Il principio di indeterminazione applicato alle relazioni umane

L'autore_si_dispera

Il principio di Heisenberg rivisto

Nella fisica quantistica esiste un famoso principio, il principio di indeterminazione di Heisenberg, che sancisce come non sia possibile sapere nulla di esatto. Appena si cercano di approfondire i dettagli, appena si cerca di misurare con la massima precisione possibile un sistema o una qualsiasi sua componente, inevitabilmente, con la nostra presenza, perturbiamo il sistema stesso e quello che da lui riusciamo a recepire non è più quello che lui era in origine.

Quando si affrontano questi temi della fisica diventa difficile non sentirsi trasportare alla periferia della filosofia. Gli stessi testi con i quali è stata sviluppata la teoria, riportano frasi che fanno pensare:

Nell’ambito della realtà le cui connessioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono ad una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere è piuttosto rimesso al gioco del caso

Recentemente, accadimenti personali, sicuramente non dissimili da milioni di eventi analoghi che tutte le persone sperimentano ogni giorno, mi hanno fatto riflettere molto su questo principio e sul fatto che esso si può applicare, con le dovute riproporzioni, ad una infinità di altri ambiti.

Nelle relazioni umane, poi, il principio di indeterminazione e le sue conseguenze spesso tutt’altro che piacevoli, si applicano con una precisione che io trovo sconcertante. Anzi ho il sospetto che alla base di una parte dell’incomunicabilità che a volte assale le persone ci stia proprio questo principio.

Come nella fisica se si cerca di misurare qualcosa lo si modifica al punto di non poter sapere com’era in realtà, così nell’interazione tra gli uomini la comunicazione reciproca modifica continuamente i comportamenti.

Quando poi la relazione coinvolge la sfera sentimentale il fenomeno esplode.

Perché è naturale voler misurare l’altro, sapere quanto è in sintonia con il nostro sentire, e vogliamo che la nostra percezione sia perfettamente in linea con quello che l’altra persona realmente prova e non con quello che noi vorremmo che lei provasse per noi.

E lì cominciano i problemi.

Non possiamo accettare che la persona che ci è vicina non sia naturalmente sé stessa, perché vogliamo conoscere esattamente come vive la nostra interazione. Ma non possiamo avere la sua spontaneità se trasferiamo il nostro sentire, le nostre emozioni e i nostri desideri senza nessun filtro, perché automaticamente modificheremmo i suoi comportamenti. Il nostro affetto potrebbe “costringere” la persona a seguirci anche al di là di quello che autenticamente prova, la comunicazione esplicita dei nostri desideri potrebbe “facilitare”, rendere banale e privo di sostanza il compito delle persone che vogliamo si avvicinino ai nostri bisogni. Vogliamo che lo facciano nella piena libertà, e senza vanificare la purezza della nostra relazione.

E’ un meccanismo intrinsecamente inevitabile e tristemente spietato. Interagire, vuol dire un po’ misurare l’affinità di chi abbiamo vicino. E per valutarla avremo bisogno di “perturbare” la sua spontaneità. E la misura che ne deriveremo difficilmente ci potrà condurre alla completa comprensione di quanto vicini realmente siamo.

Io credo che questo principio stia alla base dell’incomunicabilità tra le persone, molto di più della loro presunta incompatibilità. Quest’ultima spesso è più il risultato del bisogno del non dire e del non condividere che sta alla base dei meccanismi che ci servono per capire meglio come siamo fatti. Proprio come i fisici, che per studiare le traiettorie delle particelle fanno finta di non essere interessati alle particelle stesse, ma vanno a vedere gli effetti che esse generano intorno a loro.

E, non credo sia una coincidenza, anche nelle relazioni umane, come nella fisica, “il gioco del caso” finisce spesso per avere un peso determinante. Perché diventa l’elemento chiave per risolvere l’indeterminazione di fondo di ogni nostra dinamica.