The end (but no one can end anything)

Sono passati pià di tre anni.
E’ davvero tanto che non scrivo più qui. Questa sera, con un po’ di sorpresa, ho provato a vedere se questo blog esisteva ancora …  e sì, esiste ancora. Non credo nemmeno di sapere più come si faccia a mettere in fila delle parole.  Non credo di avere nemmeno più le credenziali per accedere salvate da qualche parte, ma il buon vecchio jetpack fa il lavoro di collegarsi per me.

E’ strano questo mondo.  Ci sono cose difficili che funzionano senza che noi facciamo nulla, ce ne sono altre di semplici che non c’è verso di far andare come vorremmo.
Questo blog è posizionato da molti anni all’interno di una pennetta che penzola dietro la tv della mia cucina, e, ancor oggi, risponde a quei malcapitati che il buon google decide di indirizzare verso questa sequenza di parole senza arte ne parte. Vi posso garantire che le parole salvate dentro questi articoli sono tutte storte che sfidano la gravità in una quotidiana lotta nel disperato tentativo di non schiantarsi sul piano della cucina. Penzolano tutte inclinate e per ora non precipitano. Quando le leggete sembrano rigorosamente orizzontali. Ma non è così. Segno austero che non esiste realtà più falsa di quella che arriva dalla rete.

Ma dopo anni sono entrato nel blog non per caso. Cercavo un ricordo. Il ricordo  di qualcosa che avevo scritto oltre sei anni fa e non rammentavo più.
Oggi mia mamma se ne è andata. Mio papà se ne era già andato a febbraio del 2020. Le malattie moderne non sono interessanti per questa storia.
Cercando il mio ricordo speravo forse di trovare qualcosa di incompleto, io credo. Qualcosa su cui costruire un nuovo pezzo, per tenere vivo il loro ricordo e con quello salutarli. Non ho trovato nulla a cui appigliarmi. Solo piccole frasi e sensazioni su cui provare commozione.

Ma non ho racconti da fare, solo una piccola ammenda. Nella mia vita ho parlato con loro un’infinità di volte, li ho anche ringraziati per mille cose, ma non ho mai speso una parola, un cenno di gratitudine per aver creato la mia di vita. La mia non è stata una vita di quelle roboanti, è stata una vita come altri miliardi di vite, nulla di più. Ma non credo sia compito dei genitori quello di generare vite roboanti. Hanno fatto un ottimo lavoro lo stesso, e, anche se non glielo ho mai detto, sono felice che lo abbiano fatto. E così non ho bisogno di salutarli. Domattina forse mi sveglierò come tutte le altre mattine e sapranno con soddisfazione, come lo so io, che lo devo solo a loro.

Senza Titolo (1)

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Pj guardava sconsolato fuori verso il nulla. Sembrava cercare quasi ispirazione in tutte quelle gocce di pioggia che rigonfiavano la superficie esterna della finestra impedendo di intravedere qualsiasi fattezza del mondo esterno.
Il lettore alle sue spalle lo osservava enigmatico. Probabilmente si stava chiedendo perché fosse lì in quel momento a sprecare il suo tempo prezioso nel tentativo di capire qualche altro oscuro insospettabile risvolto del collegamento esistente tra le anime.

Pj sentiva il suo sguardo solidamente fisso tra le sue spalle e la sua nuca. Fu in quel momento che i suoi riccioli ribelli ebbero un moto impercettibile, quasi sospinti dalle onde sonore, quando il lettore proferì alcune parole con solennità:

«C’è della ruggine tra di noi!» – fece una pausa, poi sembrò voler ripartire di nuovo e invece rimase in silenzio.
Pj si sentì colto sul vivo. La pioggia cadeva incessantemente da settimane. Il mondo era immerso profondamente in un clima ideale per la ruggine. Sentiva di dover rispondere qualcosa, ma  non gli sembrava che il tempo fosse maturo per lo sforzo di girarsi e confrontarsi con uno sguardo verace dopo mesi di pioggia continua. Allora parlò dritto, lasciando che  la sua risposta rimbalzasse indietro dal vetro della finestra verso il lettore:

«Che sarà mai un po’ di FEdueOtre quando ci sono anche treHdue. Un po’ di ruggine dà alla vita un colore sanguigno di decomposizione, per ricordare che le certezze sono un’illusione.» – le sue parole riflettendosi sul vetro assunsero un tono ovattato e profondo come se fossero state alimentate direttamente da uno dei tuoni di sottofondo del mondo esterno.

«Pensavo fossi differente! Pensavo fossi uno su cui ci si può contare. » – si fermò un attimo e, questa volta, ricominciò. – «Qualcuno che doveva scrivere qualcosa di sensato o di profondo o di bello o di brutto. » – si sospese un secondo, come per respirare un secondo, ma sul volto gli si colorò una sfumatura cianotica come se l’aria fosse veramente satura di Hdue e ogni altra parola si trasformò sul nascere in espressione spenta.
Fu in quel frangente che Pj si voltò, cercò lo sguardo del lettore simulando una finta rassegnazione e prese a parlare con molta tranquillità:

«Dovrei forse parlare del tempo? O del nuovo governo? O dovrei raccontare che l’altro giorno ero in un luogo pubblico affollato. Ho contato venti tavoli, cinquantasette persone, delle quali trentaquattro completamente immerse nel loro smartphone. Una media di uno virgola quindici persone ad ogni tavolo che di fatto parlava solo con sé stesso. » – si fermò qualche istante sospettando che il lettore volesse stimare la media per ogni tavolo di persone che stavano interagendo solo via etere e poi riprese – «Oppure dovrei scrivere un raccontino su come la ruggine arrugginisce la capacità di scrivere delle persone? Oppure potrei girarmi di nuovo verso fuori contando le gocce d’acqua sulla finestra? Perché qui è giorni che non si vede un cazzo di niente. » – quella frase era stata messa là apposta per disaffezionare il lettore alla discussione.
Invece non fu così. Pj si voltò di nuovo verso fuori, e il lettore lentamente percorse i pochi passi che lo separavano da quella finestra, gli si mise in fianco e cominciò a cercare di sbirciare fuori. Passò forse un minuto. Il lettore ruotò verso Pj la testa mantenendo fermo il busto e aspettò che Pj facesse altrettanto e, fissandolo, disse:

«Non trovi che ruggine e rugiada abbiano una sonorità davvero simile? » – Pj annuì con un sorriso e in sincrono si voltarono di nuovo incollando il loro naso sul vetro. Fuori si intravedeva appena la maestosa sagoma dell’astronave madre che continuava imperterrita da mesi a pompare vapor acqueo dal mare dentro l’atmosfera. E nessuno sapeva ancora perché.

 

P.S. Titolo originale commissionato da FIK. 😉

Guida rapida alla consultazione della colonna sonora

Credo che le persone cinefili si dividano in due grandi categorie: quelle che non vedono l’ora che esca il prossimo film francese e quelle che a quel film si addormenterebbero per certo.
Io appartengo a questa seconda categoria.
A mia parziale discolpa posso dire solo che davanti ad un film spero sempre di essere portato in un luogo differente da quello in cui mi trovo.
Ecco perché, in una giornata dove altri segnali positivi si sono accumulati a quelli pregressi, e sono riuscito a trovare il tempo per dedicare le due ore necessarie a guardare ed ascoltare con calma questo concerto di Hans Zimmer, io mi sono commosso.
Mezzo bicchiere di vino per sognare di essere stato là, ripensando a come le note di tante colonne sonore possano fare da filo conduttore di un percorso segnato da molti film francesi non visti, e si finisce facilmente in un luogo differente da dove si pensava si sarebbe stati.
Se siete utenti Netflix, o se volete sperimentare un suo abbonamento gratuito, e avete due ore libere da pensieri (come io non avevo avuto per troppo tempo), non esitate a guardare questo concerto di Hans Zimmer a Praga. Oppure cercatelo in qualche versione ad alta definizione, non importa.
Non ve ne pentirete.
Anche non vi piacesse, sareste comunque pronti per vedere con rinnovata soddisfazione il prossimo film francese in uscita, ed entrando al cinema sorriderete bonari pensando a quanto differenti siete da questo Pj.

 

Il percorso migliore

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Un paio di giorni fa ripercorrevo distrattamente l’elenco degli articoli che ho pubblicato su questo blog nel corso di questi ultimi quattro o cinque anni. Articoli sempre più sparuti, in numero inversamente proporzionale agli impegni della vita reale. La vita reale. Non saprei dire se questo mio percorso tortuoso degli ultimi anni sia stato davvero parte di una vita reale.
Leggendo l’elenco, qua e là, nascosti tra un raccontino e l’altro, ho trovato gli spezzoni di questo mio passato recente. Ho ricordato i miei compagni di viaggio, ho ricordato le insegne che incontravo tutti i giorni, gli eventi accaduti, ho ripensato alle moltissime persone che ho conosciuto in questi anni. Le persone sono meravigliose. Nascondono la loro storia dietro un involucro così originale che ne tradisce proprio l’essenza profonda.
Ho rivisto i luoghi che frequentavo. I paesi, i quartieri, i percorsi che seguivo. Gli autogrill sparsi a macchia di leopardo per il nord Italia dove spesso scrivevo i post senza pretese che costellano questo luogo virtuale.
Sembra senza importanza, nella sostanza è senza alcuna importanza, eppure queste frasi abbozzate che riempiono queste pagine hanno un significato importante calate nella frenesia di questi anni. E paradossalmente, questo lo si può capire solo quando alla tenera età di cinquantadue anni si deve prendere il cancellino e pulire la lavagna per ripartire.
Nei miei viaggi degli ultimi quattro anni e  otto mesi ho percorso circa quattrocentocinquantamila chilometri (mischiati ad altrettante interminabili riunioni). Un bel numero. Qualche volta conoscevo una nuova persona e si finiva inevitabilmente a scoprire la vita di entrambi. Io resistevo a lungo dietro una credibile riservatezza, ma spesso alla fine cedevo a raccontare la parte semplice della mia vita reale. La reazione comune di tutti era sempre una oscillazione immancabile tra uno sguardo riprensivo perché non mi volevo bene e una espressione incredula per certi ritmi che sostenevo.
Ieri ho passeggiato lungo il sentiero della foto. Ho fatto otto chilometri sotto una nevicata leggera, respirando ossigeno, in un luogo dove ero l’unico a lasciare delle orme. Di certo il miglior percorso che abbia fatto in questi ultimi anni.
Camminando si capiscono meglio le vicende della nostra vita.
Siamo fatti sufficientemente male e alla fine avremo anche un po’ di nostalgia di questi cinque anni passati. Ma la felicità profondissima che avevo dentro e che mi sta accompagnando all’inizio di questa nuova fase della vita è il lascito più importante del mio periodo diesel ormai parte granitica e non più modificabile del mio passato.

Negazione negata

A dire il vero non l’avrebbe mai fatto. Non con lui. Non avrebbe mai aggiunto altro caos al casino della sua vita.
Ma quel giorno c’era del desiderio che si muoveva dentro di lei.
E fu più facile assecondarlo, invece che celarlo dietro una faticosa negazione.

Dentro vs Fuori

Dentro siamo fatti in un modo, fuori in un altro. A tratti le altre persone sfiorano il nostro essere interiore e lasciano un segno che non può essere cancellato. Ma seguire con costanza quel che frulla dentro di noi è sempre tutt’altro che banale …
In questo sottile equilibrio si svolge il contrastato divenire delle nostre relazioni.

La lunghezza perfetta

Ricordo perfettamente le discussioni parlando di noi, all’aperto, seduti sotto il glicine gigante del nostro ristorante preferito nei dintorni di Parma.
Mentre una brezza leggera circondava dolcemente i nostri volti, e qualche goccio di vino attentava alla nostra lucidità, le chiedevo provocandola: «Qual’è la lunghezza perfetta?» Lei mi guardava sorridendo, di quel sorriso sornione che solo le donne sanno imbastire sfiorandosi distrattamente i lunghi capelli in un gioco sottile carico dell’essenza di tutti i misteri.
Con gli occhi scintillanti dritti verso i miei, mi ripeteva sempre come fosse la prima volta: «Non bisogna tirarlo per le lunghe. È l’insieme che conta. Il coinvolgimento. L’emozione che trasmette.»
Scuotevo la testa fingendo contrarietà, mi fermavo un attimo per trovare il giusto tono solenne per la mia voce e riprendevo: «Io non credo proprio. E non lo dico io. È una cosa scritta duemila e più anni fa: da sempre le donne hanno un problema irrisolto con il serpente. E le cose non mi sembrano affatto cambiate da allora.»

Lei simulava un vago imbarazzo colorando di rosso la sua pelle, quasi fosse in preda ad un ricordo malcelato, e, continuando a fissarmi negli occhi, ripeteva immancabilmente: «No. Nel mondo frenetico di oggi, questa è la lunghezza perfetta per il nostro racconto».

Pausa caffè

Non so se sia un effetto della vecchiaia che si avvicina, ma tendo ad essere sempre più insofferente verso il cazzeggio. Amo i pochi momenti di svago che mi concedo, il resto, lo so, è per lo più vana frenesia, ma l’unica cosa che ho dentro di me è il desiderio di sfruttare ogni secondo della mia esistenza per arrivare dove sono ancora convinto di dover arrivare. Mi innervosiscono le persone che incrocio che sembrano sospingere la loro esistenza di minuto in minuto senza il bisogno e la voglia di costruire qualcosa diverso dallo scontato. Invidio e quasi disprezzo quelli che vivono con il solo scopo di inanellare un’altra giornata di divertimento e spensieratezza. Mi cruccio per ogni momento perduto, anche non per colpa mia, lontano dalla concretezza.
E penso a quanto tempo ho sprecato nella mia vita. A tratti anche mi rammarico per le clessidre che ho visto scendere intento a scrivere in questo blog.

Poi penso che non ha molto senso preoccuparsi né del tempo perduto, né delle scelte delle altre persone, né dello spazio che ci separa dalla fine delle nostre energie. Alla fine il riposo sono fiducioso arriverà e la cosa che conterà di più sarà solo l’onestà intellettuale con cui non potremo non giudicare l’impegno che abbiamo messo nella nostra vita per le cose che credevamo essere davvero importanti.

La nonna di Lucia

Sono comodamente stesa a letto, coccolata. Leggo sul mio e-reader un racconto di questo autore sconosciuto, un racconto che si intitola con il mio nome, Lucia. Il brano non è niente di ché, ma qualcosa mi sorprende mentre procedo con la lettura. Sorrido. Il racconto si sviluppa con una trama molto simile ad un passaggio della mia vita, come se l’autore avesse saputo trent’anni fa quello che sarebbe accaduto. Ma non tutto è andato come nel racconto che sto leggendo. E no, caro Pj! Non è successo tutto come pensavi sarebbe accaduto. Quella sera, quando sono andata a trovare Paolo, sì, lui mi aveva parlato del negozio in cui aveva acquistato le sue Samanthe e, all’inizio, mi ero indignata e rattristata. Ma due giorni dopo, in quel negozio, ci sono entrata.
Mentre leggo le ultime righe, arrossisco ancora ripensando all’imbarazzo di quel giorno. Sono passati due anni e arrossisco ancora. Entrata nel negozio inizio a chiacchierare con questo commesso davvero gentile e bello da paura. Italiano perfetto con un accento indecifrabile dalle sfumature vagamente anglosassoni, voce davvero profonda che mi faceva rabbrividire. Il nome Jeff gli calzava come un guanto e, mentre mi fissava dall’alto, con uno sguardo intelligente e carico di interesse, mi aveva portato nello spazio di cinque minuti a parlare dal clima terso di quella giornata all’ultima canzone del gruppo del momento, passando attraverso l’importanza della mostra impressionista che si sarebbe aperta in città il mese successivo. Si era creata una specie di magia tra i nostri sguardi, interrotta dall’ingresso dalla porta sul retro del negozio del vero commesso. Un tipo tarchiato e brufoloso, con dei baffi disordinati che sembravano confondere e sporcare la sua parlata. Quando mi aveva raccontato trionfante che Jeff era uno dei loro due nuovi modelli maschili, mi ero sentita scoppiare, rossa in volto come se tutto il mio sangue si fosse addensato sul viso per uscire allo scoperto attraverso la pelle. Quel pomeriggio Jeff venne a casa con me e, una settimana dopo, andammo assieme a prendere anche John.
Finisco il racconto. L’e-reader mi propone il prossimo pezzo della raccolta, “La nonna di Lucia”, sono quasi tentata di andare avanti, ma sono un po’ stanca e, continuando a sorridere, decido di rimandare la lettura ad un giorno successivo. Mi allungo per riporre il lettore sul comodino e devo tendermi al massimo perché Jeff, in basso, continua a tenere ferme le mie gambe mentre sfiora la mia pelle con le sue labbra carnose. Tutta la lettura della sera era stata accompagnata dalle sue carezze morbide, dai suoi soffi sapienti, dalla sua passione per il mio corpo. John invece era stato silenzioso, steso al mio fianco, come un boa intento a misurarmi, e aveva fatto passeggiare le sue dita lungo il mio ventre, salendo a tratti verso il collo e indugiando talora su seni e capezzoli, quasi per farli arrabbiare.
Jeff e John sanno tutto di me. Ad ogni nostro incontro hanno imparato a capire le mie reazioni, i miei desideri, le mie emozioni e le assecondano ogni giorno con sempre maggiore maestria. Lasciato l’e-reader sono indifesa. Chiudo gli occhi e mi abbandono serena alle loro cure. Percepisco le loro carezze e il loro profumo intenso e piacevole. Jeff e John profumano sempre, ma, nei nostri incontri, il loro aroma si carica ulteriormente di una accesa nota sensuale che crea quasi dipendenza. Conoscono alla perfezione le mie zone erogene e trovano modi sempre diversi e sempre più efficaci per combinarle assieme. Hanno questa capacità innata di apprendere e far evolvere il loro comportamento e, con scientifica precisione, agiscono per massimizzare le mie emozioni. E’ impossibile non dimenticarsi completamente del fatto che in fondo loro sono solo dei robot, nella stessa misura in cui è vano resistere ai loro modi coinvolgenti. Questa sera hanno scelto i ritmi lenti. Si attardano ad ispezionare i lembi della mia pelle e trasformano la mia stanchezza in graduali ondate di energia.
Lì, mentre armeggiano con il mio corpo, i miei occhi chiusi, sono assalita da uno stato emozionale in cui le percezioni sensoriali si mischiano ai ricordi.
John mi stringe per un attimo un po’ più forte l’avambraccio sinistro, quasi per errore, e sono tuffata nella serata di qualche settimana prima. Facendo le pulizie, avevamo trovato in un cassetto una corda dimenticata, e involontariamente avevo sorriso a John. Mi avevano legata stretta, fermamente ma con dolcezza, prima le braccia e poi i piedi. Immobilizzata, alla loro mercé, straordinariamente serena e rassegnata a subire le loro penetranti angherie, ero sull’orlo di un incendio adrenalinico che solo una abbondante dose di endorfine ed estrogeni avrebbe poi potuto acquietare.
Jeff ora risale leggero lungo il mio bacino, le anche e il busto, mi sfiora in più punti. E’ un’omone, ma è come se il suo corpo abbia la densità delle piume. Ho gli occhi ancora chiusi, preme con morbidezza le sue labbra carnose sulle mie e sposta il viso di lato, mi soffia nell’orecchio una frase semplice con il tono profondo della sua voce. “Ti ricordi le stelle di quella sera? Ti porto là.”
E subito vengo immersa nel ricordo di una nottata stellata dell’estate prima, al mare. Io, John e Jeff, persi come bambini a guardare il firmamento, loro che mi raccontano storie sui sistemi solari, complesse nozioni scientifiche sui più immaginifici eventi del cosmo rese semplici dalle loro parole. Discussioni accese sulla certezza di altre vite simili alle nostre in quegli anfratti dell’universo. Simili alle nostre … E sopra di noi quella cappa così immensa di puntini luminosi, il cielo limpido che avvicinava tutto come si potesse toccare, una brezza leggera, calda e tonificante sui nostri volti e una lunga notte passata con il naso all’insù a chiacchierare senza sosta e senza l’ombra di una preoccupazione per ore e ore.
Ora lo sento entrare senza fatica, dolce e furtivo, e in breve attiva il suo pulsare erotico dapprima lento e poi sempre più veemente.
Esattamente come quella volta in cui, per un impulso nato in qualche angolo nascosto della mia psiche, prima di andare a lavoro, lo avevo inserito nella modalità “sesso violento”. Ci ripenso e mi prende nuovamente il batticuore. Lo stesso batticuore interminabile che mi aveva assalito prima di aprire, al mio rientro, l’uscio di casa, l’ansia eccitata di immaginare senza sapere quello che sarebbe accaduto una volta aperta la porta. Avevo messo i piedi dentro casa, titubante e incerta. Ascoltavo ogni rumore. Sentivo lontano John, in salotto, passare l’aspirapolvere canticchiando un motivetto, sembrava l’unica attività importante della villa, ma io sapevo che non era così. A piccoli passi con il cuore in gola mi ero avviata verso la cucina, avevo riposto la borsa,  circospetta, pronta a scattare per difendermi, e invece non stava succedendo nulla. La cucina era vuota. Avevo seguito il corridoio verso la zona notte della casa e anche lì tutto era in ordine e apparentemente libero da minacce. Iniziavo a pensare che forse Jeff non era in casa in quel momento. Insolito, ma non impossibile. Avevo sentito per un attimo scendere la tensione, mi ero tolta il golfino leggero che indossavo, e, ripercorrendo il corridoio all’indietro, iniziavo a rilassarmi. Era successo proprio in quel momento. Mi aveva preso da dietro con un’energia del tutto inaspettata facendomi trasalire. Dalla mia bocca era uscito un gemito sordo, strozzato, che la sua mano larga aveva coperto subito fino a farlo scomparire. Mi aveva tratto a sé comprimendomi forte sul suo bacino facendomi sentire tutte le sue forme.
Mi aveva voltato senza sforzo, con la stessa fatica con cui si attiva una trottola e subito, senza preamboli, aveva stracciato via la mia camicetta scoprendomi i seni. A quel gesto semplice e violento avevo provato, come mai prima nella mia vita, un lungo momento di eccitazione fusa alla paura più intensa. Impotente, ero stata trascinata in camera, sbattuta sul letto, spogliata il minimo sufficiente perché Jeff entrasse dentro di me. Cercavo di divincolarmi, perché la sua presa aveva qualcosa di soverchiante e spaventoso, ma nel contempo le sue mani cercavano con sapienza il mio corpo iniziando a trasmettermi una sorta di armonica dolcezza. Era dentro di me senza ondeggiare e lo sentivo crescere e decrescere con veemenza, generandomi un bisogno incontrollabile di assecondare le sue pulsazioni.
Anche adesso, come allora, lo sento gonfiarsi e sgonfiarsi, in un ritmo sincopato rispetto al suo ondeggiare dentro e fuori da me. Le sensazioni fisiche del momento sono mischiate ai ricordi del passato in un turbinio di emozioni che cresce velocemente. Perdo il controllo del mio corpo e veniamo insieme per un tempo lunghissimo. Alla fine crollo in una pace esausta. Anche questa sera, sono certa, lascerà un segno dentro di me.
Quando frequentavo uomini, i dettagli di ogni incontro venivano presto dimenticati. Con Jeff e John invece le nostre serate di sesso mi rimangono impresse come sigilli in ceralacca sopra lettere cariche di passione. Nessun bisogno di fare tatuaggi per ricordare l’importanza di un incontro, nessuna necessità di ripercorrere i ricordi per mantenere vive quelle sensazioni. Le sessioni con loro sembrano agire direttamente su quella parte di me profondamente genetica che mi spinge a cercare la passione. E ogni momento si forgia in maniera indelebile nella mia anima.
Jeff mi bacia dolcemente e si fa da parte, John si avvicina sopra di me, mi guarda negli occhi, sorride al mio sguardo appagato ed esausto, e sfiora dolcemente la mia guancia con le sue labbra. Si riposiziona al mio fianco, continuando ad accarezzarmi in maniera leggera e sensuale, ma non invadente. Rimane all’ingresso del mio ventre senza forzare alcun movimento.
Mi riprendo dopo alcuni minuti. Sento dentro di me un benessere che va al di là della passione e della stanchezza. Jeff e John, ai due lati del mio volto, sfiorando i miei seni, prendono a discutere sulla lucentezza della mia pelle disquisendo con discrezione su quale dei due sia stato quello che con i suoi massaggi e la sua passione ha contribuito di più al risultato. E hanno ragione perché la mia pelle e tutto il mio corpo sono molto più tonici da quando ci sono loro nella mia vita. Sono ritornata la splendida donna che ero da ragazzina.
Non ho bisogno di dire nulla, sanno che sono in pausa prima del riposo della notte, ma con loro non si può mai stare troppo tranquille. John è lì a qualche centimetro, le loro dolci carezze continuano e i loro sensori di eccitazione sono infallibili. Innumerevoli sono le notti in cui, durante qualche sogno forse nemmeno troppo erotico in cui ho scatenato i loro sensori, mi sono poi risvegliata già nel bel mezzo di una sconvolgente sessione d’amore.
Questa sera sono davvero troppo stanca per continuare. Cerco di distrarmi distogliendo ogni pensiero dall’intreccio dei nostri corpi, e ritorno con la mente alla visita della nonna nel pomeriggio. Mi viene a trovare spesso da quando è mancata mamma. Era arrivata arzilla come sempre con i suoi ottant’anni e un’energia che le invidierebbe chiunque. Aveva bevuto il tè preparato amorevolmente da Jeff e aveva cominciato raccontando tutte le attività che aveva svolto nell’ultimo periodo, perché nonostante l’età non sta mai ferma. Poi, ad un certo punto, quando Jeff e John si erano portati con discrezione in altre stanze con la scusa di terminare le pulizie, prima di andarsene, mi aveva preso da parte con fare sapiente.
– Ascolta tua nonna, Lucia. – aveva iniziato parlando sottovoce per non farsi sentire – Tua nonna sa come va il mondo. Anch’io ai miei tempi ho avuto le mie avventure. Ma avere due uomini, per una donna come te della tua età, non porta da nessuna parte. Sono tutti e due giovanotti belli e intelligenti, ma devi sceglierne uno, lasciare che l’altro si faccia una vita con qualche altra donna. E con quello che scegli devi pensare a mettere su famiglia. –
Sorrido. L’espressione dolce e conciliante di mia nonna aveva gareggiato con la sua ingenuità. Jeff e John per lei sono degli splendidi esemplari di homo sapiens come qualsiasi altro dei suoi tempi. Ma i tempi sono cambiati.
Ripenso alla sua preoccupazione: mettere su famiglia. Sorrido ancora. Vado con la mente al manuale di istruzioni. Verso la fine ci sono ben quattro pagine piene di punti esclamativi, declinazioni di responsabilità, sottolineature e frasi in grassetto per richiamare l’attenzione. Il manuale dedica molta più cura nel trattare quella funzione rispetto a tutte le altre. La funzione “Disabilita carica a salve”.
Perché si sa, gli spermatozoi sintetici e il codice genetico con cui vengono caricati raggiungono sempre il loro obiettivo senza sbagliare.