Un paio di giorni fa ripercorrevo distrattamente l’elenco degli articoli che ho pubblicato su questo blog nel corso di questi ultimi quattro o cinque anni. Articoli sempre più sparuti, in numero inversamente proporzionale agli impegni della vita reale. La vita reale. Non saprei dire se questo mio percorso tortuoso degli ultimi anni sia stato davvero parte di una vita reale.
Leggendo l’elenco, qua e là, nascosti tra un raccontino e l’altro, ho trovato gli spezzoni di questo mio passato recente. Ho ricordato i miei compagni di viaggio, ho ricordato le insegne che incontravo tutti i giorni, gli eventi accaduti, ho ripensato alle moltissime persone che ho conosciuto in questi anni. Le persone sono meravigliose. Nascondono la loro storia dietro un involucro così originale che ne tradisce proprio l’essenza profonda.
Ho rivisto i luoghi che frequentavo. I paesi, i quartieri, i percorsi che seguivo. Gli autogrill sparsi a macchia di leopardo per il nord Italia dove spesso scrivevo i post senza pretese che costellano questo luogo virtuale.
Sembra senza importanza, nella sostanza è senza alcuna importanza, eppure queste frasi abbozzate che riempiono queste pagine hanno un significato importante calate nella frenesia di questi anni. E paradossalmente, questo lo si può capire solo quando alla tenera età di cinquantadue anni si deve prendere il cancellino e pulire la lavagna per ripartire.
Nei miei viaggi degli ultimi quattro anni e otto mesi ho percorso circa quattrocentocinquantamila chilometri (mischiati ad altrettante interminabili riunioni). Un bel numero. Qualche volta conoscevo una nuova persona e si finiva inevitabilmente a scoprire la vita di entrambi. Io resistevo a lungo dietro una credibile riservatezza, ma spesso alla fine cedevo a raccontare la parte semplice della mia vita reale. La reazione comune di tutti era sempre una oscillazione immancabile tra uno sguardo riprensivo perché non mi volevo bene e una espressione incredula per certi ritmi che sostenevo.
Ieri ho passeggiato lungo il sentiero della foto. Ho fatto otto chilometri sotto una nevicata leggera, respirando ossigeno, in un luogo dove ero l’unico a lasciare delle orme. Di certo il miglior percorso che abbia fatto in questi ultimi anni.
Camminando si capiscono meglio le vicende della nostra vita.
Siamo fatti sufficientemente male e alla fine avremo anche un po’ di nostalgia di questi cinque anni passati. Ma la felicità profondissima che avevo dentro e che mi sta accompagnando all’inizio di questa nuova fase della vita è il lascito più importante del mio periodo diesel ormai parte granitica e non più modificabile del mio passato.
NELLA MIA VITA
Non sapere dove si è
Non vorrei sminuire il mio ruolo in questo universo, ma, in tutta onestà, non può che essere assai ininfluente. Tuttavia, quando come questa sera entro in un autogrill e sto per ordinare una semplice tagliata con rucola e aceto balsamico e la signora che mi deve servire, prima ancora che io apra bocca, mi guarda dritto negli occhi aprendosi in un sorriso quasi materno e mi dice lentamente, solennemente, con un tono che sembra uscire dal profondo di lei:
– Lei è uno di noi! – e strizza gli occhi per accentuare il suo sorriso
Non è una frase e un tono proprio dell’oste che accoglie il suo avventore. E, giuro, non ho la minima idea di cosa scorra nella sua mente, di cosa intenda con il mio appartenere a qualcosa. Era anche molto tempo che non mi fermavo in questo autogrill, ma, nonostante tutte queste negazioni, non riesco a non pensare di fare parte realmente di qualcosa che non capisco, ma sicuramente è molto vasto.
E l’aggettivo vasto è grezzo e immenso allo stesso tempo. È un aggettivo un pò magico. E allora mi fa piacere essere lì dove questa signora crede che io sia.
Il difetto delle onde gravitazionali
Qualche giorno fa ero in ufficio, perso in una delle infinite inutilità della mia vita lavorativa, quando entra un collega con un bel sorriso soddisfatto sul volto e mi dice:
«Oggi pomeriggio annunciano che hanno finalmente trovato le onde gravitazionali».
All’inizio non ho compreso subito di cosa mi stesse parlando. Mi aspettavo qualche sollecitazione lavorativa, o qualche altra affermazione usuale. Poi, nello spazio di qualche secondo, mi si è aperto un mondo. Non tanto per la prassi moderna che prevede l’annuncio anticipato del momento in cui si farà l’annuncio di qualcosa. Ormai ho fatto il callo anche a questo nonsense della scienza contemporanea.
La sorpresa è nata dentro di me dritta dritta da certe mie remote intuizioni. Avevo sempre saputo che il momento sarebbe arrivato e ora, quel momento, era proprio lì, nel mio ufficio, nella piega del tempo che stavo vivendo, per mezzo di quel ragazzo che un anno prima non conoscevo nemmeno. Mi parlava delle onde gravitazionali affascinato, con una certa ingenuità scientifica e lo stesso entusiasmo che avrebbe utilizzato per descrivere un ritrovo di gnocche sorridenti e disponibili. Venticinque anni prima sapevo che quel momento sarebbe arrivato, ma no, ve lo garantisco, non avevo la minima idea che sarebbe successo così come è successo.
Mentre mi raccontava i dettagli dell’annuncio non riuscivo nemmeno a seguirlo. Dentro di me vedevo passare pensieri ed emozioni tumultuose, sopite da una vita, sentendo crescere sul mio volto un sorriso sornione ed enigmatico, fusione di compiacimento, ironia e consapevolezza originati da quella fantascientifica macchina del tempo che va sotto il nome di “ricordi”. Capendo che il mio sguardo assente potesse essere considerato scortese, gli ho raccontato il mio passato e dopo poco sono finito per recitare il titolo della mia tesi di laurea in fisica:
“Rilevazione di onde gravitazionali a bassa frequenza mediante inseguimento Doppler di una sonda interplanetaria“. Il titolo ha dato alle mie parole sulla grande scoperta una certa autorevolezza, che mi ha permesso di rincarare l’innocente inganno sulla natura “gnocca” di queste sinuose onde gravitazionali. Anche se, come vi racconterò, la Verità sta sempre un po’ più scostata dai nostri sogni di bellezza.
Quando si è giovani i sogni sono una componente fondamentale della vita perché sono parte integrante del nostro animo e dei nostri pensieri. Poi con il tempo si trasformano e spesso sublimano diventando l’estrema essenza con cui le nostre aspirazioni sopravvivono alla piena consapevolezza che la norma è non sfiorarli nemmeno.
E la mia tesi rimane nella mia vita uno dei punti centrali della sublimazione dei miei sogni.
Prima di allora il mondo era soprattutto fascino e potenzialità, poi si è trasformato. Ho sperimentato sulla mia pelle che esiste l’Universo con le sue meraviglie da un lato, e dall’altro la sua propaggine umana che è davvero molto articolata. Indagarlo, capirne, o anche solo intuirne i magici misteri, è una delle sfide più nobili per l’Umanità, ma l’Umanità la affronta nell’unico modo con cui è capace di farlo: piccoli passi incerti, carichi di personalismi, in cui spesso i mezzi giustificano i fini.
E non bisogna credere il contrario, il periodo degli studi universitari e la mia tesi sono una parte specialissima della mia vita che ricordo con piacere e profondo entusiasmo. Ho amato sfiorare quegli spicchi di conoscenza che mi erano offerti, ho gioito vincendo il confronto con gli esercizi di matematica con l’asterisco (quelli veramente difficili in cui la risoluzione si poteva raggiungere solo facendo largo uso della fantasia), ho adorato durante la tesi risolvere in più modi l’equazione della geodetica che descrive ad esempio il campo gravitazionale generato da due stelle doppie che ruotano l’una intorno all’altra in una danza senza fine. E ho provato una punta di orgoglio nello scoprire che tutti gli articoli fino ad allora avevano sbagliato i conti. Non mi importava allora e non mi interessa oggi sapere che ci vorranno altri vent’anni per vedere gli strumenti di misura sufficientemente più perfezionati da riuscire a colmare il balzo di precisione di quattro o cinque ordini di grandezza che allora era necessario per poter dimostrare l’esattezza di quei calcoli.
Semplicemente con quella tesi ho percepito una cosa che ho capito veramente solo l’altro giorno, con l’annuncio della prova sperimentale dell’esistenza delle onde gravitazionali. Nella vita bisogna scegliere se cercare di capire in profondità una fettina minuscola della Bellezza dell’Universo o se decidere di rimanere costantemente rapiti dalla grandiosità del suo insieme. In quel periodo, senza nemmeno saperlo, io ho fatto la mia scelta, guidato solo dall’intuizione.
Ci sarebbero tanti risvolti da approfondire su questa decisione del passato. Sui suoi effetti, sul fatto che un percorso differente avrebbe agito in maniera dirompente sulla mia già claudicante socialità. Ma tutte queste riflessioni, fortunatamente, non sono interessanti.
Ma oggi io sorrido sempre quando sento questi annunci scientifici. Le onde gravitazionali esistono? Sì, certissimamente. La rilevazione del 14 settembre 2015 ha realmente visto il segnale dell’esistenza delle onde gravitazionali? Sono convinto di sì. Un passo importante dell’Umanità.
Ma quando sento dire che sono l’effetto di due buchi neri di una trentina di masse solari che decidono di fondersi seguendo la spirale della loro vita … beh, ragazzi miei, credetemi. Tutte cazzate!
Gli scienziati studiano il più grande Spettacolo che si possa immaginare e ormai fanno spettacolo non meno di tanti registi di oggi. Un po’ perché il mondo glielo chiede per colorare un po’ l’apparente essenzialità delle loro scoperte, un po’ perché il loro lavoro li porta spesso a ridosso della fantascienza e non c’è niente di più umano del cedere all’entusiasmo.
Non si poteva certo lasciare il sussulto del loro strumento di rilevazione delle onde gravitazionali, costato miliardi e miliardi, sempre muto fino ad allora, confinato alla sua essenza di semplice sussulto. Era necessario condirlo con buchi neri che si abbracciano a qualche parsec di distanza da noi che ti sembra quasi di poterli toccare. E siamo fortunati che le superstringhe stanno tramontando altrimenti avremmo potuto forse anche scoprire in quel picco di vitalità di un pezzo di ferro supertecnologico la spiegazione dell’unificazione di tutte le teorie.
Le onde gravitazionali sono una meraviglia, la scienza che ci ha portato fino a loro è una delle espressioni più nobili dell’essere umano. Specialmente ai giorni nostri, dove scoprire qualcosa di nuovo è dieci volte più difficile di un secolo fa. E tutta la fisica si occupa di questioni che se ti fermi un’attimo a guardarle nella loro perfezione finisci in uno stato d’animo di profondissima stupefazione.
E guardate che è tutto bello e misterioso, molto più di quello che immaginiamo. Le onde gravitazionali, sì una figata! Le superstringhe, belle! Se servissero a qualcosa. I buchi neri, mamma mia come vorrei averne uno nel bagagliaio dell’auto!
Però a volte mi fermo e penso anche alle cose semplici e meno altisonanti. Penso alla legge dell’attrito, di cui sembra che i nostri scienziati sappiano tutto. Ma non siamo ancora riusciti a mettere assieme uno studioso di psicologia, che inizia ad avere i capogiri appena vede una formula matematica, con un fisico che guarda il suo collega psicologo con altezzosa superiorità, quasi fosse un ciarlatano, per spiegare nel profondo come mai l’attrito tra due persone nel gesto semplice di un abbraccio può cambiare per sempre le loro vite.
Il paese dimenticato
Girovagando nel presente finisco talvolta in luoghi strani. Da un po’ di settimane a questa parte ogni tanto mi fermo la notte in un paese sperduto della pianura lombarda.
Ieri sera ho avuto le energie e l’ardire per andare a sondare la sua essenza notturna. Ci sono luoghi come questo, e credo molti altri, in cui le nozioni di tempo, di vita, di dinamismo dell’esistenza assumono una declinazione immutabile che porta con sé la fragilità del cristallo e il mistero dell’ignoto.
Complice il clima pungente, l’atmosfera umida vagamente nebbiosa e delle strane campane che suonavano “a morto”, addentrarsi nel piccolo centro storico di questo luogo alle dieci di sera è stato come tuffarsi in una dimensione romanzesca di altri tempi. E’ stato come entrare in un luogo tipico delle novelle di Stephen King, uno spazio che poteva essere stato già colonizzato da tempo dagli Ultracorpi di Don Siegel. Pochissime persone per la strada immerse nella fioca luce limacciosa accerchiata dall’umidità. Sguardi innaturalmente cordiali in uomini e donne non avezzi ad incontrare forestieri. Grandi spazi vuoti. E, intorno a questo vuoto, pochi locali gremitissimi. Gente animata in concitate discussioni dal piglio visibilmente cospiratore.
Nelle strade il vuoto, dentro i pochi locali, la folla di cittadini. Da zero a cento nello spazio di un uscio.
Questo paese ha una rocca. La Rocca. Un’altro luogo strano. Una corte aperta presidiata da gatti randagi dove non sarebbe sorprendente scoprire che i malcapitati avventori vengono sottoposti a qualche pratica esoterica per la loro trasformazione.
Vaghi nel buio tra un angolo e l’altro, capisci di essere una specie di pagliuzza che si muove sulla superficie di un occhio ceruleo che cerca di allontanarti e alla fine rientri in albergo. Nonostante le sue stanze moderne, accoglienti e funzionali, il singultare sommesso del collegamento wireless ti fa capire che le priorità e le esigenze lì sono differenti.
E al risveglio, al primo mattino del giorno seguente, nella mente insiste l’assillante motivo musicale del Main Theme di Interstellar e ti senti proprio come nel film. Senti che hai passato una notte in un luogo dove il tempo scorre con una velocità diversa. Per te è passata solo una notte, ma per le persone a te care saranno sicuramente trascorsi dieci giorni di cui tu non saprai mai niente.
Un’indovina mi disse
Più di un anno è passato.
Attraversavo frettolosamente una grande piazza della mia città. Ero in ritardo. L’avevo vista quando era ancora lontana, lei invece mi aveva sicuramente notato molto prima, quando eravamo davvero distanti l’uno dall’altra.
Perché avesse scelto proprio me in una piazza così gremita, rimane un mistero. Nella vita i misteri che incontriamo sono molti. Quelli che nemmeno riusciamo a percepire assai di più.
È strano. Ricordo ancora il suo viso. Nitido, collocato in un contesto dai contorni ormai sfocati dal tempo, ma straordinariamente vivido nella memoria.
Aveva occhi chiari, o forse solo molto luccicanti, lineamenti segnati dall’età, voce roca come si conviene all’animo zingaro che trapelava da tutto il suo essere. Si era avvicinata lentamente e al ridursi della nostra distanza non avevo provato nemmeno un barlume della solita sensazione di insofferenza che spesso mi assale quando uno zingaro mi si avvicina per chiedere qualcosa.
Aveva parlato a lungo, senza preamboli, raccontandomi storie. Storie della mia vita. Quasi come avesse vissuto per mesi al mio fianco tutti i giorni.
Si era fermata un attimo per poi riprendere subito a spiegarmi che esistevano forze contrapposte tra loro che lottavano per l’accadimento di eventi a loro graditi.
E lì piazzò quella che mi era sembrata la fin troppo evidente richiesta di emolumenti. Nel suo racconto infatti vi era un’unica grande verità. Solo lei poteva intercedere per far vincere la forza a me più favorevole.
Non ho mai capito dalle sue parole, allora e nemmeno dopo ripercorrendole, a quali forze si stava riferendo, quali forze stessero sprecando il loro tempo a giocare con le insignificanti vicende della mia vita. Il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, o il fantasma dell’opera e il fantasma formaggino.
Abbiamo contrattato per un po’. Io sono partito da due euro fino ad arrivare a cinque. Lei è rimasta inamovibile nella sua tariffa iniziale di dieci euro.
Domanda e offerta non si sono mai incontrate quel giorno. E io non saprò mai se l’indovina aveva veramente il potere di influenzare le ipotetiche forze contrapposte di cui parlava.
Terminata la piccola insignificante diatriba sui cinque euro mancanti, aveva continuato serenamente con la voce tranquilla, raccomandandosi di non raccontare le sue rivelazioni. E continuò a parlare, questa volta, del futuro.
L’ultima sua profezia si è avverata qualche settimana fa. Niente di ché in realtà. Si parla di normali eventi della vita. Ma ogni singolo piccolo accadimento previsto dalle sue parole, in un anno e mezzo, si è avverato nei modi e nella sequenza da lei scandita.
Ora, per fortuna, non c’è più niente che si debba compiere.
Non l’ho più rivista. E, lo confesso, qualche volta ho sperato di incontrarla passando ancora per quella piazza.
Se nella vita vi imbatterete in un accadimento simile, ho un mio consiglio. Non badate ai cinque euro di distanza. Magari poi vi prenderete allegramente in giro da soli per la vostra creduloneria, o potrete sempre spiegare il vostro raggiro appellandovi all’abilità dell’arte zigana di trasformare le normali vicende della vita in abito che calza come un guanto su di voi, ma sicuramente non avrete occasione di ripensare all’eterno dilemma del What if.
Un racconto dal passato
Oggi facciamo un piccolo salto nel passato. Era un tempo lontano in cui, ricordo con una certa nostalgia e tenerezza, amavo rallentare una parte delle mie giornate adolescenti all’ombra di tre tigli nel giardino di casa quando il frinire delle cicale si faceva assordante.
Trascorrevo le ore calde estive, passando dall’amaca, che si faceva sempre più molla fino a sfiorare il suolo, ad un tavolinetto da picnic, su cui immancabilmente troneggiava la macchina da scrivere.
La dinamica era sempre la solita. Mi distendevo sull’amaca, ondeggiavo un po’ facendomi ferire qua e là da qualche insidioso raggio solare che filtrava tra le fronde, e poi mi facevo prendere dalla nausea. Ho sempre sofferto di mal di mare. A quel tempo, poi, vomitavo anche in monopattino, e il nauseante ondeggiare dell’amaca era una specie di monito della vita come se ne trovano tanti, un vorrei dondolarmi ma non posso, per incominciare a prendere dimestichezza con le questioni chiave dell’esistenza. L’amaca dunque mi serviva solo per farmi illuminare da qualche idea e per fuggire subito sulla seggiolina di legno a ridosso del tavolino e incominciare a scrivere qualcosa.
Questo ricordo è ritornato vivo per una “coincidenza”. Qualche giorno fa leggevo un blog e ho trovato questo racconto, Il campo di girasoli. Il blog in questione lascia spazio a molte riflessioni, ad iniziare dalla didascalia del blog che da sola è un racconto che può lasciare il segno, per poi continuare con altri blog collegati come questo, dove la sensibilità di ognuno di noi può sbizzarrirsi su temi di cui io non son bravo a parlare.
L’idea del racconto “Il campo di girasoli” è bella e mi ha riportato alla memoria una vecchia storiella nata vicina a quell’amaca, sotto l’ala protettiva di quei tre vecchi tigli, immortalata poi da una macchina da scrivere in attesa che strumenti più flessibili e virtuali come i computer la rendessero quello che è: una manciata di minuti di un ragazzetto sognatore che giocava a fare lo scrittore di fantascienza. E qui di seguito trovate quel che rimane di quel gioco. Una costruzione Lego della fantasia libera di quel ragazzetto.
Racconto non datato scritto in prossimità degli anni ’80.
I GIRASOLI
– Vedi, l’uomo ha una grandissima dote che è la fantasia- disse lo scrittore al suo amico- e fintanto che potrà godere di questo grande dono, uno scrittore di fantascienza avrà sempre del buon materiale per le sue opere.
– Sarà …, sarà …, ma per me non potrete continuare a lungo a scrivere le vostre sciocchezze, ancora poco e la gente si stancherà di tutte queste idiozie- sentenziò l’ amico con aria di sufficienza.
– Perchè poi, non capisco!-
– Ma è semplice: vi gongolate in altri mondi, in astronavi supergiganti, in esseri mostruosi in situazioni paradossali, in invenzioni talmente fantastiche da essere fin puerili; no, caro mio, la fantascienza sta per morire, e con lei morirà anche il tuo nome. Verrò al tuo funerale, ti va?-
– Proprio non ti andiamo a genio noi scrittori di fantascienza, vero!-
– Fosse solo per voi, sarebbe niente. Sono le sciocchezze che scrivete che mi fanno imbestialire: sempre le solite idiozie targate futuro, futili ed inutili, a volte neanche scritte bene. Ne ho lette alcune per il passato, carine sì, originali anche, ma insipide, noiose, pericolosamente insignificanti. La Divina Commedia: ecco cosa val la pena di leggere; o Foscolo, Shakespeare, Leopardi; non certo Asimov, Brown, Moore Williams o altri della vostra stirpe.-
– Ti confesserò che ho sempre considerato limitate e ottuse le persone che non riescono a comprendere la bellezza della fantascienza. Denota scarsa elasticità, poca predisposizione ad accettare le inevitabili conquiste del futuro e sopratutto indica una grave mancanza di fantasia e, in parte, anche di intelligenza! Quanto poi alla Divina Commedia io l’ho sempre considerata un grande poema di fantascienza, parto di una fantasia sfrenata. – la sua voce denotava un innegabile orgoglio.
-Voi scrittori vivete tra le nuvole, e sparate idiozie a destra e a manca.- la voce dell’amico sembrava un po’ irritata. Si sentiva forse preso in giro- Vi alimentate delle baggianate che voi stessi scrivete.-
– Beh, almeno noi siamo autosufficienti; crediamo nella scienza ed esploriamo in essa quello che gli scienziati non si sentono ancora di valutare e ci permettiamo di tentare modestamente l’ignoto senza pretesa alcuna. Ci divertiamo e divertiamo anche coloro che ci leggono. E tutto è bene quel che finisce bene!-
– Solo che siete destinati a morire presto, come scrittori s’ intende!- la sua voce era di nuovo tranquilla; la discussione in fondo era sempre amichevole- Presto l’ originalità, che è la vostra unica arma, vi abbandonerà.-
– Dici? – chiese con aria poco convinta- Ma fino ad allora avremo vita certa. –
– Sino ad allora solo! Non certo di più- si sentiva un po’ crudele come amico.
– Ma è proprio questo che cercavo di farti capire prima! L’ originalità non verrà mai meno, mai! L’ uomo sogna sempre, fantastica e crea dal nulla cose sempre nuove. Dammi un titolo e ti scrivo un racconto rapido rapido. Dammi il peggior titolo che ti viene in mente e ti dimostro che non è poi così difficile inventare qualcosa di originale.-
– Okay, okay! Fiat voluntas tua! Vediamo un po’ … Il calendario. Ti va come titolo? No è troppo facile. Oh ecco I Girasoli; tiè, proprio perché mi sento buono! Scrivimi un racconto con titolo “I Girasoli”-
– Contentissimo!- era veramente contento- Vieni con me nello studio, prendo la macchina, ci penso dieci minuti e poi ti scrivo questo racconto, breve però.-
– Breve, lungo, largo, stretto, cosa vuoi che sia? Qui ti voglio.-
Si avviarono nello studio e lo scrittore piombò in una silente meditazione. L’ amico lo disturbava con battute e risate, frutto della sua amichevole avversione.
Mezz’ora dopo il racconto era terminato.
– Ecco è pronto- disse lo scrittore con una certa soddisfazione- Tu lo leggi non voglio neanche sapere cosa ne pensi. Te lo regalo come ricordo, se lo vuoi, bene inteso. Quando hai finito me lo dici, che ce ne andiamo fuori subito a farci una birra. Okay? –
– Okay! – e incominciò a leggere:
“Come mai nessuno se ne era mai reso conto prima? Era un vero mistero. Come non accorgersi che gli dei esistevano davvero, che vivevano così vicino all’uomo? Gli dei dell’Olimpo erano stati il frutto dell’immaginativa degli antichi Greci, il Dio cristiano perse presto il suo carisma dopo quell’ultima insospettabile scoperta, così pure Allah e Budda vennero sopraffatti velocemente dall’evidenza degli Nuovi Dei.
Anche di questi ultimi però era la colpa se non erano stati riconosciuti prima. Evidentemente avevano avuto le loro buone ragioni. Sì, doveva esser proprio così. Dovevano aver avuto le loro ragioni.
Dapprima vi fu una generale incredulità, ma tutti poi si piegarono all’evidenza dei fatti. Fu un duro colpo in verità per tutta l’ umanità al di sopra dei sedici anni, segnò la crisi di tutte le loro credenze. Nessuno prima avrebbe potuto immaginare che gli unici veri Dei erano i girasoli. Anzi i Girasoli: era peccato ora non usare la maiuscola.
In molti rifiutarono di accettare questa nuova realtà. Morirono tutti: vi fu chi si suicidò, altri invece conobbero altre morti, incidenti soprattutto, strani, violenti incidenti.
I Girasoli, proprio loro, erano gli Dei; era buffo, proprio buffo. La vita dell’uomo cambiò più di quanto fosse prevedibile; le scienze conobbero una lunga crisi; la fisica subì una vera e propria rivoluzione, ma non si riuscì più ad aggiustarla bene: sì, perché il primo ad ipotizzare l’idea che i Girasoli fossero gli Dei fu un biologo, il quale si accorse che non erano i Girasoli a girare il loro capolino verso il Sole, bensì era quest’ultimo a seguire i Loro moti.”
L’amico piegò perplesso il racconto, lo mise solennemente in tasca senza pronunciar parola; i due si avvicinarono alla porta di casa, l’aprirono ed uscirono in silenzio, addentrandosi nella fitta nebbia di Padova.
Nella mia vita
Alcuni giorni fa ero in montagna.
In realtà la storia è più articolata. Avevo passato la giornata un po’ più lontano da lì, a ridosso del mondo indaffarato del business, mischiato ad altre persone, più o meno della mia età, per accudire questo fiume, che chiamiamo pomposamente lavoro, che tortuosamente cerca di portare da qualche parte così tanti di noi.
Solo in serata ero rientrato in montagna.
A causa della discendenza di una parte del ceppo familiare da quel paesino, la mia famiglia ha colonizzato quel piccolo luogo esposto al sole delle dolomiti venete, occupando con piccoli avamposti tre o quattro dei suoi quartieri.
Quella sera, ho offerto, in un ristorantino tipico del luogo la cena a due mie nipoti, figlie di mia sorella. Età tra i venticinque e i trenta, seguono amorevolmente i miei genitori che svernano durante l’estate al fresco dei mille metri di altitudine. Brave ragazze, dimostrano, con le parole dei loro discorsi, serietà e concentrazione verso il loro incerto futuro, quasi fossero già fin troppo mature.
Parlando del più e del meno, ho avuto quasi la sensazione di essere io, più adolescente di loro, come se questa vita portasse con sé delle fasi in cui il senso di marcia del nostro spirito si dovesse adeguare, andando avanti e indietro, ad un costante tentativo di trovare la posizione buona per riuscire a parcheggiare nello spazio riservato alla serenità.
Finita la cena siamo andati a trovare i miei genitori all’altro lato del paese. Mio padre, ormai ha traguardato la soglia dei novanta, mia madre, cerca di raggiungerlo. Non è un segreto, gli anni che ci separano raccontano una storia la cui sintesi è semplice: la mia famiglia era già al completo. Due genitori, quattro fratelli, più o meno ravvicinati tra loro. Io, distanziato a molte lunghezze, sono comparso a perturbare gli equilibri. Ma, come mia mamma ha sempre ripetuto con soddisfazione un’infinità di volte, ero così buono che non si sono nemmeno accorti di avermi allevato.
E infatti, è andata così, perché, qualche volta, te lo senti dentro di essere una specie di intruso in questo mondo. Nessuno ti attendeva, c’era una festa e non eri propriamente invitato, ma ti sei fatto vedere alla porta lo stesso. Ti fanno entrare, sorridendoti, e il minimo che puoi fare è non disturbare, muovendoti con circospezione, sentendoti a tratti poco di più di uno spermatozoo che per caso è incocciato in un ovulo.
Mio papà non mi riconosce più. Non sa più chi sono. Entro in casa dei miei, al seguito delle mie nipoti, mi sorride, si ricorda che ci siamo già visti i giorni precedenti, il mio volto gli è familiare, ma non è più collegato alla relazione di parentela che ci lega. Ci si scambia i saluti con mia mamma, si fanno le prime parole, lui è silenzioso. Poi mi viene vicino, mi prende la mano e mi porta davanti alla parete dove ci sono alcune foto. Me ne indica una in cui lui e la mamma sono in posa sotto un ripido sentiero tra le rocce vicino ad un rifugio. È di pochissimi anni fa. Con loro due ci siamo anche io e mia figlia ora adolescente.
Non parla, ma mi sorride, puntando il dito contro la mia chioma di capelli decisamente più contenuta rispetto ad oggi.
Ricordo bene quella foto. Quel giorno ero orgoglioso di portare i miei genitori ad un rifugio in alta montagna. Erano emozionatissimi. Io ero orgoglioso e … terrorizzato. Temevo che, mettendo il piede in fallo, potessero farsi male e, alla loro età, subire conseguenze devastanti per gli anni a venire. Era estate piena, una giornata calda e soleggiata, ma arrivati al rifugio faceva freddissimo, un vento impetuoso ci aveva costretto a mangiare risotti e minestre calde, anche se avevamo gli zaini gremiti di altre vettovaglie. Quel giorno era stata una bellissima gita, tutto era filato liscio e arrivati a casa io ero sollevato. Oggi so anche che quella gita era necessaria per poter portare a casa il simulacro di ricordo che ora contemplavamo.
Nell’indicare la foto, mio papà era felice e emozionato. Non sapeva chi ero, ma sapeva dentro di sé che ero un pezzo importante della sua vita. Lo so che dietro il suo stato c’è la malattia. E so bene che si potrebbe pensare che sono senza cuore, ma la verità è che io quella sera sono stato contento per lui. Ha lavorato una vita, donando ogni energia nel suo corpo per i suoi figli e la sua famiglia. Ora fisicamente sembra un giovanotto a dispetto della sua età e il non ricordare chi sono io, chi sono i suoi figli, lo mette in uno stato di sereno, emozionato distacco e di perenne sorpresa.
Non so cosa si possa veramente sperare per la propria vecchiaia, ma se oblio deve essere, io credo che quello di conservare la gentilezza infinita di mio papà, senza preoccupazioni di sorta e con l’affetto dei propri cari sia un buon modo di avvicinarcisi.
Quella sera poi, dopo il pellegrinaggio alla foto e le parole di mio papà mentre mi abbracciava felice perché io e lui eravamo nella stessa immagine, ho visto mia mamma pendere dalle mie labbra chiedendomi di seguito dieci volte la stessa cosa con sfumature sempre diverse per sapere come stavo, come andava la mia vita, se riuscivo a reggere il carico, … E quando avevo salutato tutti per ritornare a casa, mi aveva rincorso per darmi una bottiglietta di acqua tonica. Perché per lei io devo sempre mangiare e bere. È ancora tutto come se dovesse accudirmi, come se io fossi ancora su quel vecchio seggiolone. Il seggiolone che viene costruito apposta perché i genitori non debbano chinarsi troppo, così sufficientemente alto perché tu, quando piombi giù a terra perché non sei legato bene (e io ricordo ancora nitidissimamente il suolo che si avvicina veloce mentre cado), se sopravvivi, si capisce bene che il tuo angelo custode è di buona qualità.
Quella sera sono tornato a casa percorrendo la strada fino al lato opposto del paese. C’era una atmosfera magica, nessun lampione acceso, silenzio e luce lunare. L’aria era carica di foschia, a stento faceva vedere i profili delle montagne in lontananza. La Luna piena, invece sembrava non risentire minimamente dell’umidità, la sua luce era limpida quanto i contorni ultradefiniti dei suoi mari. E illuminava tutto con forza e mistero.
Mentre camminavo tutto solo perso in sensazioni contrastanti tra l’incerto e l’insicuro, ripensavo all’arco di esistenze che avevo toccato nell’intera giornata. Mi sentivo al centro della vita, perché sono ormai dieci anni che dalle mie parti si continua a sperare che Dante Alighieri avesse sbagliato a definire con esattezza il mezzo del cammino. E, con la testa al cielo, nonostante avessi la retina impressionata dalla Luna in tutta la sua maestosa presenza, l’immagine che vedevo dentro il mio animo era quella dell’intera parabola della vita nella sua lineare complessità.
Ci agitiamo. Sogniamo. Viaggiamo. Percorriamo il mondo in lungo e in largo. Programmiamo le nostre esistenze. Improvvisiamo. Corriamo di qua, corriamo di là. A volte persino amiamo.
In realtà, la verità è che, qualsiasi cosa facciamo, stiamo solo camminando scostati di una manciata di centimetri, da un lato o dall’altro di quella parabola. Nulla di più.
E oggi, che ho ripensato a tutte quelle sensazioni, e ho provato a metterle in frasi, mi accorgo che mi dispiace un po’ perché quello che ho scritto oggi è solo un articoletto senza sostanza, e non uno dei miei soliti raccontini.
Se avessi messo tutto sotto forma di racconto, sicuramente avrei potuto almeno sperare in uno dei miei classici finali a sorpresa.
Un difetto dei giovani (maschi) di oggi
Oggi, dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a ricaricare le pile esauste, si sarebbe dovuto lavorare ad un raccontino, invece, complici le coincidenze, così non è stato. Ne è sortita una giornata da difetti.
Alla mattina presto è arrivata la signora gentile ed energica che mi aiuta a tenere pulita e in ordine la casa, le ho offerto il caffè, come è consuetudine del sabato prima dell’inizio dei lavori, e abbiamo scambiato due parole in ordine sparso. Sono così venuto a sapere che la Cgia di Mestre ha appena emesso un’altra delle sue analisi statistiche di grande interesse per il panorama economico italiano, immediatamente echeggiata dal telegiornale di prima serata di una tv locale a larghissima diffusione provinciale. Praticamente, se l’analisi e la sua interpretazione sono corrette, in Italia il lavoro c’è tutto, ma ai giovani italiani non piace più sporcarsi le mani.
A dire il vero questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.
Non sono riuscito a leggere, né a conoscere il contenuto del comunicato, e qualche perplessità su tutta questa abbondanza di posti di lavoro, non vi nascondo, mi rimane forte. Tuttavia mentre parlavo delle implicazioni di questa notizia shock, il mio pensiero è andato a finire su un evento che si è manifestato profondo negli ultimi dieci-quindici anni di silenziosa e devastante efficacia. Un tempo le compagnie telefoniche mobili erano quello che erano, con il loro target di mercato di riferimento fatto di business man tesi a dimostrare che il loro telefonino era più cazzuto con una tariffa più capace di fare miracoli di tutte le altre. E si sa bene, i business man non perdono né il pelo, né il vizio. Sono ancora tutti là a misurarsi su queste cose strategiche.
Le compagnie telefoniche però si sono un po’ dimenticate di questa importante corsa all’apparire del business, perché il centro delle loro attenzioni si è spostato da tempo su giovani e giovanissimi.
A dire il vero anche questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.
Ora sento già sfregolare le mani di quei lettori tra voi che stanno aspettando il momento di poter scrivere con soddisfazione come commento qualcosa del tipo “Questo articolo è una vera ca..ata!!!”. Perché mettere in relazione organica l’attento studio della Cgia di Mestre con il solerte impegno delle compagnie telefoniche che compiono quotidianamente l’altruistico straordinario miracolo di far colloquiare tra loro incessantemente questa montagna di giovincelli appare impresa fuor dall’umana possibilità.
Fortunatamente mi soccorre in extremis proprio la panacea di tutto, di sempre, da sempre: il sesso. E anche il collegamento impossibile diventa facile.
Perché sappiamo tutti bene che passiamo il nostro tempo, diciamo per non offendere nessuno una cifra variabile dal 50% al 95% del nostro tempo (che nel seguito per semplicità indicheremo con la cifra tonda del 90%), con il pensiero o il retropensiero finalizzato all’accoppiamento. E i giovani di questi ultimi quindici anni sono stati facilitati anche troppo su questo fronte, perché le loro famiglie benestanti (e non) li hanno messi nelle condizioni di avere in tasca sempre due cose: qualche soldo, giusto il minimo che serve per sballare un po’, e un cellulare, il buon veicolo per rimanere sempre in connessione con il centro dell’attenzione di qualcun altro.
Mi sembra di poter dire che ragazzi e ragazze vivano queste comuni fortune con approcci molto diversi in sintonia con la loro armonia di genere. Le ragazze vivono il cellulare come uno strumento per aumentare il proprio fascino, istillare curiosità e contatti, punzecchiare il materiale emotivo dei maschietti intorno a loro. I ragazzetti sono invece molto più rozzi e pesanti, rapaci e ottusi.
Faccio un salto indietro nella mia gioventù e mi immagino come avrei potuto reagire ad una vita così come viene offerta ai giovani maschi di oggi. Il 90% dei miei pensieri sarebbero soddisfatti (o comunque persi) attraverso forme diverse di comunicazione tutte in mio potere, avrei avuto in tasca sempre più soldi di quelli di cui avrei avuto stretta necessità.
E allora se avessi dovuto imboccare un lavoro faticoso (magari di muratore ed idraulico in cui si costruisce qualcosa di concreto) per portare a casa gli stessi soldi che già avevo in tasca, chi me l’avrebbe fatto fare? Ho visto molte facce di certi ragazzi di oggi dire la stessa cosa.
Se avessi voluto usare quel 10% di energie residue per fare qualcosa di importante avrei accettato un primo lavoro per meno di duemila-tremila euro al mese? I ragazzi di oggi tendono a non farlo. Molto meglio fare qualcosa di idealizzato, non pratico, oppure peggio, finalizzato solo a poter esercitare un giorno una professione che soddisfi quell’arcigna voglia, propria dell’animo maschile, di primeggiare schiacciando chi ci è intorno.
Purtroppo lo studio della Cgia di Mestre è aria fritta. Usa la cognizione comune che i giovani d’oggi apparentemente hanno tutto quello che serve per appagare il 90% dei loro bisogni apparenti, per giustificare il fatto che il lavoro abbonda sulla bocca degli stolti. Ci sono problemi infiniti intorno a tutto ciò, dall’economia reale, alle banche, dalla etica (sentite come suona male anche solo scritta), al lavoro pubblico, dalla mancanza di linee guida di lungo termine, alla pazienza e alla determinazione per perseguirle.
Tuttavia, cari giovani maschi di oggi, lo so i vostri genitori vi proteggeranno da questo evento, ma un giorno le vostre compagne vi spiegheranno l’obiettivo dell’accoppiamento, diventeranno facilmente insofferenti anche se avrete in tasca molti euro e l’ultimo cellulare i-grido, e se avrete troppo apprezzato soldi e divertimenti facili, farete davvero fatica a fare il piccolo passaggio che intercorre tra l’essere fruitore e l’essere creatore. Perché per fare questo insignificante passaggio è necessario prendere le proprie palle e metterle sull’incudine. Prima lo si fa, prima ritornano della loro forma naturale.
Un difetto dei blog
Oggi passeggiavo tranquillo per le lande che frequento usualmente in questo periodo. Tra le altre questioni un po’ più rilevanti, pensavo anche a quale sarebbe stato il mio prossimo post. Ho una serie di raccontini, idee e altre sciocchezuole che aspettano di essere sviluppate e poi consegnate alle rotative virtuali del tasto Pubblica di wp.
Ma la verità è che in questi giorni non ho veramente voglia di raccontare niente. Non mi sento all’altezza dell’uscire dal banale. Mi sento come se fossi avvolto da un’edera che oscura tutto, anche le antenne sensoriali.
In questo frangente la voglia di dire qualcosa diventa effimera e i pensieri sono rivolti soprattutto alla confusa introspezione.
Ora che di questo articolato mondo dei blog capisco qualcosa di più dello zero assoluto di qualche mese fa, devo dire che è una figata da molti punti di vista. E, se dovessi riassumere al massimo questo pensiero per non diventare noioso, direi che credo tutto abbia a che fare con il rispetto, la libertà e la comprensione reciproca. Per lo meno nella maggioranza dei casi.
Il rispetto di chi scrive qualcosa nei confronti dei propri sparuti potenziali lettori, e, dall’altra parte, proprio i lettori, che leggono quando vogliono, con l’attenzione che si sentono di fornire in quel momento della loro vita, con lo spirito ugualmente aperto alla critica, alla suggestione, alla costruttiva valutazione, alla curiosa attenzione. Questa libertà e l’arricchimento nella comprensione che ne consegue è la vera anima del mondo blog e dello spirito che lo anima.
Ma, in giorni come questi, la predisposizione è ancora differente. Sarà l’atmosfera vacanziera che il popolo immerso nelle sue holidays immancabilmente trasuda anche in questi luoghi, saranno le piccole insignificanti storie personali che accadono nella realtà, sarà il repentino passaggio dal caldo torrido al fresco inatteso di questi giorni, difficile valutare. Il risultato finale è che in questi giorni mi è chiarissimo uno dei limiti più grandi di questo spazio virtuale dei blog.
Si sente la mancanza nel non avere a disposizione uno strumento blog che, all’occorrenza, diventi introspettivo. Che ti consenta, ogni tanto, di scrivere qualcosa non rivolto all’ignoto o alle altre persone intorno a noi, ma che sia esclusivamente indirizzato a tutti quei pochi o tanti io (c’è chi ne ha di più, chi ne ha di meno, ma tutti siamo un po’ multipli dentro noi stessi) che abitano la nostra mente e il nostro cuore. Si sente la mancanza di poter scrivere qualche parola, anche raffazzonata (tanto la comprensione dovrebbe essere facile, almeno così si spera), e lasciarla là a disposizione perché l’io di turno che ne ha voglia ed è ispirato, la possa leggere e dia i suoi consigli e i suoi commenti.
Immaginatevi se a fronte di un disagio, o un dubbio esistenziale, o lo scoramento, o l’entusiasmo, o l’amore cieco, potessimo lasciare arrivare gli io nascosti dentro di noi ad uscire allo scoperto, leggere quando ne hanno voglia, comprendere e rielaborare, proporre, fare un passo avanti o uno indietro spontaneamente. Arriverebbe il Pj razionale, ancorato alla sua ottusa convinzione che due più due fa cinque, e rifletterebbe senza il bisogno di convincere nessuno su niente, l’io romantico che non si accanirebbe a punzecchiare questo nostro cuore più pervicacemente del mondo femminile intorno a noi, arriverebbe l’io sognatore e magari capirebbe che per questa volta è meglio tenere i piedi per terra, il Pj prudente o quello coraggioso che potrebbe finalmente convincersi che questo è il suo momento. E piano piano si farebbero sentire, così, senza una regola tutti gli altri. Il Pj bambino, quello serioso, quello burlone, quello stanco, il pilota esperto, il centauro mancato, lo sportivo alla Decoubertain, il Pj un po’ maligno, quello che vorrebbe bere un amaro prima di coricarsi e quello che fuma tranquillamente seduto in poltrona … E così via. Una cosa è certa. L’ipotetico blog di cui parliamo avrebbe davvero un sacco di followers.
Purtroppo un diario non sarebbe la stessa cosa. Equivale a mettere tutti i PJ che abbiamo dentro di noi nello stesso luogo e nello stesso tempo a discutere in una riunione troppo spesso ciarliera e improduttiva. Mentre lasciandoli ciascuno libero a sé stesso, senza vincoli di sorta e bisogno di interagire l’un l’altro, se ne vedrebbero, io credo, delle belle.
Chissà quanti commenti e osservazioni argute, tutte da rielaborare a posteriori per trasformare la nostra confusa introspezione in crescita ripida, rapida e produttiva.
Ecco cosa manca a questo mondo dei blog. Uno spazio completamente privato e incomprensibile al resto dell’Universo, dove far accedere in libertà qualche rara volta solo i nostri io interiori.
E se poi, vi chiederete, uno di loro perdesse la sua password di accesso?
(direi io) Sfiga! La password non si può recuperare e dovrebbe starsene buono senza rompere più le palle … per il resto della vita.
Il finale non è nella corsa
Non mi era mai piaciuto correre.
E non sapevo nemmeno bene come mai, nonostante questo, da alcuni anni a quella parte ogni volta che potevo mi cimentavo in una inusuale, faticosa corsa campestre tra canne riverse sui canali e uccelli del malaugurio. Non sceglievo momenti qualsiasi della giornata. Esisteva un unico frangente buono per mettere alla prova il mio fisico: l’una del pomeriggio, sotto il sole, preferenza per le giornate di intensa canicola.
Io credo che questo correre fosse il mio modo per scongiurare il crescere della mia pancia: conoscevo bene ogni suo difetto. E forse rappresentava anche la nuova strada per allenare me stesso a dare, ogni giorno, tutto quello che avevo dentro di me per limitare i miei rimpianti. Amavo il silenzio del vuoto di anime dei luoghi accaldati che percorrevo e amavo il vociare della natura che cicalava, stanca padrona di quegli argini soleggiati.
Quel giorno, ricordo ancora benissimo, calura e afa gareggiavano per primeggiare nei pensieri degli uomini e nei disperati spazi riempitivi dei telegiornali vacanzieri. Il termometro segnava trentacinque gradi all’ombra e ogni desiderio di movimento era frenato dalla appiccicosa sostanza che copriva i nostri corpi.
Con il caldo, le persone perdono facilmente sensibilità e gentilezza, e alla notizia della mia imminente corsa, vi fu una vera inaspettata insurrezione popolare nei dintorni della mia abitazione. Scopo dell’insurrezione: tenermi ancorato alle mura di casa.
Fu allora che estrassi tutto il mio orgoglio e la mia spavalda simpatia, e liquidai sul nascere ogni principio di insurrezione con un perentorio sorriso:
– Non temete, state tranquilli, se starò per morire … vi avviso! –
Ma mia figlia adolescente rispose con una prontezza che mi sorprese:
– Ma Papi, … dicono tutti così! –
Fu così che quel giorno affrontai la mia corsa pensando al racconto che avrei scritto di lì a poco. E non sentii il caldo intenso perché era come se, fendendo l’immobile aria torrida, fossi protetto dal mio nuovo mantello di giovane saggezza.