Ritorno a Facebook City

 CelebratePride2

Non moltissimo tempo fa sono uscito per un po’ da Facebook.

Nello scorso fine settimana, credo in conseguenza di qualche impostazione fatta a suo tempo in fase di partenza, FB ha pensato bene di riattivarmi. E io ho accolto la notizia con una naturale serenità, senza ansie, né aspettative di sorta.

Facebook è un luogo meraviglioso, la sua efficacia è senza precedenti. E’ una specie di propulsore emotivo di attese disattese e ricordi radicati. E una volta rientrati, sono sufficienti pochi minuti e tutti i pensieri che ti avevano portato lontano da Facebook City si rimaterializzano nella tua mente nitidi come un tempo.

Meno nitido, devo dire, è l’aspetto che ho ritrovato in molti miei amici. Non so se sia stata la lontananza dalla mia amicizia virtuale, una specie di lutto in onore della PJassenza, non so se la frequentazione Fb genera a lungo andare degli effetti che noti solo se non ne fai parte, ma devo dire che quando sono entrato ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.

Le possibili spiegazioni per questo evento sono moltissime e nel formularle bisogna sempre tenere presente la viralità dell’habitat naturale in cui vive il popolo di FB City. Perché, nella vita reale, appena uno di noi viene colto da un qualsiasi virus che lo fa starnutire tre volte, viene messo in quarantena, emarginato, invitato caldamente a fruire di inutili antibiotici, per poterlo poi additare a possibile veicolo pandemico. Nella vita virtuale,  se una persona viene colta da un nuovo virus (di originalità), il fenomeno è opposto. Tutti si fanno contagiare, vogliono entrare nella moda a piè pari, quando sono ancora sotto al cinquantamillesimo posto, perché se superano quel limite, arrivare dopo, è un’onta e un disonore. Nessuno si ricorderà che sei stato tra i primi a costruire la moda e lascerai lo spiacevole dubbio di esserti aggregato solo per paura di non essere considerato una persona con la degna sensibilità. Spesso chi rimane indifferente al movimento massonico globale pro-qualcosa, viene portato piano piano, mano nella mano, di discussione in discussione, nella riserva indiana dei “diversi”.

Magari qualcuno si inventa un movimento modaiolo pro-gay d’oltreoceano per l’uguaglianza dei diritti (idea benemerita e sacrosanta, intendiamoci; e non ci sarebbe da meravigliarsi se dietro queste facce smunte dei miei amici, per lo più etero e per giunta italiani, ci sia proprio questo). Partita la moda, tutti corrono a scimmiottare qualche simbolo, e chi rimane con il suo vecchio avatar dai contorni nitidi e bei colori accesi inizia a sentirsi un escluso, un untore al rovescio, una mosca bianca.

Comunque, a distanza di un paio di giorni dai primi avvistamenti, rimango ancora nel dubbio su cosa possa aver sbiadito così tanto i miei amici. I ricordi di un vecchio film, Indipendece Day, potrebbero far pensare che, sempre, quando le immagini diventano sfocate e piene di distorsioni la colpa è di una razza aliena che sta per invadere la Terra e sterminare l’Umanità intera.

Oppure come sostiene qualche agenzia giornalistica e scandalistica si tratta solo di una gigantesca operazione di web marketing e indagine di mercato per scoprire le tendenze in fatto di colori ingialliti (e non solo) della totalità degli abitanti della City.

Io penso però che la risposta buona sia quella più semplice. In un altro film, Contact,  si cerca di applicare il principio del Rasoio di Occam ad ogni puttanata. E così faccio anch’io.

Io sono stato via un po’. Quando si sta decorosamente bene si fa fatica ad avere una percezione esatta dello scorrere del tempo. E forse in questo caso, il periodo trascorso lontano da FB, è stato molto più lungo della mia percezione, abbastanza più lungo da far sì che le emulsioni fotografiche delle Polaroid utilizzate dagli amici per aggiornare il loro profilo siano semplicemente andate a male. Sembrano quasi foto d’altri tempi.

E Facebook è così, autentico, non ti fa vedere le cose che non sono. Nessuno si vergogna se la sua foto profilo fa un po’ schifo (ma il termine giusto era un italianizzabile “cagare”).

Mosso da questa certezza, di aver trovato la soluzione semplice che spiega tutto, vi confesso, non credo mi toglierò da FB City per un bel po’. Non vorrei proprio rischiare di trovarmi talmente bene lontano da essa fino a perdere la nozione del tempo così tanto da scoprire, alla prossima riattivazione, attraverso gli ultimi post super eccitati, che la Fine del Mondo sia già passata. Sai che delusione sarebbe non sapere in diretta che tutto è finito?

La foto di FIK

Foto_di_FIK

Oggi inizio con il salutare alcuni lettori. Sì perché il raccontino di oggi, avviso subito, è un po’ triste e per chi non è dello spirito giusto, è meglio che si fermi qui. Vi saluto con simpatia, ci si rivede presto! Ciao.

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Quella mattina sembrava procedere come tutte le altre da due anni a quella parte. Sonno, caffè, pulizia, vestizione, automobile, distributore, autostrada, viaggio. Una giornata speculare alle sue sorelle.

Invece fu diversa.

Non avevo fatto nemmeno troppi chilometri dal casello di entrata dell’autostrada, e, per i casi della vita, mi sembrava addirittura si stesse diffondendo un crescente buonumore nei meandri della mia psiche. Ma ci volle veramente poco per far virare la giornata dalla routine di sempre verso il nuovo. Non era la prima volta che partecipavo ad una coda. Ma quella, fu subito chiaro, era diversa. Arrivato in coda, rimasi subito immobile. Non fu possibile andare avanti nemmeno di un giro di ruota. E, passati pochi secondi, fu il senso di colpa per l’inquinamento che diffondevo alacremente con il mio mezzo, che mi fece spegnere tutto.

Sono questi i casi in cui, se sei fortunato, può arrivare una telefonata di FIK.
FIK è un caro amico. Davvero esperto nella sottile arte del rabbocco del bicchiere di birra. Con lui si gareggia spesso nell’estrarre le verità della vita nascoste nelle sinapsi cerebrali della nostra memoria alcolica. Verità che, ad essere sinceri, il giorno dopo non ricordiamo mai, quasi fossimo vittime di un complotto continuo contro la nostra presa di coscienza. Ma ci lasciano sempre il piacere profondo legato alla loro effimera scoperta.

FIK quel giorno era una decina di chilometri davanti a me, sulla stessa autostrada, impegnato tanto quanto me a popolare la stessa fila di auto immobili. Mi raccontò le notizie di prima mano che venivano dal fronte, anticipando una storia che, oltre tre ore dopo, avrei avuto l’opportunità di osservare attraverso la vista, edulcorata dall’operosa attenzione di vigili del fuoco, dei suoi effetti. La compenetrazione senza scampo tra due autotreni lascia il segno.

Non parlammo molto al telefono. Quando sei in un corteo, si tende a stare in silenzio. Finimmo tutti a far vagare la mente silenziosamente negli stessi pensieri. Io, lui, e tutti gli altri automobilisti assiepati su quel lembo di asfalto. E’ strano. Puoi essere in dieci in coda alle poste per pagare un bollettino e dopo poco c’è sempre qualcuno che si lamenta senza decoro con qualcun’altro. Per i torti subiti, per le lentezze agli sportelli, per gli impiegati fannulloni, contro chi fuma, contro la sorte avversa impersonata da qualche nostro simile. Per qualsiasi motivo utile ad istigare il litigio.
Invece lì, quel giorno, avevo intorno a me qualcosa come cinquemila veicoli, forse diecimila persone. Tutti in silenzio. Qualcuno intento a passeggiare, altri a fumare, qualcuno a parlare sottovoce. Tutti con gli stessi pensieri e nessuna voglia di litigare.

Quante riunioni sono saltate quel giorno? No, non saprei. Tremila? Seimila? Forse. Sicuramente un toccasana per l’economia italiana.
Ma a nessuno di noi interessava nulla di questo. Il pensiero più frequente credo fosse rivolto a quella singola persona tra noi su quel tratto di strada che si era svegliato la mattina, una mattina come tante altre tutte uguali, e aveva dovuto scoprire, forse senza nemmeno riuscire a provare vera sorpresa, che quel giorno era più corto di tutti gli altri giorni, tremendamente più corto.

Certo. Forse nella vita poteva anche essere una persona antipatica, qualcuno con cui non saremmo mai andati d’accordo, del quale non saremmo mai stati amici, nemmeno se avessimo abitato porta a porta. Eppure ognuno di noi provava per lui un rispetto profondo, una specie di riconoscenza immotivata e non perché si era sacrificato al posto nostro nel fortunale di queste nostre esistenze concentrate nella corsa continua. C’è dell’eroismo a spingere avanti la propria vita difficile, e l’eroismo, a volte, è davvero totale e se ci passi vicino, lo senti.

Alcune ore di silenzio dopo, FIK mi ritelefonò:
– Manca poco. La volante della polizia, sta per farci strada. – Mi arriva via messaggio la sua foto. La foto di FIK. – Sono davanti a tutti. – cinquemila auto pronte a ributtarsi nella mischia dietro di lui.

Alla mia altezza la coda si mosse, lentamente, molte decine di minuti dopo. E, ancora FIK, quando ormai le nostre giornate avevano già preso la loro forma finale, mi raccontò come mai ci eravamo rimessi in movimento come tartarughe disperatamente intente a cercar di perdere la gara con Achille.

Sì perché ci eravamo mossi a passo d’uomo.

La polizia, carica della verità dell’esperienza, aveva preferito accompagnare dolcemente la fila lunghissima di auto nel suo “Rompete le righe!” imponendo un’andatura rispettosamente silenziosa fino al casello successivo. E, in tutto questo lento procedere, FIK e io, vedemmo grande saggezza.

Perché quel giorno lì avevamo già dato tutti quanti. Chi poco, chi tutto.

I mitocondri

Mitocondri

Ho una figlia al primo anno di medicina ormai in prossimità della sessione estiva degli esami. A differenza dei miei tempi universitari in cui si studiava davvero poco, oggigiorno si studia molto poco e si fanno gran ritrovi tra amici. Nonostante questo, qualche giorno fa, è entrata in un mood studiaiolo e non è riuscita a non coinvolgermi nelle sue accorate ripetizioni delle materie prossime alla dirittura di arrivo.

E’ stato allora che, seguendo il suo ripassare ad alta voce, ho scoperto una cosa che proprio non sapevo. In realtà la questione mi ha incuriosito molto, perché le possibilità sono due: o ai tempi delle medie e delle superiori quando ho studiato la biologia della cellula la scienza non aveva ancora tutti gli elementi di questa interessante scoperta oppure devo aver attraversato nella mia giovinezza dei periodi di scarsa presenza di spirito, perché certe informazioni mi appassionano sempre e non sarebbe da me non ricordarmene. Propendo per la prima delle due ipotesi.

La faccio breve. Pare che questi mitocondri non siano altro che i residui dell’integrazione evoluzionistica tra il nostro corpo e alcuni dei suoi batteri simbionti. Non ho voluto approfondire molto perché la notizia già da sola mi è giunta sconvolgente, ma, nella pratica, molto tempo fa, questi mitocondri erano solo dei normali “batteri buoni”. Loro si trovavano bene nel nostro corpo e noi traevamo dei benefici dalla loro presenza. Dei fermenti lattici vivi un po’ più cazzuti, potremmo dire. Funzionava tutto così bene che alla fine sono diventati parte di noi. Indistinta.

Una figata!

La spiegazione ricevuta insegna che i mitocondri mantengono ancora oggi una loro identità, la loro struttura genetica è un po’ differente dal resto del nostro corpo, il loro codice genetico lo prendono solo dalla nostra mamma e mai anche da quello del nostro papà (la natura deve aver pensato qualcosa del tipo: “Beh, per integrare questi batteri non occorre fare tutto per bene. Se prendendo solo la parte che viene dalla donna questo connubio simbiontico non risulterà proprio perfetto, forse nessuno se ne accorgerà 😉 “), e poi hanno questa e quell’altra differenza rispetto al resto della nostra materia organica. Ma io trovo che questo piccolo miracolo evolutivo sia una cosa che deve far pensare.

Siccome poi io sono anche un appassionato della saga di Guerre Stellari, non sono riuscito a non vedere dei punti di contatto tra questa storia dei mitocondri e il racconto sui Midichlorian che compare in una puntata della serie. I Midichlorian sarebbero degli esserini simbionti di tutti gli esseri viventi, dentro le loro cellule, grazie ai quali è possibile sviluppare la Forza e le sue vie.

Per chi non fosse informato su cosa sia la Forza, possiamo in estrema sintesi dire che la Forza è quel non so che di impalpabile che può servire per sollevare con la sola energia del pensiero un’astronave imburrata irrimediabilmente in un acquitrinio, oppure permette di prevedere squarci di futuro, oppure ancora ci può servire per non imboccare la via verso il Lato Oscuro. E questo, come ben sappiamo, è sempre molto utile.

Ora voi potrete dire: “Sì, bella questa storia dei batteri buoni che smettono di essere batteri perché sono così utili che la Natura li ha promossi a parte importante e integrante della nostra essenza! Sì, simpatico questo fantomatico paragone con le storielle di Guerre Stellari! Ma? …. Tutta qua l’essenza di questo articolo?”.

E no! Amici miei.

Ecco mentre ascoltavo la storia dei mitocondri, mi sentivo invaso da una intuizione derivata dalla Forza. Quando un nostro figlio ci racconta o addirittura ci insegna con entusiasmo qualcosa che non conoscevamo o ci fa ascoltare un brano in un suo saggio di musica che ci trasmette emozioni o semplicemente ci fa comprendere che è un essere umano completo che potrebbe plasmare come noi, meglio di noi, la sua vita, quello è il momento in cui si fa strada una delle percezioni emotive più forti che possiamo provare.

Tutti noi, nella nostra personale misura, passiamo una parte della vita per trovare la strada per accoppiarci secondo il nostro istinto. La Natura ci ha anche magicamente dotati del sentimento e della poesia che rendono la vicinanza e l’armonia tra le persone l’unico passaggio che ci coinvolge e ci rende veramente completi. E questo già sublima la nostra esistenza.

Però i nostri figli non possono non essere la parte migliore delle nostre speranze e della nostra crescita. Perché solo attraverso di loro possiamo anche solo sperare di arrivare oltre a dove noi ci fermeremo.

Il difetto dei limiti

Cena_In_Terrazzo

Accade nella vita di incorrere in momenti di solitudine. Ieri sera alla fine di una giornata di assoluto relax, persa a muovere il corpo da una posizione di riposo all’altra, mi sono ritrovato nella situazione inusuale di poter decidere cosa fare del residuo tempo crepuscolare della mia giornata. Chi mi conosce sa che non è propriamente un delitto se ogni tanto passo qualche ora di cazzeggio, nell’assoluta apatia, così come sa bene che non sono un amante dei mega ritrovi di persone, troppo spesso cariche del bisogno di primeggiare in perfezione con gli astanti.

Ieri tuttavia non avrei disdegnato il passare una serata con qualcuno a scambiare qualche pensiero davanti ad una birra o ad una pizza o, perché no, dopo un film. E ci ho anche provato, ma, come spesso accade in questi casi, la probabilità di incontrare la disponibilità delle persone intorno a noi è inversamente proporzionale al bisogno che noi abbiamo di passare del tempo con loro.

La solitudine certe volte è pesantissima da sopportare, altre volte invece è una specie di varco che ci porta a sondare una parte di noi stessi su cui spesso non abbiamo la costanza e la coerenza di riflettere. Così ieri sera sono finito a cenare tutto solo in terrazzo, di fronte a un crepuscolo nemmeno particolarmente colorato, con un paio di bicchieri di vino e due piatti molto semplici, gustati con calma in attesa del film noleggiato per l’occasione scelto opportunamente tra quelli che ti consentono di scollegare il cervello.

Mentre cenavo, complice l’entrata in circolo di un po’ di grado alcolico e la musica jazz vagamente melanconica proposta dalla playlist youtube lasciata libera di agire, senza accorgermi, sono finito a far divagare la mente in uno dei miei ragionamenti color pastello perennemente incompiuti …

Si sperimentano quotidianamente le difficoltà che dobbiamo fronteggiare per dare un senso compiuto alla nostra vita. E tra tutte le difficoltà che incrociamo, anche se spesso ci piace rivolgere la nostra imprecazione verso altre destinazioni, i nostri limiti personali rappresentano il vero scoglio su cui ci infrangiamo più spesso.

Chi più chi meno, brancoliamo tutti nella più ineluttabile confusione tra dove siamo e dove vorremmo essere, tra dove potremmo andare e dove le persone intorno a noi ci lasciano andare. Siamo tutti ricchi di limiti. Limiti fisici, legati alla nostra persona, limiti fisici, legati a cause esterne. In primis, il tempo che abbiamo a disposizione, per noi stessi e per le persone a cui vogliamo bene o che ci vogliono bene. Limiti caratteriali, che nelle situazioni più disparate che ci propone la vita ci fanno costantemente oscillare tra l’inadeguato e l’inopportuno, tra l’insensibile e il troppo bisognoso di affetto. A volte riusciamo anche a superarli i nostri limiti, ma la sensazione che ne traiamo non è sempre piacevole. Specialmente quando ci accorgiamo che i limiti, buttati alle nostre spalle con grande difficoltà, di fatto erano inesistenti, erano quelli che ci eravamo regalati da noi, solo per autolimitarci, e per mascherare le nostre paure dietro un vuoto paravento.

Anche quando ci sembra di attraversare un periodo in cui tutto pare funzionare nel miglior modo possibile, la nostra esperienza ci insegna che una nuova rivisitazione è nell’aria, perché qualcosa su cui scontrarci la troviamo sempre e, se proprio non ci imbattiamo in nessun ostacolo, entra in gioco quello che forse è il nostro limite ultimo (e nel contempo anche il motivo per cui l’umanità è sempre in evoluzione), quel gene che abbiamo dentro che non ci rende mai contenti, arrivati ad un traguardo sentiamo il bisogno di superarlo e lasciarcelo alle spalle. Anche se quel traguardo ha a che fare con la nostra serenità. In fondo serenità e noia hanno i loro campi che condividono lo stesso confine.

Ecco, ieri sera, in una cena solitaria in terrazzo, mi sono passati davanti tutti i limiti di cui sono portatore sano, tutti i principali per lo meno. Non ha senso condividerli, è più saggio lasciarvi con i vostri. Ma mentre li scorrevo ad uno ad uno, mi è stato chiaro qual’è il loro denominatore comune.

Ai nostri limiti piace viaggiare in gruppo e combinare le marachelle tutti assieme nella nostra vita, giusto per farci ricordare sempre con affetto che loro ci sono, sono tanti e sono tutti nostri.

La meccanicità della vita

Meccanica_nella_vita

La vita è soprattutto un susseguirsi continuo di momenti, per ognuno dei quali, al di là dell’intensità con cui riusciamo a viverli, si costruisce l’essenza della nostra esistenza. Tutto scorre apparentemente guidato dalle nostre scelte e dalla complessa interazione con le persone che abbiamo vicino, fino a creare un percorso non dissimile a quello che segue un treno. Noi saliamo in una carrozza, mai sulla motrice, e al più possiamo scegliere di scendere alla prima, alla sesta o alla decima città sul percorso. Altro non ci è dato.

Poi ci sono pochi, strani passaggi, in cui capisci appieno che ognuno di noi si ferma per un po’. Deve fermarsi per il tempo necessario a capire dove si trova. In quei frangenti siamo  pienamente coscienti che la meccanica sequenza di eventi della nostra vita è più che altro una convenzione stereotipata di ciò che vorremmo essere. E’ lì che si sperimenta il desiderio folle di tirare la leva del freno di emergenza del treno, per poter scendere in mezzo ad una campagna sconosciuta e respirare un po’ di aria inattesa.

Addio compagna di viaggi

Alberi

Una sera, molti mesi fa, al rientro da uno dei miei frequenti viaggi, ho deciso di lavare l’auto.  Era inguardabile e anche solo avvicinandosi a lei si rischiava che una parte dello sporco che la proteggeva avrebbe potuto decidere di cambiare ospite. Anticipo un concetto importante, per me le macchine sono solo pezzi di ferro. Ci fanno compiere in libertà il piccolo miracolo del salto spaziale da un luogo all’altro del nostro perimetro di azione quotidiano, ma a parte questo, sono solo pezzi di ferro.

Bene, quella sera sono rimasto molto colpito, perché arrivato al lavaggio automatico vicino a casa ad un’ora piuttosto tarda, credo fossero quasi le undici di sera, sono riuscito a fare coda. 🙂

Esiste un popolo di maschi, o presunti tali, che dedicano alla cura della loro auto attenzioni meticolose  e professionali, cure che difficilmente estenderebbero ad altre componenti importanti della loro vita.

Ho fatto coda per lavare l’auto, non è stato semplicissimo nemmeno accedere all’area “pulizia degli interni” e posso garantire che non c’era luce sufficiente nemmeno per immaginare di riuscire a scovare lo sporco. Molti avventori, passavano poi al bar dell’area di servizio. Estratto da una capanna di legno, addobbato con luci al neon colorate, recuperate io credo da qualche discarica d’altri tempi, disponeva di un’ampia dotazione di sedie di plastica per rendere comoda la loro pausa.

Spero che in quell’affollato spiazzo antistante il piccolo bar si sia parlato soprattutto di figa, perché l’idea che il tema principale possa essere stato il calcio mi disturba parecchio.

La faccio breve, quella sera mi sono allontanato da quel luogo con un principio di nausea e sono rientrato a casa con l’unica certezza di non appartenere alla setta degli adoratori del possesso automobilistico.

La vita tuttavia con il tempo sa presentare punti di vista sempre diversi anche alle questioni più semplici e più scontate. E a molti mesi di distanza ora non sono nemmeno più la persona che è rientrata a casa quella sera.

Sono passati pochi giorni da quando ho fatto compiere i chilometri alla mia auto in riva al Lago di Garda. E’ stato un passaggio strano nel quale, per tutta una serie di motivi, non nascondo, ho provato della tenerezza. Davvero molti chilometri, molte storie si sono incrociate intorno a questa auto, momenti iracondi, momenti stanchi, momenti romantici, momenti divertenti. Tutto racchiuso nello spazio del suo abitacolo.

La settimana scorsa, arrivavo a Milano, ed è comparso un rumore strano. Non uno dei soliti rumori artritici che era abituata a farmi sentire, era un suono più secco, frequente e ripetitivo di qualsiasi altro suono emesso prima. Il pomeriggio mi ha riportato indietro a casa, sempre più rumorosa ed affaticata. Siamo arrivati dal meccanico di fiducia, che con un tono misto tra il dispiaciuto (per aver perso una buona cliente) e il saggio universale (perché l’esperienza rende il medico dell’officina una specie di dio nel mondo dei motori) ha detto: “Questa auto è arrivata al capolinea!”

Mi ha colpito molto. Era già chiaramente guasta nella lontana Milano, ma mi ha riportato indietro, abbiamo superato assieme, arrancando in autostrada, gli ultimi TIR delle nostre avventure. Ieri abbiamo fatto gli ultimi eroici quaranta chilometri per raggiungere l’officina dove oggi l’ho venduta, comprandone un’altra, esteriormente non molto diversa da lei. E’ quasi certo che lei andrà incontro ad una nuova vita in qualche stato estero non ben precisato, e un po’ mi sembra di doverla invidiare. Di certo non riesco a non provare ammirazione e riconoscenza, perché abbiamo affrontato davvero una montagna di chilometri, ma non ha avuto nessun cedimento. Sarebbe bastato un piccolo guasto al momento giusto, una crisi di paura nel sandwich del traffico, una piccola sbandata e facilmente ora non sarei più qui a scrivere.

Noi uomini sbandiamo e ormai non ce ne accorgiamo nemmeno più, facciamo danni senza darcene alcun peso, lei invece non ha mai perso la retta via negli infiniti momenti importanti in cui aveva in mano la mia vita. E non si è tirata indietro fino alla fine. Non abbiamo nemmeno mai una sola volta veramente rischiato la vita, nonostante la montagna di chilometri che abbiamo scalato.

Le auto sono solo pezzi di ferro, ma forse con il tempo e la pazienza riescono a raccogliere intorno a sé quei pezzi di umanità e di affetto, che si staccano dalla nostra vita per la crudezza del mondo che viviamo. E forse per questo, non amo di certo il possesso dei pezzi di ferro, ma mi dispiace davvero che se ne sia andata.

Addio vecchia compagna di viaggi, sei stata soprattutto un’eroica, fedele, instancabile, contenitrice dei miei ricordi.

Il complechilometro della mia auto

Lago di Garda - Complechilometro della mia auto

Un paio di giorni fa, mentre venivo a Milano, per una serie di sincronismi, ho accompagnato la mia auto a compiere i chilometri (333.333) in riva al Lago di Garda. Vi risparmio i particolari del piccolo evento di questa mia esistenza, festeggiato con birra e tramezzini di autogrill, sotto l’influsso di sentimenti contrastanti tra l’autoironico, l’incredulo e il soddisfatto. La verità è che stiamo parlando di qualcosa come 4,8 volte la circonferenza della Terra percorsa in auto nei miei spostamenti degli ultimi due anni. 🙂

Evidentemente i miei genitori non potevano immaginarlo, ma quando mi hanno messo in mano a dieci anni i romanzi di Jules Verne “Ventimila leghe sotto i mari” e “Il giro del mondo in 80 giorni” io mi sono appassionato e si è compiuta una sorta di sinistro imprinting.

E’ la seconda volta nella vita che mi ritrovo a guidare un’auto che ho portato fino a superare la soglia psicologica di questi trecentotrentatremilachilometri. La prima volta ero assai più giovane e l’evento mi è passato vicino senza particolari riflessioni. A suo tempo questa meta era arrivata in maniera molto più graduale, in molti più anni e con una dinamica molto più naturale. Ora è stato tutto diverso. Si è trattato di un accadimento arrivato nel tumulto esistenziale, ricchissimo di riflessioni e di collegamenti.

Lo so, molti potrebbero pensare a quanto di sbagliato ci possa essere nel condurre una vita così poco attenta ad alcuni degli aspetti più banali della ragionevolezza. Vi posso garantire che ci sono veramente tanti diversi risvolti tutti sbagliati. I rischi, gli impatti ambientali, lo “spreco” di tempo, e se continuassi non rimarrebbe più spazio per altre parole in questo articolo. E so anche perfettamente che la grandissima maggioranza di persone, trovandosi al mio posto, sarebbe stata molto più saggia e avrebbe trasformato l’esigenza lavorativa in opportunità, avrebbe colto l’occasione per diventare, almeno un po’, cittadina di un’altro luogo. La ricchezza e la nostra crescita si ottengono anche cambiando le prospettive e favorendo il cambiamento.

Lo so, è tutto vero, però, ci ho pensato molto mentre sulle rive del lago riflettevo sull’evento: ha molto senso questa mia vita degli ultimi due anni trascorsa quotidianamente in due punti diversi della cartina geografica d’Italia. Non avrà un gran significato per la maggioranza delle persone, questo è certo, però io credo che nella vita non dobbiamo sempre ancorarci a quanto sia ragionevole fare, a quanto sia ovvia e saggia la consuetudine. Penso semplicemente che ognuno di noi ha un suo modo di esistere interiore che deve assecondare. Per stare bene con sé stesso, per trovare l’armonia anche nelle difficoltà, per non dimenticare che il sentimento deve avere uno spazio importante se non nella misura del tempo a sua disposizione almeno in quello dei desideri da perseguire.

Sosta

fiori_sosta

Fermare il momento

A volte mi è chiarissimo che in me c’è qualcosa che non va.

Hai un appuntamento di lavoro importante, sei in ritardo, hai già percorso centocinquanta chilometri, te ne mancano un’altra manciata per arrivare dove devi arrivare. Fuori c’è una giornata limpida, un sole primaverile, le colline punteggiate di fiori che ti lasciano il dubbio di non essere fiori, ma il residuo di una polverosa nevicata notturna.

Passi una piccola collinetta e segui l’ondeggiare della strada con stanchi movimenti del volante mentre la testa è da un’altra parte. Ripensi al colpo d’occhio di qualche istante prima: la collina brulla che per qualche motivo pandemico senti che sta rinascendo nel suo primaverile splendore e ha scelto un piccolo rettangolo fiorito per fartelo sapere.

Prosegui per un chilometro, forse due, pensando alla riunione che ti attende. Ma nella testa c’è spazio solo per un rettangolo fiorito. Inchiodi, inverti la rotta, imprecando perché la macchina fotografica è stata dimenticata. Risali lo stesso la collinetta all’indietro e accosti l’auto. Ti fermi davanti ad un metro quadro di prato fiorito, scatti una foto col cellulare e stai in silenzio come quando sei stato davanti alla tomba di Jim Morrison.

Sei in ritardo.

Chissene.

Camomilla

Camomilla

L’amica del mattino

A casa, da diversi mesi a questa parte, abbiamo un nuovo coinquilino. Si chiama Camomilla. E’ una cricetina tenerissima che ha uno sguardo così profondo che, a tratti, sembra addirittura umano.

In realtà non è affatto detto che sia di sesso femminile, tuttavia la sua dolcezza e le sue movenze delicate e sornione ci hanno fatto decidere che sicuramente è una femminuccia. La foto che le ho fatto non le rende giustizia, è davvero un personaggetto grintoso e ammaliatore, che non meriterebbe proprio di stare al di là delle maglie di una gabbia. Ma quando dico a qualcuno che secondo me andrebbe liberata, giù nel parco qui sotto casa, si solleva un coro di minacce e un accorato appello alla mia ragionevolezza, perché pare opinione comune che a lasciarla libera non potrebbe sopravvivere e rimarrebbe sicuramente vittima dei gatti, di cui peraltro dalle nostre parti non c’è traccia, o peggio delle violenze sessuali di qualche topastro grigio di quartiere.

La verità, non me ne vogliano i lettori, è che io non sono questo gran animalista convinto. Amo gli animali, ma amo di più l’essere umano. Nutro una sana ammirazione per le meraviglie del creato (e sicuramente Camomilla è una di queste), ma non sento, di mio il bisogno dell’eccesso di condivisione del buonismo animalista, che spesso si incontra nei luoghi virtuali. Anzi fino a qualche tempo fa sarei stato certo che non sarebbe stato possibile un mio post che raccontasse qualcosa di Camomilla.

Il suo nome deriva dal fatto che dorme sempre. Qualche tempo fa, con mia figlia ormai maggiorenne, abbiamo letto su internet che questa specie di criceto va in letargo quando la temperatura si approssima ai 5 gradi centigradi. Dopo meno di dieci minuti la sua gabbia è stata ricollocata in terrazzo, per lasciare che la cricetina seguisse i suoi cicli naturali e possiamo dire, con l’esperienza di questi ultimi mesi, che l’articolo della rete non aveva tutti i torti. Ma c’è dell’altro.

Camomilla dorme tutto il giorno. E quando mi sveglio presto alla mattina, ossia tutti i giorni della settimana, perché io sono un viaggiatore, la trovo che dorme tutta raggomitolata. Ma prima ancora che io esca in terrazzo, è come se avesse un sesto senso, si sveglia e si avvicina alla parte di gabbia verso la porta che dà sul terrazzo. Non è sempre stato così. Un tempo era schiva e distaccata. Poi, piano piano, ha preso confidenza. Ora si avvicina alla gabbia e si vede che cerca il contatto, appoggia le sue zampette sulle mie dita, mi guarda con il suo sguardo che nasconde molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un criceto.

Lo so, non dovrei, ma ultimamente ho preso l’abitudine di darle un mezzo biscotto. All’inizio le davo i biscotti alla crusca, da un po’ di tempo invece, le compro dei biscotti al cioccolato. Solo per lei, io non ne faccio uso. Dovreste vedere con che soddisfazione prende possesso del suo mezzo biscotto e si ritira a rosicchiarlo lentamente. Io credo che in quei momenti, stia riflettendo sui misteri dell’Universo.

Qualche mattina prima di occuparsi del biscotto, si attarda a giocare, dico io, con i polpastrelli delle mie dita. A volte ci affonda i suoi denti aguzzi, ma li ritrae subito. Magari sono io che proietto in questo suo agire qualche mia affettuosa fantasia, ma mi sembra veramente che nel suo gesto e nei suoi occhi ci sia soprattutto il bisogno di relazionarsi con un altro essere. Non importa se poi il mio dito sanguina un po per una mezz’ora, il suo gesto mi sembra nascondere così tanto vero affetto che non è grave far sapere che Camomilla esiste. In fondo è normale anche per noi, a volte, ferire le persone che amiamo.

Comunque sia, questa cricetina, prima o poi, va liberata.

Incominciare a dimenticare

GolfIntervista a me stesso

Cronista: «Frank, perché giochi a golf?»

Me: «Mah, a dire il vero non è che io gioco a golf. Ho giocato qualche volta nel passato. Ma sono mesi che non cammino più nemmeno sui prati. Figuriamoci sui campi da golf.»

Cronista: «Pensi sia utile per rilassarsi? Oppure ti aiuta a trovare la giusta concentrazione nella vita?»

Me: «Non saprei, ormai non ricordo più cosa si prova. Un tempo mi appassionava, mi piaceva l’idea di stare nel verde, mi piaceva scoprire le similitudini tra il percorso lungo le buche e il corso della vita.»

Cronista: «Dunque lo fai per stare a contatto con la natura. Ma non è che il vero motivo sia che tutti i dirigenti finiscono a giocare a golf, e tu non vuoi essere da meno?»

Me: «A parte il fatto che non sono più propriamente un dirigente, la verità è che non me ne frega niente. Sono anni che non faccio un percorso, perché tutte queste domande?»

Cronista: «Frank, sei stato visto l’altro giorno. Non te lo aspettavi? Ah? Dì la verità, non te lo aspettavi di essere spiato? Frank, perché giochi a golf?»

Me: «Sì, è vero, ci sono stato. Ma non ho veramente giocato. Sono solo arrivato là. Ho tirato una pallina o due, giusto per ricordarmi cosa vuol dire colpire il passato. Il fatto è che quello è un luogo, uno dei pochi luoghi, dai quali riesco ad incominciare a dimenticare.»