Quando inventammo la tenerezza

UomoCaverne

La caverna della nostra comunità era ampia e spaziosa, piena di cunicoli ed anfratti, dove l’odore della carne consumata nelle sere di estate, prima di coricarci, permaneva a lungo intenso e pungente e ti sembrava di continuare a mangiare anche quando sul fuoco non era rimasto più niente se non ossa spolpate.
L’avevamo conquistata molte lune prima e da allora nessuno straniero era più riuscito nemmeno ad avvicinarcisi. L’imboccatura della galleria era difficile da raggiungere, in cima alla collina e solo una comunità molto più numerosa della nostra avrebbe potuto sperare di farla sua.

Da allora vivevamo un periodo sereno, fatto di caccia abbondante lontano da predatori pericolosi, coltivazioni improvvisate, ma rigogliose, e armonia tra di noi. Fu in quel periodo che cominciammo a frequentarci di più dei soliti accoppiamenti occasionali in uso tra noi della comunità.  Dapprincipio non fu facile convincerla. Le stranezze, qui, non piacciono a nessuno, hanno il profumo del pericolo. Ma quando le fissavo gli occhi, anche all’inizio quando si scostava scontrosa, vedevo che dentro di lei si muoveva una luce che sembrava dire: “No! Assolutamente no! … ma mi incuriosisce.”

Trovavo la sua curiosità stimolante quanto le curve che portava con disinvoltura davanti e dietro. Mi piaceva da morire passarle vicino sfiorando con il mio braccio il suo seno pronunciato. Nessun altro maschio lo considerava, tutti così atavicamente concentrati sul sedere delle femmine. Ci volle tempo, ma poi si capì che il mio strano comportamento, non la lasciava indifferente e quel che accadde dopo fu molto chiaro.
Un giorno avevo provato ad avvicinarmi sornione e strusciante, ma lei si ritrasse scontrosa e stizzita, lasciandomi dentro l’animo una sensazione che io associai al dolore fisico. Per molti giorni non osai più nemmeno farmi vicino, poi, inaspettatamente, ero appena rientrato da una lunga battuta di caccia, gli altri uomini si complimentavano dandomi pacche sulle natiche per il ricco bottino conquistato e, di nascosto, lei mi si fece in fianco e si strofinò plastica su di me.

Non so bene nemmeno come accadde, quel giorno ero troppo confuso per fissare i ricordi, tuttavia quella sera ci ritrovammo in uno dei cunicoli della caverna, la luce fioca la illuminava dolcemente, e passammo del tempo distesi, uno sopra l’altra, uno dentro l’altra. Io ero confuso, lei era preoccupata. Credo le sembrasse innaturale almeno quanto a me (e forse molto di più) non essere penetrata da dietro, come sempre, fino ad allora, si era fatto nella nostra comunità.

Piano, piano, da allora, i nostri incontri si fecero più lunghi e inconsueti. Tantissime volte ci ritrovavamo distesi fianco a fianco, la fissavo ammaliato nei suoi occhi luminosi, con la mano sinistra le sorreggevo la testa palpando i suoi capelli lunghi e sottili che raccoglievano terra e polvere in una consistenza morbida e piena di riflessi. L’altra mano era rapita dalle sue dita che giocherellavano intrecciandosi con i miei polpastrelli. Il suo fianco era appoggiato alla mia gamba, mentre i nostri bacini rimanevano avvinghiati, compenetrati, ondeggiando soavemente quasi immobili. Passavamo in quella posizione lungo tempo e si capiva come lei amasse molto rimanere lì, distesa, oggetto di attenzioni, rubando ogni possibile istante prima di ritornare alle faccende di gestione dei raccolti a cui erano preposte le femmine della comunità.

Poi venne il giorno.
La stavo tenendo stretta a me, con il mio braccio destro sotto il suo sinistro, e con l’altra mano le facevo oscillare le anche giocosamente in un preludio di carezze. Avevo occhi solo per lei, per il suo sguardo e il suo sorriso, per la sua carne soda e muscolosa che si intravedeva sotto la pelle che la copriva. Non avrei potuto accorgermi in nessun modo della clava che scendeva pesante, senza esitazioni, con un colpo secco sulla mia testa.

Stramazzai a terra in un tonfo e per poco l’avrei trascinata al suolo con me, se il capo della comunità non l’avesse afferrata per i capelli dopo aver ripreso il controllo della clava. La trascinò per la capigliatura qualche metro più in là dentro la caverna, mentre lei non opponeva nessuna resistenza. La girò rivolgendola verso di me, le si mise dietro, le sollevò la pelle di leopardo che la copriva giù fin oltre i glutei e la infilzò.

La testa mi sembrava rotta in mille pezzi, sanguinavo a fiotti. Il dolore lancinante si mischiò ad una rabbia profonda. Gli anziani della comunità sostenevano che quando stai per morire rivedi la tua vita. Velocissima. Speravo che avrei rivisto i miei momenti con lei …
Non è così. Io dapprincipio vidi solo il rosso del mio sangue, poi la testa, sì, si riempì di immagini, ma non mi riguardavano. Forse erano lampi che avevano a che fare con il futuro.

Vidi qualcuno che sosteneva che alle donne erano cresciuti i seni solo dopo che erano cambiate le posizioni dell’accoppiamento. Ma io sapevo bene che non era così.
Vidi missionari che vantavano diritti su posizioni. Ma chi cavolo erano questi missionari?
Vidi un fiume di persone credere che noi uomini delle caverne usavamo la clava per controllare la femmina riottosa. Ma quando mai? La clava serviva ad altro.
E vidi mille altre immagini. Tutte cazzate!

Chiusi gli occhi. Li tenni al riparo qualche frazione di secondo dal sangue che colava copioso sul volto e poi giù subito fino a terra. Avevo freddo. Feci l’ultimo sforzo della mia vita. Aprii le palpebre. Riuscivo a mettere a fuoco solo il centro del mio campo visivo. C’era lei. Oscillava al ritmo imposto dall’ominide dietro di lei, il profilo dei suoi seni usciva rigonfio tendendo la pelle di leopardo che mal li conteneva. Mi fissava con dolcezza. I suoi denti storti e incrociati mi lanciavano un sorriso enigmatico. Era bellissima!