aver coperto quella parte della sua pelle calda e liscia come raso.
Samtre, invece, ha un’espressione più malinconica, ma quando andiamo a camminare insieme di rifugio in rifugio in alta quota, si ferma continuamente per indicarmi ogni animale, dalla più piccola farfallina, allo stambecco sulle crode. E, vi garantisco, non se ne perde uno, sfoderando immancabilmente ogni volta la stessa meravigliosa espressione stupefatta che mi fa sciogliere. Quando rientriamo nella nostra casa di montagna ci concediamo sempre un bagno caldo e fumante insieme dentro la grande vasca, stanchissimi, e quello è il momento in cui mi assale il senso di pace che amo di più.
Samuno e Samdue non chiacchierano molto. Voi non ci crederete, ma molto tempo fa sono stato anche sposato e so bene come ci si senta ad avere l’udito martellato da un continuo ronzio di discorsi. Loro sono più discrete. Frasi semplici, senza trabocchetti, mai nei momenti inopportuni, sempre attente a non urtare la mia sensibilità e il mio amor proprio. E poi, potete immaginarvi le splendide serate passate con loro due.
Da un po’ di tempo non è più così. Non so cosa mi è preso quella volta. Ero con il mio amico Federico che prendevamo una birra e ad un certo punto mi ha candidamente chiesto:
“Non è che mi faresti provare una di loro?”
Lì per lì mi era sembrata un’idea eccitante. L’ho lasciato solo con Samdue, mentre io e Samuno ci siamo messi tranquillamente a sorseggiare un paio di amari. Ma poi, improvvisamente, mi è scattato dentro qualcosa e sono diventato furioso.
Da un paio di anni non vedo più Federico, e ho confinato Samdue a vivere in soffitta. Samuno le porta da mangiare. E io la vado a trovare solo raramente in serate come questa. Sempre lo stesso tipo di serate. Bevo una mezza bottiglia di vino in più, salgo le scale, entro in uno stato mischiato tra il confuso e l’adirato, poi inizio a schiaffeggiarla e a insultarla. Non so se lei provi qualche tipo di dolore vero, ma la sua pelle color perla arrossisce velocemente, i fumi dell’alcol si mischiano al suo profumo intenso e mi eccito in un crescendo dall’epilogo scontato.
Ora sto scendendo le scale, ho richiuso la soffitta. Di solito vengo colto da vaghi sensi di colpa che non so spiegare, oggi invece nessuna traccia, penso solo a Lucia.
Mi è venuta a trovare ieri. Le ho aperto la porta, non ci vedavamo dal Natale del 2045, quasi quattro anni fa. Non ho fatto nemmeno tempo a spalancare l’uscio che era già strettamente avvinghiata al mio corpo.
Lucia ha sempre avuto curve istintive. Seni pronunciati, di una morbidezza consistente, e un sedere dalla rotonda perfezione. Il suo abbraccio aveva risvegliato antichi ricordi. Tempi lontani della nostra gioventù in cui la sua ormonale presenza mi aveva fatto perdere ogni ragionevolezza. Ma a quei tempi non ero abbastanza per lei e con me aveva sempre adottato la tecnica del “desiderami che ti respingo”. Appena entrata, quella sua stretta affettuosa mi aveva risvegliato soprattutto l’istinto di desiderarla. Poi si era staccata con un sorriso e, abbassando lo sguardo, avevo osservato i suoi fianchi imponenti, molto più larghi dei miei ricordi.
Ci eravamo seduti sul divano in salotto, davanti ad un bicchierino di liquore e dopo veloci convenevoli sul tempo trascorso, era andata subito al nocciolo, calando con agio naturale sul mio ginocchio la sua mano dalle lunghe dita affusolate:
“Tu, Paolo, sono certa mi puoi capire. In giro non ci sono più uomini veri, sono tutti irrimediabilmente persi. Questa situazione non è più sostenibile, io non ce la …”
Le sue parole erano rimaste inaspettatamente sospese a lungo. Ero in attesa e all’inizio non capivo. Attraverso la porta semichiusa che dava verso il soggiorno doveva aver intravisto passare furtiva Samuno, io credo, perché la sua mano si era ritratta lentamente e si era creato un lungo momento di silenzio carico di imbarazzo. Non saprei nemmeno dire se mio nei suoi confronti, suo verso di me, o mio verso me stesso. Forse l’insieme di tutti questi.
Mi era sembrato che le si stessero inumidendo gli occhi e quasi per fermare quel fiume che montava dietro le sue palpebre, me ne ero uscito con una frase evidentemente poco felice:
“Lucia, hai mai pensato di andare a fare un giro in uno di quei negozi della I-Robot? Ce ne è anche uno qui dietro l’angolo. Tu devi vedere! Sono bravissimi! Fanno dei piccoli miracoli … ”
Mi aveva interrotto alzando la sua mano, girando il volto lontano da me trattenendo malamente una smorfia. L’avevo vista respirare a fondo, e, seguendo il movimento naturale del suo seno, ero stato preso nella morsa di una grottesca emozione contrastante tra il compiaciuto e l’imbecille.
Aveva cambiato velocemente discorso, sfoderando qualche battuta sui nostri vecchi compagni che non vedevamo da anni. Lei era maestra nello sdrammatizzare le situazioni. Poco dopo stava uscendo dalla mia casa, ma, mentre la salutavo, il suo corpo mi stringeva quasi fosse un addio e il suo trucco sembrava squagliarsi.
Quel suo abbraccio e quel suo trucco che le riga la sua guancia rosata, da ieri, si sono fermati nella mia mente, come quei bocconi di cibo troppo ingombranti che non si capisce se vogliano davvero scendere. Mi siedo sulle scale. Sopra Samdue sembra camminare nervosamente avanti e indietro, sotto, molto più in basso, Samuno guarda verso l’alto con un punto interrogativo non programmato dipinto sul volto e io, dentro di me, sento una specie di vuoto che non riesco a comprendere.

A Natale tutti sono più buoni

Petra era una ragazza molto carina. Quando l’avevamo conosciuta ad una cena tra amici, mia moglie Carla si era accorta subito di quanto io ne fossi rimasto affascinato. Non era la prima volta che mi facevo prendere da un’altra donna durante il matrimonio e ormai Carla se ne era fatta una ragione, a modo suo. Mi lasciava fare per un po’, poi appena vedeva che la mia amicizia si approfondiva troppo, entrava in azione e smontava colpo su colpo ogni mia velleità, stringendo e accorciando il mio guinzaglio ogni giorno di più, fino a far svanire ogni mio desiderio.
Con Petra fu diverso.
Non era solo bella e solare, aveva un modo di fare dolce, sincero, e ammaliava tutti con la sua voce calda mentre parlava un italiano perfetto senza sbavature. E, quando appoggiava con naturalezza le sue curve afferrando il mio braccio, non lo nascondo, mi risucchiava via ogni  forma di razionalità.
L’avevo frequentata per un mese circa, assiduamente. La scusa era che nel gruppo dovevamo discutere del referendum appena chiuso, che dovevamo seguirne gli sviluppi e commentare ogni passaggio che ne sarebbe derivato. Ma, ovviamente, la verità era che uscivo da solo con lei e Carla lo sapeva. Carla sa sempre tutto. E vedeva nei miei occhi una luce intensificarsi ogni giorno di più. Ormai vivevo la mia giornata solo in funzione dell’incontro con Petra. Anche se, mentre uscivo di casa fingendo la solita disinvoltura, sbirciavo di traverso l’occhio sornione e beffardo di Carla che sembrava dire: “Le nostre condizioni le conosci bene. Mi lasci tutto e puoi seguire tutte le strade che desideri.”
E, questa volta, non lo nego, per Petra avrei anche potuto farlo.
Ma poi arrivò quel lunedì, qualche giorno prima di Natale. Petra aveva buttato lì una frase senza pensarci. Mi aveva ferito quel suo improvviso rivendicare il diritto di sentirsi libera nelle sue relazioni, di essere ancora giovane e di potersi godere la vita con chiunque incontrasse i suoi gusti. Li conoscevo bene quei ragazzotti tutto muscoli dei quali a lei piaceva circondarsi. Diceva che erano solo amici, che erano solo persone con cui le piaceva confrontarsi intellettualmente. Sì! Credici! Alla fine, anche lei, era come tutte le altre donne. Incapace di dare il giusto valore alla loro amicizia, alla loro intensa relazione, incapace soprattutto di volermi con l’intensità con cui io la desideravo.
Così un paio di giorni dopo ne parlai con Carla. Francamente. Ritrovammo subito l’intesa. Discutemmo un po’ vagliando le possibilità. Ma noi sappiamo bene che a Natale tutti sono più buoni. E così, mentre io e Petra passeggiavamo romantici un’ultima volta lungo il sentiero buio dei giardini vicino a casa, quando la sua testa incocciò la pietra che Carla le aveva velocemente scagliato da molto vicino, lei cadde al suolo con dolcezza ed eleganza e perse i sensi. E poi, più tardi, noi la tagliammo e, quando era ancora fresca, la cucinammo. Quella sera e i giorni seguenti innaffiammo l’ottimo goulash che ne venne fuori con il miglior chianti della nostra cantina e ci perdemmo in mille ebbre risate fino a dimenticare il suo stesso sapore.

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Diversamente eroina

Aveva poche decine di minuti prima di iniziare il suo turno allo sportello. Doveva cercare nuove irregolarità, vere o presunte che fossero, non era importante, non ci sarebbero state differenze. Se la ricordava bene l’ultima generosa una-tantum: un premio accuratamente calcolato con una formula a partire dal numero di cartelle esattoriali che aveva fatto uscire l’anno prima.
Per cui, selezionando qua e là qualche codice fiscale, pregustò l’arrivo del nuovo anno.
Il lavoro allo sportello era difficile, ma le riusciva naturale. Proprio per questa sua abilità aveva fatto un po’ di carriera. Selezionò la maschera muro di gomma e si mise davanti alle persone, spingendo il pulsante e alzando i suoi occhi annoiati al rosso display che sanciva il numero fortunato del prossimo utente.
Il primo era un omone grezzo e accigliato, partì con uno stentato italiano rivendicando ingiustizie subite e continuò tuonando in un crescendo dialettale sfiorando l’insulto. Alle sue urla lei reagì con indifferenza, scuotendo la testa e spingendo un po’ più avanti il suo busto. E l’uomo calò il tono con lo stesso ritmo con cui scese il suo sguardo. Se ne andò scontento continuando a imprecare ad alta voce dentro se stesso.
Seguì una donna, una commercialista. Con loro ci si intendeva facile. Erano tutti parte dello stesso ingranaggio. Veniva per conto di un suo cliente a cui era stato contestato il mancato pagamento delle rate di un’altra cartella. La posizione invero non mostrava anomalie, ma fu facile convincere la commercialista che sarebbe stato un equo scambio riconoscere sì i pagamenti, ma tenere la multa per imprecisati errori formali.
Fu il turno di un signore distinto. Alto e brizzolato. Il viso profondamente triste. Provò a spiegare che i soldi non ce li aveva. Supplicava. Lei sbirciò a terminale la sua posizione. Un debito con lo Stato non elevato, ma da quattro anni non vedeva stipendio, e le sanzioni crescevano. Prima di quella tristezza doveva essere stato un bell’uomo, per questo fece uscire la frase di circostanza ripetuta già mille volte accompagnandola con un bel sorriso. Lo salutò con tenerezza, mentre un vecchio dietro di lui già incalzava.
Finse di ascoltare l’anziano, che si lamentava delle tasse sulla sua pensione, ma il suo sguardo seguì il lento incedere dell’uomo. Lo vide uscire, fare qualche passo ancora, finché gli si fece vicino una donna. Le sembrò di essere in un cinema di seconda visione. Il suo campo visivo era coperto in gran parte dal volto rugoso del vecchio ciarliero, ma a fuoco vide solo la donna porgere un borsello all’uomo. Parole tra loro. Si protese calda a stringerlo tra le braccia. Rimasero così forse trenta secondi, poi lei si voltò, una mano nella sua e si girò di lato per allontarsi, ma il suo braccio si tese sempre più, perché lui non si muoveva. Estrasse invece qualcosa dal borsello, se lo puntò alla testa e crollò come un sacco vuoto.
Il resto del giorno fu confuso.
Era prevista una sessione di lavoro pomeridiana. Un importante dirigente doveva presentare i nuovi obiettivi da raggiungere. Era alto e mentre parlava di profilo guardando ora lo schermo, ora la platea, il suo ventre piatto faceva intravedere sotto la camicia aderente una malcelata tartaruga. Le sarebbe piaciuto essere la sua segretaria.
Il dirigente parlava delle nuove strategie. Non era grave far uscire cartelle pazze. Il ventisette percento dei contribuenti pagava comunque anche senza avere torti. Bisognava solo stare molto attenti e selezionare i contribuenti con disponibilità economiche commisurate alle multe e su quelli concentrare gli sforzi per la nuova campagna.
Arrivò il momento delle domande finali, dopo gli applausi per l’avvincente presentazione. E non seppe nemmeno bene perché le uscì quella stupida domanda.
«Ma voi? Che cazzo ci dovete fare con tutti ‘sti soldi?»

Black-out

Francesca osservava concentrata il volto di Stefano. Il sole arrivava di taglio a scandire gli zigomi asciutti del suo grande viso. Sembravano tirati in un accenno di sorriso, mentre scrutava divertito e quasi compiaciuto il movimento all’interno del bar dove stavano bevendo lentamente il loro aperitivo. Stefano era il ragazzo di Elena, la sorella di Francesca. Insieme l’avevano accompagnata un paio di ore prima e ora la stavano aspettando in quel locale, lì di fronte allo stabile un po’ datato ma elegante che ospitava il suo provino.

Stefano si sporse un po’ in avanti con lo sguardo ancora rivolto verso la sua sinistra e prese a dire:

  • Elena troverà concorrenza agguerrita, oggi. Sarà difficile vincere. Qui le ragazze sono tutte uno schianto. – Francesca distolse gli occhi dal volto di Stefano e ne seguì la direzione, mentre lui continuava. – Lei lo sapeva. Per questo ci ha voluti qui con lei, per farle coraggio. –

Lo sguardo di Francesca incrociò quello intenso e luminoso di una ragazza che guardava verso di loro con una minigonna cortissima, le gambe lunghe e affusolate che sembravano risalire verso l’alto seguendo i suoi capelli nerissimi e lucenti, e un’espressione sapientemente misurata tra il languido e lo spregiudicato. I muscoli del viso di Francesca, fuori dal suo controllo, si predisposero automaticamente ad un atteggiamento aggressivo, quasi di rabbia. Sembrò esserne colpita e si affrettò a riportare lo sguardo di fronte a sé. E lì l’espressione del suo volto mutò ancora velocemente, sorpresa dagli occhi azzurri di Stefano, che aveva a sua insaputa già abbandonato la perlustrazione del locale e la stava fissando intensamente.  Il cielo fuori si era fatto cupo. Le previsioni del tempo avevano anticipato l’arrivo di una intensa perturbazione, ma nessuno si sarebbe aspettato che in pieno ottobre sarebbero arrivati tuoni e fulmini così repentinamente. Il sole fendeva ancora l’interno del locale, ma sembrava quasi che il temporale in arrivo stesse applicando un filtro alla sua luce e gli occhi di Stefano spiccavano come saette. E il suo sorriso si era fatto sornione.

  • Elena sa il fatto suo. – riprese Stefano, sfiorando leggermente la sua mano. – Quando c’è da tirare fuori la grinta dà il meglio di sé. –
  • Cosa dici se ci avviamo e le andiamo incontro? – chiese Francesca, annuendo con la testa alla affermazione precedente .
  • Buona idea! Pago e le andiamo incontro –

Francesca osservava Stefano mentre era in coda alla cassa. Il suo elegante vestire e i suoi movimenti misurati e armonici rendevano insolitamente leggera la portanza del suo corpo modellato dalla frequentazione delle palestre e la sua voce sempre gentile, ma energica, dava alla sua presenza un senso di sicurezza quasi ancestrale. Pagato, si avviarono veloci attraversando la strada, mentre le prime gocce di pioggia pesanti già punteggiavano l’asfalto. Arrivati allo stabile, Francesca, appena davanti a Stefano, ancheggiò dolcemente per assecondare il movimento della porta girevole dell’ingresso, con la stessa leggiadria che Stefano conosceva bene. Francesca ed Elena erano proprio sorelle, stessi lunghi capelli carichi di riccioli naturali e ribelli, la pelle del viso radiosa senza imperfezioni e un corpo sinuoso ma discreto dalle proporzioni perfette. Appena entrati arrivò il messaggio di Elena: «Finito! 🙂 Qui sopra al quinto piano c’è una caffetteria. Venite ke prendiamo qualcosa? Vi aspetto all’ascensore»

Attesero il vecchio ascensore, affiancati. Stefano allungò affettuosamente il braccio a cingere la vita sottile di Francesca e fece finta di non accorgersi del suo piccolo sussulto quando l’aveva sfiorata. Entrarono. Fuori c’era già il finimondo, tuoni e fulmini come in piena estate, e nessuno avrebbe potuto immaginare che quell’ascensore si sarebbe fermato per più di un’ora a metà strada, due piani più in alto, a causa del black-out di quel giorno.

Il mondo dal basso

La vedevo passare quasi tutti i giorni alla stessa ora, circondata dalle sue amiche. Il loro vociare concitato mi sferzava come una folata di vento frizzante e mi avvolgeva completamente svegliandomi dal torpore della mia mattina serena e incolore.
La via che portava a Piazza San Pietro, in quelle giornate di sole settembrino, era immersa in una luce particolare e sembrava quasi di respirare una atmosfera di cambiamento e di speranza. I turisti, sempre molto numerosi, apparivano un po’ meno turisti, meno accaldati e più attenti alle meraviglie dell’Urbe, e a tratti si confondevano con i cittadini ormai intenti ad affrontare il lungo periodo dell’anno che separa le ferie dalle ferie.
Le quattro ragazze erano sicuramente studentesse universitarie. Non avrei mai potuto indovinare la facoltà che frequentavano. In tutti i loro discorsi, fitti di risate e gridolini, le uniche certezze erano i commenti corali su questo o quel ragazzo su cui immancabilmente si perdevano a pontificare. Erano tutte e quattro molto belle e sprintose, vestite alla moda e variopinte, riflettevano fulgidamente la luce del sole che sembrava illuminare solo loro. Erano belle, ma lei era particolare. Aveva dentro di sé qualcosa che ai miei occhi era stata evidente fin dalla prima volta che avevo incrociato il suo sguardo. Non mostrava curve sincere e  piene come le sue amiche, ma muoveva con armonia un portamento che nasceva dalle caviglie e si propagava dalle gambe proporzionate e flessuose, lungo il busto gentilmente maturo, fino al collo sottile e lucente  e poi al viso radioso e sorridente. A creare quel fascino particolare non era nemmeno il colore ramato e mosso dei suoi capelli che risaltava a fianco delle chiome scure delle sue amiche. Dal basso, dal mio punto di vista, la perfezione ti coglie pungente e quando la incontri la tua vita non è più la stessa. Sono un grande conoscitore di persone. Ne vedo passare a migliaia, da anni, tutti i giorni. Ma una ragazza come lei, garantisco, non si era mai vista.
Attendevo tutta la mattina quel momento e, puntualmente, non rimanevo mai deluso.
Anche quel giorno avevo sentito le loro voci da lontano. Quel dì l’argomento concitato del loro vociare sembrava essere un certo Giovanni, che veniva scandito ora dall’una ora dall’altra con lo stesso fervore che avrebbero riservato al cospetto del dio Apollo. Tenevo gli occhi chiusi e cercavo di immaginarla. Non pensavo al suo aspetto fisico, a come poteva essere vestita, ai riflessi del suo corpo alla luce di quella giornata azzurra limpidissima. Ero concentrato sulla sua presenza, mi pareva di percepire chiaro il suo avvicinarsi, come se la sua anima e il suo portamento occupassero le dimensioni dell’universo a me vicine. I miei sensi non erano in grado di sondarle, ma la mia essenza era pervasa dalla sua presenza.
Ora erano vicine. Aprii gli occhi e alzai lo sguardo verso di loro, sicuro di quello che avrei visto. Quel giorno era più intensa di sempre, radiosa e spigliata, sicura di sé e aperta alla tenerezza. Mi soffermai un attimo più del solito, perso ineluttabilmente in una contemplazione quasi spirituale.

La ragazza dalla chioma ramata dipinse sul volto una specie di sorriso dolce e divertito e con le braccia strinse a sé due delle tre amiche che la circondavano.
– Ragazze! – disse in tono sottovoce, ma deciso, richiamandole a sé e prolungando l’attesa prima di continuare la frase fino a quando tutte e tre furono strette con i loro volti a ridosso del suo – Vi siete accorte quanto giovane era e come erano intensi gli occhi azzurri del barbone che abbiamo appena superato? –

Cupidigia

Guardavo dall’alto, ammirato, la perfezione della mia opera.
Laura e Francesco camminavano lentamente, una in fianco all’altro, lasciando le loro anche libere di urtarsi dolcemente facendoli rimbalzare in un giocoso ondeggiare. Avevano percorso in lungo una delle piazze di Monza, senza abbracciarsi e senza tenersi mai per mano, ma i loro corpi procedevano così vicini che sembravano quasi blandamente magnetizzati. Avevano raggiunto uno dei bar della piazza con i tavolini fuori e si erano seduti per un aperitivo. Laura aveva l’aspetto di chi non era minimamente interessata all’arrivo del cameriere per fare il suo ordine. Il suo viso di carnagione chiara sembrava quasi riverberare mentre teneva gli occhi trasognati puntati sul suo Francesco. E Francesco la ricambiava. Busto eretto, leggermente proteso verso di lei, e un sorriso sornione con cui si gustava gli occhi luminosi e intensi davanti a lui. Mentre la guardava ripensava alla splendida serata di sesso che avevano appena trascorso. Era stata molto più che piacevole. Lenta, coinvolgente e carica di un mix straordinario di tenerezza, complicità, dolce violenza e anche di un pizzico di divertente comicità. Ripensava alla loro serata, fissava Laura, ma non riusciva a non pensare a Teresa. Non la sentiva più da tre giorni. Né un messaggio, né un post su Facebook a cui replicare subito per tenere vivo il suo interesse, nemmeno una segnale telegrafico alla sua chiamata senza risposta della mattina precedente. Teresa era splendida. Carnagione scura e curve morbide, meno armonia e modi gentili di Laura, ma il sottile mistero di chi misura con cura il suo coinvolgimento. Una serata come quella di ieri, con lei, non sarebbe potuta esserci, ma una serata diversa sì.
In quel momento Teresa era molto vicina, stava camminando frettolosamente in una delle strade che portavano alla stessa piazza, ma, a dire il vero, stava anche per svoltare per raggiungere il negozio di telefonini un paio di quartieri più in là. Andava di solito in quel negozio ogni volta in cui sentiva il bisogno di cambiare cover al suo iphone. Procedeva spedita, con gli occhi piccoli e stretti un po’ accigliati, perché aveva dimenticato di prendere gli occhiali da sole prima di uscire di casa. Pensava a Francesco, che l’aveva contattata il giorno prima. Non aveva risposto, non era proprio dello spirito buono. Francesco, era un bravo ragazzo, un ottimo partito, simpatico e belloccio e ci teneva a tenerselo buono perché non si sa mai nella vita. Ma erano due giorni che aveva la testa da un’altra parte. Da quando Stefano, tre giorni prima, improvvisamente se ne era andato con una scusa, dopo che si erano concessi di tutto. Si erano visti anche i giorni dopo, apparentemente nulla era successo, ma da quella sera aveva una sensazione strana e lei, quando aveva sensazioni strane, ci prendeva sempre. Stefano non era uno qualunque, uno da lasciarsi scappare senza mettere in atto piani b, c, d ed f. Aveva bisogno di stare tranquilla e pensare a come muoversi.
Mentre stava per imboccare la strada del negozio, voi non ci crederete perché era certamente il tipo di evento che normalmente Teresa avrebbe percepito in anticipo, non si accorse che stava arrivando in auto a poche decine di metri da lei, esattamente in quel preciso momento, proprio Stefano. Aveva parcheggiato la sua Porsche, senza far troppo rumore, al posto riservato agli invalidi davanti al suo bar preferito, tanto sarebbe potuto restare solo un minuto. Era entrato di fretta e aveva ordinato a Mariana, con un grande sorriso, il suo solito cappuccino. Mariana era la ragazza romena dai modi dolci e incantevoli che serviva nel locale. Aveva un modo tutto suo, flessuoso e spontaneo di muoversi e di muovere quello che sfiorava. La sua voce era così melodiosa che il suo accento non risultava mai coriaceo, era semmai esotico, per nulla scontato, carico di una sensualità naturale. A Stefano era capitato frequentemente di entrare nel locale e di averla vista servire i clienti intonando continui motivi musicali sempre vari e ammalianti. E spesso si fermava anche a parlare con lei, e lì scattava veramente qualcosa, perché Mariana aveva un volto semplice, senza trucco, dolcemente punteggiato di lentiggini che esaltavano i suoi lineamenti perfetti. Mentre parlava con qualcuno, Stefano incluso, lei si inseriva in una modalità comunicativa spontanea e sorridente che avrebbe reso piacevole parlare del tempo anche per chi si era appena inzuppato dentro ad un temporale.
Mentre beveva il suo cappuccino, quel giorno ahimè troppo di fretta, Stefano osservava Mariana e gli altri avventori. Stefano era certo che diversi di loro venivano lì, come lui, per Mariana. Lei invece quel giorno osservava di nascosto Iuri, che se ne stava mogio e defilato seduto ad un tavolino sorseggiando un’acqua minerale. Non veniva spesso. Era originario del suo stesso paese e ogni tanto le era capitato di chiacchierare per ore con lui dei loro luoghi, dei momenti spensierati della loro adolescenza, ma, secondo lei, tutti e due erano troppo timidi per condividere l’uno con l’altra tutto quello che si portavano dentro per la loro emigrazione.
Iuri guardava il vetro del bicchiere che faceva riverberare un riflesso della luce che arrivava da fuori. Pensava a Laura. Lei era l’unica ragazza italiana che lo trattasse con dolcezza e l’avesse fatto sempre sentire semplicemente un ragazzo e non un ragazzo romeno come tutte le altre. Quando pensava a lei sentiva crescere dentro un gran desiderio di icontrarla ancora. Succedeva sempre per caso ultimamente. Da quando avevano terminato l’università non capitava spesso, ma sempre lei lo accoglieva con un sorriso, un abbraccio sincero e qualche veloce parola carica di attenzioni e serenità. Scostò un po’ il bicchiere, il riflesso si fece più intenso ferendogli gli occhi, che mantenne comunque ben spalancati sperando di ricevere un’illuminazione sulla domanda che aveva scolpita nella mente: “Dove sarà adesso Laura?”.
Vedevo tutto distintamente, quello che avevo davanti era un capolavoro di incastri perfetti. Per niente facile da creare, ve lo garantisco, anche se al giorno d’oggi è più facile di un tempo. Ero stato davvero bravo.
Ma dovevo rimettere mano un po’ a tutto. Il giorno prima ero stato richiamato ai piani alti, ed ero stato redarguito. Il mio operato qui, pare lasciasse a desiderare. Poche coppie durature, poche certezze, molta grande confusione. E allora quel giorno avevo dovuto cambiare faretra. E le frecce che stavo per scoccare avrebbero cambiato la vita di molti di loro. Perché, quando arrivano dei figli, sembra un caso, ma le vite possono cambiare.