Eutanasia Giusta

Peron_Del_Moz

«No, papà. Tu ti devi curare. Mettiamo noi i soldi!»

La voce di mio figlio riecheggiava ancora nitida nella mia testa. Ero comodamente seduto sulla panchina in cima al piccolo precipizio non lontano da casa. Le montagne apparivano fredde e maestose, mentre la luce rosata del tramonto invernale iniziava a colorarle. Intuivo chiaramente che in quel momento era direttamente Dio che si stava divertendo a dipingere le rocciose creste intorno a me. Lui per me. Un Suo istante dedicato a nutrire la mia serena contemplazione.

I pensieri insistevano sulle decisioni che dovevo prendere. No. Non avrei mai potuto permetterlo. Mio figlio e la sua famiglia non potevano proprio affrontare l’impegno economico dell’operazione e di tutte le cure che ne sarebbero seguite.
“Era andata così!”, Continuavo a ripetere a me stesso.
Avevo lavorato sodo. Avevo contribuito al welfare dello stato per una vita. Ma non mi sentivo di recriminare nulla.

Quando era uscita la legge, meno di un anno prima, avevo condiviso lo spirito e la scelta di chi aveva legiferato. Con la crescita dell’aspettativa di vita, l’economia del sistema previdenziale non si reggeva più. Non si poteva più far pagare ai giovani il prezzo, sempre più caro, del tenere in sesto l’incerta salute di noi vecchi. E così avevo accolto con favore la nuova legge che obbligava a saldare di tasca propria tutte le spese sanitarie delle persone sopra gli ottant’anni.

Il provvedimento aveva avuto un’effetto istantaneo dirompente. In pochi mesi due milioni di giovani avevano trovato finalmente un posto di lavoro stabile. E ricominciavano a sperare nel loro futuro. Un risultato impagabile.
Io avevo scoperto solo da poco la mia malattia. L’unica speranza era l’operazione, una normale operazione di routine, mi avevano detto. Vita certamente allungata di molto, al prezzo di limitati danni permanenti.
Mi ero fatto fare subito un preventivo, ma i miei risparmi non erano adeguati a sopportare quella spesa, né io, a dire il vero, sentivo così tanto il desiderio di vivere oltre il deperire delle mie capacità motorie e mentali.
E mio figlio? Avrebbe dovuto impegnare i risparmi di chissà quanti anni per dare continuità alla linea della vita tracciata sul palmo della mia mano.
Non l’avrei mai permesso.

Ripercorsi per ore, lentamente, tutti i ricordi della mia esistenza. I momenti felici, le difficoltà, il duro lavoro, le soddisfazioni. Le sofferenze e le ingiustizie. Le piccole cose importanti che solo ora apprezzavo appieno nella loro semplicità e profondità.

Mi ritornò alla mente un vecchio raccontino che avevo scritto intorno ai cinquant’anni. Raccontava una strana storia così simile a quella che stavo vivendo. In fondo da allora erano passati oltre trent’anni. Una mezza vita carica di sorprese ed accadimenti. Era stato bello farne parte.
Era bello anche essere là, ora, solo su quella panchina, a scorrere un evento dopo l’altro, rivivendolo con emozione i passaggi della mia storia, insignificante come tante, ma molto, molto personale.

Già da un’ora non sentivo più le mie gambe. Faceva freddo sotto il cielo limpido. La luna piena, ormai alta sull’orizzonte, illuminava le creste delle montagne davanti a me. La neve rifletteva la sua luce, moltiplicandone l’effetto magico. Non ci sarebbe potuto essere un’altro momento della stessa intensità. Era una notte che sembrava un nuovo giorno.
E, mentre osservavo quello spettacolo sublime, mi addormentai.