Il difetto della speranza

Speranza

Oggi ero incerto su cosa scrivere. Un raccontino è nell’aria da un po’ di tempo e invoca i suoi spazi per essere scritto. E’ un raccontino estivo, che dovrà prendere luce prima che oltrepassiamo la boa autunnale, altrimenti non ci ricorderemo più di come si vive in agosto al limitare della spiaggia e finirà per essere ancor più fuor di luogo di quanto sarà già naturalmente.

Tuttavia qualche giorno fa, chiacchierando serenamente, qualcuno mi ha detto con delicatezza che i miei raccontini, sì non sono male, ma sono molto meno efficaci di quando scrivo perché ho qualcosa di interessante da dire.
Ammesso che io abbia qualcosa di interessante da dire…

Tutto questo non è realmente importante, se non fosse che, nel susseguirsi dei voli pindarici della mia mente, sono passato di pensiero in pensiero, dallo scrivere un futile raccontino, alle incertezze che ci prendono a volte nella vita, e, alla fine, ad una riflessione sulla speranza. Perché, si sa, la speranza è uno stato d’animo bello! Ci predispone al buonumore, ci apre la strada a nuove emozioni, ci fa sentire carichi di potenzialità e soprattutto ci fa pregustare anche quello che non sarà. Una specie di piccolo miracolo!
Addirittura stiamo parlando di quella straordinaria emozione che è l’ultima a morire e finché abbiamo un minimo alito di vita, pur moribondi, può ancora venirci a trovare, dolce e piena di positivi presagi.

Però, se ci pensate bene, non è così.

Sia che stiamo anelando l’interesse della cosciona della porta accanto perché si accorga ammaliata di noi, oppure che il nostro capo finalmente ci riconosca tutti i meriti che abbiamo collezionato nella nostra splendente carriera professionale, finanche se pensiamo a quella magica continuazione della vita oltre la morte, che è sicuramente la Speranza con la S con il font più grande  tra tutte quelle a cui possiamo concedere il nostro coinvolgimento, il meccanismo è sempre quello.
Desideriamo, iniziamo a sperare in qualcosa e piombiamo in una dinamica da cui difficilmente usciamo. Perché appena si incomincia a dar spazio alla speranza, naturalmente, è come se svoltassimo un angolo che ci porta dritti dietro alla medaglia e iniziamo a vagare nel regno dell’incertezza e dell’incompletezza. Temiamo lo sbaglio che allontani l’obiettivo da raggiungere, cediamo all’ansia dell’inadeguatezza, pendiamo dalle decisioni di qualcun altro.

Perché quando speriamo in qualcosa, fatalmente, c’è sempre qualcun altro che deve fare qualcosa perché il nostro sogno si avveri.

E’ così che, se ambiamo un riconoscimento, finiamo a volte per perseguire l’immobilismo nel lavoro per non turbare l’efficacia dei nostri benemeriti capisaldi conquistati nel passato. Se desideriamo sondare la speranza di vita oltre la morte, finiamo sovente a raffazzonare la nostra esistenza caricandola di falsi buonismi nell’illusione di poter convincere il nostro Dio di essere più degni del suo dono di quanto lo siamo realmente.

La speranza invece è solo un trucco. Per tenerci in gioco quando non lo siamo già più, per confondere le acque quando tutto è chiaro, per trasformare il nostro potenziale successo in cocente delusione, trasferendo ai nostri occhi il controllo del nostro personale agire verso la benevolenza degli altri. Suona veramente male da scrivere, ma la parola buona per spiegare a cosa serve la speranza è … deresponsabilizzazione. Suona veramente male. E non è un caso.

Desiderare non sperare. Essere noi stessi e non abdicare la nostra reale essenza a favore di reiterati e goffi tentativi di percorrere strade che non ci appartengono, per ottenere risultati fuori dalla nostra portata, perché declinati nelle forme auliche esagerate che solo i nostri sogni sanno immaginare.

Abbandonare le speranze per essere sempre noi stessi. In ogni frangente. Sarebbe una specie di piccolo miracolo! Questo sì.

Forse allora potremo varcare l’uscio di casa e saremo finalmente notati dalla cosciona della porta accanto che rimarrà interdetta non capendo se il nostro sorriso sereno fosse stato rivolto alla sua persona, invece che alle sue gambe lungimiranti. Forse allora condurremo la nostra onesta giornata lavorativa noncuranti dell’habitat intorno a noi, interessati solo ad essere coerenti con la nostra professionalità. Forse allora vivremo la nostra esistenza sempre allineata a quello che siamo dentro. Non sarà la versione più buona e vincente come prescritto dal Manuale delle Giovani Marmotte alla voce “guadagnarsi l’Aldilà”, ma forse Lassù non sono nemmeno così inclini alle finzioni.

A volte, specialmente sorseggiando un bicchiere di vino, mi appare chiarissimo che i nostri geni sono proprio tutti disposti con maestria straordinaria per farci accogliere l’arrivo della speranza con benevolenza e illusorio ottimismo, ma ho il sospetto che il loro obiettivo sia completamente differente.