Guardando un tramonto

Qualche giorno fa ero fermo in autogrill. Motore spento. Dovevo ripartire, ma iniziavo a sentire  il bisogno di riposare. La stanchezza era così forte che all’inizio non mi ero nemmeno accorto del tramonto che avevo davanti agli occhi. Dagli autogrill i tramonti hanno un fascino particolare. Non sono belli. Nemmeno un po’. Ma sono carichi di contrasti.
Da dove ero posizionato, seduto al posto di guida, vedevo distintamente tutti i tir che sfrecciavano in un senso e nell’altro. La luce del giorno iniziava ad essere assai debole, e ogni costruzione dell’uomo, stancamente assiepata vicino all’autostrada, assumeva l’essenza della sua malinconica tristezza. Dietro a tutto, oltre l’orizzonte, i colori erano spettacolari. Dal rosso intenso, quasi sanguigno, si saliva lentamente fino all’azzurro ceruleo, prima di tuffarsi sopra la mia testa nel blu notte.
Pensavo a tutto quello che ha costruito l’uomo, alla malinconia che alla lunga porta con sé. E pensavo che tutto sta fluendo su binari precostruiti … della ferrovia, dell’autostrada, del mondo web, poco importa. I solchi sono tracciati. Eppure anche proprio lì dov’ero, dove la regola è semplice, “stai parcheggiato e vai a prendere un caffé per ripartire”, c’era tutto l’Universo, sconfinato.
Riflettevo ad una cosa che avevo scritto recentemente da queste parti sul modo di dire latino “tabula rasa” e sul fatto che oggigiorno non ci sono più luoghi e modi per ripartire da zero senza condizionamenti.  Stiamo perdendo progressivamente ogni controllo, dentro una dittatura che sta imparando con sempre maggior maestria a mascherare la coercizione sotto la forma di una apparente  libertà. E mi chiedevo, come faremo quando ci accorgeremo che quello che facciamo è tutto guidato e controllato, cosa faremo quando ci saranno persone ricche che prolungheranno la loro vita sostituendo i loro organi andati a male attraverso dei perfetti cloni di loro stessi, cosa ci lasceremo fare quando gli scienziati saranno sostituiti nel loro lavoro da programmi informatici e supercalcolatori che instancabili produrranno scoperte con centinaia di anni di anticipo rispetto all’opera dell’uomo?
Il cielo azzurro del tramonto con le sue stelline luccicanti trasmigra nel blu notte con una eleganza mozzafiato.

Gli ingranaggi

È sorprendente come nella vita e nella meccanica tutto funzioni nella stessa maniera. Due ingranaggi studiati per muoversi assieme, ad esempio le ghiere di un vecchio orologio da polso, se sono in fase tra loro, scandiscono il tempo sotto la stella della perfezione. Ma se si muovono solo minimamente fuori sequenza, i loro denti si scontrano, come mostruose mandibole affamate,  e sgretolano, giro dopo giro, ogni brandello della loro carne d’acciaio.
Tra le persone le dinamiche non sono poi così diverse. Si può essere anche fatti gli uni per gli altri, ma se si perde la sintonia, è davvero facile, anche senza volerlo, mutilare irrimediabilmente chi ci sta vicino.

Milanesi

E’ qualche anno che, mio malgrado, bazzico per Milano. In realtà, Milano non la conosco per niente e la sostanza è che esisto in Milano perlopiù perché qui io lavoro, e vivere e lavorare, ancorché spesso facciamo finta che non sia così, sono concetti antitetici.
Vi anticipo. Qualcuno, leggendo il seguito di questo articolo, potrebbe pensare che io intenda con queste poche righe dare dei giudizi. Non è affatto così. Non sono titolato a valutare alcunché, ne tanto meno a giudicare nessuno.
Il fatto è che ogni tanto, mentre vado o mentre torno, vengo sorpreso da piccole cose che mi fanno simpatia e mi fanno sentire che, anche lavorassi qui per vent’anni, non potrei mai assumere il layout esistenziale di un Milanese. Sono anni che passo per la tangenziale e sono sempre stato affascinato dalla sede di una vecchia azienda (che credo sia fior fior di azienda, n.d.r.) che si chiama Calamit. E il logo sull’edificio stile anni settanta recita un accattivante “Magneti Calamit”, che, se ci pensate bene, è la somma sintesi di tutto un complesso lavoro di costruzione di un’immagine aziendale. Sono invece solo poche settimane, da quando mi sono accorto che lì, lungo la tangenziale, a poche centinaia di metri dalla Calamit, esiste un’altro esempio di genialità concreta della mentalità milanese. Ci sono i “Pellet Bruciaben”.
E’ più forte di me, quando passo lì vicino, non riesco a bloccare un sorriso che mi sale dal profondo. Non dovete credere che io non ci provi a soffocarlo quel sorriso, ci provo sempre, e lui, sornione, se ne salta fuori sempre e mi disarma.
I Milanesi sono così. Geni del marketing, adoratori sfrenati della semplicità votata all’efficienza, costruttori di mode simpatiche per variare la quotidianità.
E la loro attitudine si spiega facilmente. La vita qui è frenetica, scandita da tempi serrati e da lunghe pause in attesa che si liberi qualcosa o qualcuno, non c’è spazio per la rielaborazione creativa, per gestire la complessità, per inventarsi qualcosa anche sulle questioni più usuali. No, si và di semplicità. Io lo considero un insegnamento di vita.
C’è un nuovo paese da creare alla periferia di Milano con cui colonizzare qualche spazio verde? Ha senso perdere del tempo per inventarsi un nome significativo? No. Diamogli un qualsiasi prefisso non ancora utilizzato (va bene anche “Chissene”, perché “Carug”, “Agr” e “Lin” sono già stati utilizzati), l’importante è che abbia alla fine “ate”  così tutti sapranno, anche se non l’hanno mai sentito prima, che si tratta di un paese alla periferia di Milano. Tanto, che importanza può avere? Tutti i suoi abitanti, nella realtà, vivranno in coda in tangenziale comunque.
I Milanesi sono un popolo a sé. Multietnico in origine. Molti italiani sicuramente, diversi “terroni” (termine che qui viene nostalgicamente utilizzato solo dalle persone originarie del sud per evocare le loro origini ormai nebulose nei ricordi, ma radicate nell’animo). Però la sostanza è che si è creato un macroclima locale nel raggio di cinquanta chilometri dal centro di Milano in cui l’etnia si è omogeneizzata nel frullatore del traffico.
Qui vige il concetto comprensibile. Badate bene che non sempre nel lavoro le cose sono semplici. Anzi, più aumenta la competitività, più bisogna gestire la complessità. Però qui è impossibile portare avanti un ragionamento che richieda più di tre passaggi. La mente Milanese si ferma, smette di funzionare, si entra in un empasse, da cui si può uscire solo aumentando il numero di Milanesi coinvolti, frazionando il problema, o semplificando la soluzione con esempi noti, meglio se coinvolgono in qualche passaggio qualche fenomeno tipico della tangenziale intasata.
Immagino che tutte queste cose che ho detto siano abbastanza oscure. La soluzione “milanese” per chiarificare la questione sarebbe stata molto semplice.
Se fossi stato un Milanese al posto di queste cinquecento inutili parole avrei scritto: “Rientrato al lavoro. Tangenziale sgombra. Musica a palla, quella giusta.”.

 

Insonnia

Vorrei dormire
ma non posso,
i pensieri contemplano
tutte le direzioni
come particelle in fuga
in una camera a nebbia.
Il tempo si è fermato
giacchè passato e futuro
si sono appena scontrati.
E io li ho visti.
E ho visto il vuoto presente.
L’equilibrio si spezza
l’attesa svanisce
la notte ne cela
il confuso presagio.

 

Déjà vu

Sto scrivendo questo articolo, il mio nuovo wordpress sostiene che questo è l’articolo numero cento e mi sento un po’ come nel film Matrix. Quando si percepisce un déjà vu, vuol dire che qualcuno, magari un cattivo, ha deciso di riscrivere la realtà virtuale in cui noi ignari viviamo.
Non mi piace l’idea che ci sia un doppio articolo numero cento e quindi riempio queste poche righe quasi più con l’idea di tracciare una linea di separazione tra due argomenti su un foglio di appunti, piuttosto che con l’intento di sfoggiare pensieri significativi.

Il blog ha una nuova casa, l’aspetto è molto simile a dove viveva qualche giorno fa, ora però ci sono limiti significativi nell’interazione con il mondo wordpress.com, nonostante abbia con successo attentato al libero arbitrio dei followers migrandoli su questa nuova spiaggia. Sono stato a lungo incerto sulla migrazione dei follower. Non volevo farlo, anche se poi qualche commento al centesimo articolo (quello vero, non questo) mi ha spinto ad agire diversamente.
Oggi, ero in viaggio verso la casa in montagna dove trascorrerò qualche giorno, mentre guidavo interagivo con un blog straordinario e riflettevo su alcune questioni squisitamente tecniche e su alcuni principi che muovono questo mondo. Pensavo alla libertà. Non saprei nemmeno declinarne bene i motivi, ma la mia sensazione è che questa nuova casa, assolutamente identica a quella di prima sotto moltissimi aspetti, in realtà, mi fa sentire più libero. E questa cosa mi piace molto.
Sarà che ultimamente sono ostile a tutti i meccanismi che tendono ad irregimentare le persone, sarà che il mio know-how informatico deve trovare qualche insulso sfogo, sarà che non mi dispiace l’idea di non essere agganciato troppo strettamente al mondo wordpress.com dove troppo spesso vedo (non me ne vogliano i lettori) usare i like come merce di scambio quasi alla stessa stregua dei grandi facebooks … non so bene, forse mi sto facendo prendere da una certa misantropia virtuale, non so bene nemmeno se questa sensazione di libertà durerà, però sono contento di avere una nuova dimora.
Voi direte: “Sì, figo, bella tutta sta libertà, ma mica ci hai chiesto se volevamo essere migrati come follower !?!”.
E io vi direi: “Cazzo! Avete dannatamente ragione!” E se solo sapessi qual’è il simbolo dell’emoticon della vergogna magari vi piazzerei qui un :$ o qualcosa di simile.

Sincronicità, Vol.2

Risale a molto tempo fa il giorno in cui ho scritto un articolo sull’argomento da cui questo blog trae il suo nome. Ottanta articoli fa o giù di lì.
Quello che pensavamo e pensiamo non è molto importante. Il sottotitolo di questo sito sostiene che le coincidenze nella vita non esistono, esiste solo una sequenza di eventi sincronica in cui le nostre scelte e le nostre “energie” hanno un peso che non riusciremo mai a valutare esattamente.
Ma non saremmo sorpresi se non fosse affatto così, chi può dirlo. Semplicemente, tutto potrebbe accadere in maniera caotica e impredicibile, cosicché a tratti capiti che la fatalità si sposi con il nostro pensiero fino a creare il simulacro di una consequenzialità, di fatto assolutamente inesistente.
Non sappiamo se e quanto le nostre “energie” personali influenzino quello che ci accade o quanto le vite di alcuni di noi siano reciprocamente legate a quelle di altri, pur non essendo in connessione fisica apparente.
Quel che conta nella vita è il percorso che essa segue, conta molto più delle ragioni che portano alle sue svolte e ai segnali che la rendono originale. E più ancora del percorso del singolo di noi, è importante il percorso dell’Umanità nel suo complesso.
Non sono mai stato bravo né in storia, né in geografia. La filosofia mi affascina, ma mi sono sempre voluto lasciare lo spazio per idee tutte mie. Anche la religione, nella mia percezione e nella mia anima, è una sorta di punto di arrivo, necessariamente ancora molto lontano da come l’uomo l’ha interpretata fino ad oggi.
Quel che è certo è che intorno a noi ci sono segnali imponenti che mi portano a pensare che il percorso dell’Umanità è fuori controllo, o, forse solo, è sotto il controllo di entità completamente fuori controllo. Credo che questi segnali siano sotto gli occhi di tutti, ma sia estremamente più facile socchiudere le palpebre e fare finta che questa nostra confusione sia solo l’effetto di un abbaglio.
Per i titoli ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta: guerre ignorate, terrorismo efferato, ricerca genetica che apre le porte a scenari futuribili non lontani di uomini che clonano pezzi di se stessi per perseguire una falsa vita eterna, computer sempre più intelligenti che finiranno per fare le scoperte al posto dei nostri scienziati (facendoci progredire verso dove?), uomini e donne intenti a far scorrere un dito indice su una superficie levigata, schiavi di uno schermo nei vagoni dei metrò, confezioni di beni in vendita così smisurate da poter ospitare al loro interno centinaia di volte il loro contenuto (altrimenti come riempiremmo le nostre discariche?), banche che falliscono e giovani che non lavorano, vecchi che invecchiano in pensione da decenni, un unico luogo virtuale dove cercare ciò che esiste (e se non sei in una ricerca Google ormai non esisti), un mondo che non conosce più pausa, né riflessione e nemmeno valori realmente diversi dall’affiancare un nuovo istante a quello precedente in una corsa folle verso il nulla. E tutto ciò portandoci appresso un bagaglio genetico non certo molto più veloce di quello dei nostri antenati dell’Antica Roma o della Mesopotamia … Si corre, ci fanno correre, vogliamo correre per non fermarci a capire. Basterebbero pochi di noi per produrre una lista dei mali e dei pericoli senza precedenti che minacciano il futuro. Una lista così lunga e terrificante da annullare gli impagabili benefici che il progresso dell’Uomo ha portato agli abitanti di questo pianeta.
In tutte queste mie riflessioni, per lo più noiose e senza senso, la sincronicità rimane un segnale, uno dei segnali di speranza perché l’uomo ha dentro di sé quel che serve per vincere le sfide del futuro. Deve solo prendere coscienza che non tutto viaggia per effetto del caos, non tutto è guidato dalle multinazionali, dai nostri ciechi bisogni, dalla nostra umana attenzione all’io che c’è in noi e non tutto si fermerà con la nostra vita e con i nostri traguardi necessariamente finiti. C’è qualcosa di più per l’Umanità da raggiungere e vincere (e non parlo solo di qualcosa di ultraterreno). Qualcosa più in là della nostra esistenza. E per arrivarci dobbiamo credere in noi, nella lenta comprensione dei meccanismi che ci stanno portando fuori asse con la nostra vita e dobbiamo credere nella nostra capacità di poter essere uniti oltre quelli che crediamo essere i nostri limiti e le nostre inutili divisioni.

Ho scritto questo articolo, il novantanovesimo di questo blog, alcune settimane fa. Da allora, mi è capitato di rileggerlo un paio di volte e ogni volta ho pensato: “prima di pubblicarlo ci devo aggiungere una frase finale, perché altrimenti non si capisce cosa voglio dire con questo articolo”. Oggi l’ho riletto per inserire l’ultima frase, una frase chiarificatrice. Ma oggi sono convinto di una cosa differente.
E’ importante la chiarezza? Qualcuno di noi ha veramente qualche cosa di significativo da trasmettere? Qualcosa che per un’altra persona possa superare in efficacia un suo nuovo pensiero, un desiderio conquistato, una estatica contemplazione di una luna piena dalle pendici di un molo della spiaggia o la soddisfazione per aver raggiunto l’intesa con qualcun altro senza il bisogno di comunicare niente?
Ecco, la mia ultima frase di oggi è un nonsense inventato: “… Perfundite vobis! …”.

Cupidigia

Guardavo dall’alto, ammirato, la perfezione della mia opera.
Laura e Francesco camminavano lentamente, una in fianco all’altro, lasciando le loro anche libere di urtarsi dolcemente facendoli rimbalzare in un giocoso ondeggiare. Avevano percorso in lungo una delle piazze di Monza, senza abbracciarsi e senza tenersi mai per mano, ma i loro corpi procedevano così vicini che sembravano quasi blandamente magnetizzati. Avevano raggiunto uno dei bar della piazza con i tavolini fuori e si erano seduti per un aperitivo. Laura aveva l’aspetto di chi non era minimamente interessata all’arrivo del cameriere per fare il suo ordine. Il suo viso di carnagione chiara sembrava quasi riverberare mentre teneva gli occhi trasognati puntati sul suo Francesco. E Francesco la ricambiava. Busto eretto, leggermente proteso verso di lei, e un sorriso sornione con cui si gustava gli occhi luminosi e intensi davanti a lui. Mentre la guardava ripensava alla splendida serata di sesso che avevano appena trascorso. Era stata molto più che piacevole. Lenta, coinvolgente e carica di un mix straordinario di tenerezza, complicità, dolce violenza e anche di un pizzico di divertente comicità. Ripensava alla loro serata, fissava Laura, ma non riusciva a non pensare a Teresa. Non la sentiva più da tre giorni. Né un messaggio, né un post su Facebook a cui replicare subito per tenere vivo il suo interesse, nemmeno una segnale telegrafico alla sua chiamata senza risposta della mattina precedente. Teresa era splendida. Carnagione scura e curve morbide, meno armonia e modi gentili di Laura, ma il sottile mistero di chi misura con cura il suo coinvolgimento. Una serata come quella di ieri, con lei, non sarebbe potuta esserci, ma una serata diversa sì.
In quel momento Teresa era molto vicina, stava camminando frettolosamente in una delle strade che portavano alla stessa piazza, ma, a dire il vero, stava anche per svoltare per raggiungere il negozio di telefonini un paio di quartieri più in là. Andava di solito in quel negozio ogni volta in cui sentiva il bisogno di cambiare cover al suo iphone. Procedeva spedita, con gli occhi piccoli e stretti un po’ accigliati, perché aveva dimenticato di prendere gli occhiali da sole prima di uscire di casa. Pensava a Francesco, che l’aveva contattata il giorno prima. Non aveva risposto, non era proprio dello spirito buono. Francesco, era un bravo ragazzo, un ottimo partito, simpatico e belloccio e ci teneva a tenerselo buono perché non si sa mai nella vita. Ma erano due giorni che aveva la testa da un’altra parte. Da quando Stefano, tre giorni prima, improvvisamente se ne era andato con una scusa, dopo che si erano concessi di tutto. Si erano visti anche i giorni dopo, apparentemente nulla era successo, ma da quella sera aveva una sensazione strana e lei, quando aveva sensazioni strane, ci prendeva sempre. Stefano non era uno qualunque, uno da lasciarsi scappare senza mettere in atto piani b, c, d ed f. Aveva bisogno di stare tranquilla e pensare a come muoversi.
Mentre stava per imboccare la strada del negozio, voi non ci crederete perché era certamente il tipo di evento che normalmente Teresa avrebbe percepito in anticipo, non si accorse che stava arrivando in auto a poche decine di metri da lei, esattamente in quel preciso momento, proprio Stefano. Aveva parcheggiato la sua Porsche, senza far troppo rumore, al posto riservato agli invalidi davanti al suo bar preferito, tanto sarebbe potuto restare solo un minuto. Era entrato di fretta e aveva ordinato a Mariana, con un grande sorriso, il suo solito cappuccino. Mariana era la ragazza romena dai modi dolci e incantevoli che serviva nel locale. Aveva un modo tutto suo, flessuoso e spontaneo di muoversi e di muovere quello che sfiorava. La sua voce era così melodiosa che il suo accento non risultava mai coriaceo, era semmai esotico, per nulla scontato, carico di una sensualità naturale. A Stefano era capitato frequentemente di entrare nel locale e di averla vista servire i clienti intonando continui motivi musicali sempre vari e ammalianti. E spesso si fermava anche a parlare con lei, e lì scattava veramente qualcosa, perché Mariana aveva un volto semplice, senza trucco, dolcemente punteggiato di lentiggini che esaltavano i suoi lineamenti perfetti. Mentre parlava con qualcuno, Stefano incluso, lei si inseriva in una modalità comunicativa spontanea e sorridente che avrebbe reso piacevole parlare del tempo anche per chi si era appena inzuppato dentro ad un temporale.
Mentre beveva il suo cappuccino, quel giorno ahimè troppo di fretta, Stefano osservava Mariana e gli altri avventori. Stefano era certo che diversi di loro venivano lì, come lui, per Mariana. Lei invece quel giorno osservava di nascosto Iuri, che se ne stava mogio e defilato seduto ad un tavolino sorseggiando un’acqua minerale. Non veniva spesso. Era originario del suo stesso paese e ogni tanto le era capitato di chiacchierare per ore con lui dei loro luoghi, dei momenti spensierati della loro adolescenza, ma, secondo lei, tutti e due erano troppo timidi per condividere l’uno con l’altra tutto quello che si portavano dentro per la loro emigrazione.
Iuri guardava il vetro del bicchiere che faceva riverberare un riflesso della luce che arrivava da fuori. Pensava a Laura. Lei era l’unica ragazza italiana che lo trattasse con dolcezza e l’avesse fatto sempre sentire semplicemente un ragazzo e non un ragazzo romeno come tutte le altre. Quando pensava a lei sentiva crescere dentro un gran desiderio di icontrarla ancora. Succedeva sempre per caso ultimamente. Da quando avevano terminato l’università non capitava spesso, ma sempre lei lo accoglieva con un sorriso, un abbraccio sincero e qualche veloce parola carica di attenzioni e serenità. Scostò un po’ il bicchiere, il riflesso si fece più intenso ferendogli gli occhi, che mantenne comunque ben spalancati sperando di ricevere un’illuminazione sulla domanda che aveva scolpita nella mente: “Dove sarà adesso Laura?”.
Vedevo tutto distintamente, quello che avevo davanti era un capolavoro di incastri perfetti. Per niente facile da creare, ve lo garantisco, anche se al giorno d’oggi è più facile di un tempo. Ero stato davvero bravo.
Ma dovevo rimettere mano un po’ a tutto. Il giorno prima ero stato richiamato ai piani alti, ed ero stato redarguito. Il mio operato qui, pare lasciasse a desiderare. Poche coppie durature, poche certezze, molta grande confusione. E allora quel giorno avevo dovuto cambiare faretra. E le frecce che stavo per scoccare avrebbero cambiato la vita di molti di loro. Perché, quando arrivano dei figli, sembra un caso, ma le vite possono cambiare.

Stai al tuo posto

Me ne ero accorto subito. Eppure sapeva bene quanto ci tenessi ai miei attrezzi. Sapeva anche che le volevo bene, certo, e forse per questo aveva creduto di poter fare tutto ciò che desiderava con le mie cose senza chiedere il permesso. Ma si sbagliava. Eravamo sposati già da alcuni anni, quando quel giorno aveva prelevato un po’ di tutto dal mio capanno: cacciaviti, chiavi inglesi, scalpelli e martelli. Per fare cosa poi non so. Prima che arrivassi a casa aveva già riposto tutto. Malamente, alla rinfusa, senza nessun ordine. Quella fu la prima volta che la picchiai e, devo dir la verità, fu davvero facile. Alla fine avevo perso quasi completamente la sensibilità alla mano destra, il palmo mi friggeva, ma ero certo che non avrebbe mai più sfiorato la mia ferramenta senza il mio permesso.
Avevo ragione! Da allora non l’aveva più toccata. E così oggi sono certo che presto finirà anche di lasciare, ogni dannato giorno, le sue chiavi di casa sparse sul mobile in ingresso. Perché, appena rientrerà in casa dall’orto, oggi saremo certi che sarà stato l’ultimo giorno in cui le avrò lasciato fare liberamente anche questo.

Condivisa fragilità

Il dodici per cento di loro viveva sereno amando, pienamente ricambiato, il proprio compagno, il diciassette per cento viveva tranquillamente “alla giornata” senza preoccuparsi molto delle emozioni che avrebbe sperimentato giorno dopo giorno, il trentadue per cento di loro vagava costantemente in cerca del compagno ideale con cui trascorrere il resto della vita, il trentanove per cento, invece, teneva continuamente sotto scacco affettivo il proprio partner per mantenerne con innocente sicurezza il controllo.

Tuttavia, quando l’ordigno inesploso smise di essere tale, il cento per cento di loro ne ebbe la vita sconvolta.

L’abat jour

AbatJour

Lei era come una abat jour, la mia personale abat jour. Ogni volta, come ad esempio accadde in quei lunghi mesi, quando decideva di spegnersi, tutto il mondo intorno a me assumeva il sapore dell’impenetrabile notte.

Così, mentre brancolavo nel buio, finii per incocciare il mio alluce sulla gamba dello scrittoio e  allora fu facile decidere di lasciarla andare.