Stai al tuo posto

Me ne ero accorto subito. Eppure sapeva bene quanto ci tenessi ai miei attrezzi. Sapeva anche che le volevo bene, certo, e forse per questo aveva creduto di poter fare tutto ciò che desiderava con le mie cose senza chiedere il permesso. Ma si sbagliava. Eravamo sposati già da alcuni anni, quando quel giorno aveva prelevato un po’ di tutto dal mio capanno: cacciaviti, chiavi inglesi, scalpelli e martelli. Per fare cosa poi non so. Prima che arrivassi a casa aveva già riposto tutto. Malamente, alla rinfusa, senza nessun ordine. Quella fu la prima volta che la picchiai e, devo dir la verità, fu davvero facile. Alla fine avevo perso quasi completamente la sensibilità alla mano destra, il palmo mi friggeva, ma ero certo che non avrebbe mai più sfiorato la mia ferramenta senza il mio permesso.
Avevo ragione! Da allora non l’aveva più toccata. E così oggi sono certo che presto finirà anche di lasciare, ogni dannato giorno, le sue chiavi di casa sparse sul mobile in ingresso. Perché, appena rientrerà in casa dall’orto, oggi saremo certi che sarà stato l’ultimo giorno in cui le avrò lasciato fare liberamente anche questo.

Condivisa fragilità

Il dodici per cento di loro viveva sereno amando, pienamente ricambiato, il proprio compagno, il diciassette per cento viveva tranquillamente “alla giornata” senza preoccuparsi molto delle emozioni che avrebbe sperimentato giorno dopo giorno, il trentadue per cento di loro vagava costantemente in cerca del compagno ideale con cui trascorrere il resto della vita, il trentanove per cento, invece, teneva continuamente sotto scacco affettivo il proprio partner per mantenerne con innocente sicurezza il controllo.

Tuttavia, quando l’ordigno inesploso smise di essere tale, il cento per cento di loro ne ebbe la vita sconvolta.

L’abat jour

AbatJour

Lei era come una abat jour, la mia personale abat jour. Ogni volta, come ad esempio accadde in quei lunghi mesi, quando decideva di spegnersi, tutto il mondo intorno a me assumeva il sapore dell’impenetrabile notte.

Così, mentre brancolavo nel buio, finii per incocciare il mio alluce sulla gamba dello scrittoio e  allora fu facile decidere di lasciarla andare.

Intreccio rugoso

Intreccio

Sarebbe stato facile ingannare le stagioni dipanando con leggerezza l’intreccio serrato delle nostre esistenze. Di giochi e sorrisi avremmo potuto perire, ma hai preferito lasciare che il Tempo mi portasse con sé. E quel che rimane, lontano e silente, frena la luce che esce dall’occhio. Solitaria scintilla coperta da un velo di rughe e ferite.

Eutanasia Giusta

Peron_Del_Moz

«No, papà. Tu ti devi curare. Mettiamo noi i soldi!»

La voce di mio figlio riecheggiava ancora nitida nella mia testa. Ero comodamente seduto sulla panchina in cima al piccolo precipizio non lontano da casa. Le montagne apparivano fredde e maestose, mentre la luce rosata del tramonto invernale iniziava a colorarle. Intuivo chiaramente che in quel momento era direttamente Dio che si stava divertendo a dipingere le rocciose creste intorno a me. Lui per me. Un Suo istante dedicato a nutrire la mia serena contemplazione.

I pensieri insistevano sulle decisioni che dovevo prendere. No. Non avrei mai potuto permetterlo. Mio figlio e la sua famiglia non potevano proprio affrontare l’impegno economico dell’operazione e di tutte le cure che ne sarebbero seguite.
“Era andata così!”, Continuavo a ripetere a me stesso.
Avevo lavorato sodo. Avevo contribuito al welfare dello stato per una vita. Ma non mi sentivo di recriminare nulla.

Quando era uscita la legge, meno di un anno prima, avevo condiviso lo spirito e la scelta di chi aveva legiferato. Con la crescita dell’aspettativa di vita, l’economia del sistema previdenziale non si reggeva più. Non si poteva più far pagare ai giovani il prezzo, sempre più caro, del tenere in sesto l’incerta salute di noi vecchi. E così avevo accolto con favore la nuova legge che obbligava a saldare di tasca propria tutte le spese sanitarie delle persone sopra gli ottant’anni.

Il provvedimento aveva avuto un’effetto istantaneo dirompente. In pochi mesi due milioni di giovani avevano trovato finalmente un posto di lavoro stabile. E ricominciavano a sperare nel loro futuro. Un risultato impagabile.
Io avevo scoperto solo da poco la mia malattia. L’unica speranza era l’operazione, una normale operazione di routine, mi avevano detto. Vita certamente allungata di molto, al prezzo di limitati danni permanenti.
Mi ero fatto fare subito un preventivo, ma i miei risparmi non erano adeguati a sopportare quella spesa, né io, a dire il vero, sentivo così tanto il desiderio di vivere oltre il deperire delle mie capacità motorie e mentali.
E mio figlio? Avrebbe dovuto impegnare i risparmi di chissà quanti anni per dare continuità alla linea della vita tracciata sul palmo della mia mano.
Non l’avrei mai permesso.

Ripercorsi per ore, lentamente, tutti i ricordi della mia esistenza. I momenti felici, le difficoltà, il duro lavoro, le soddisfazioni. Le sofferenze e le ingiustizie. Le piccole cose importanti che solo ora apprezzavo appieno nella loro semplicità e profondità.

Mi ritornò alla mente un vecchio raccontino che avevo scritto intorno ai cinquant’anni. Raccontava una strana storia così simile a quella che stavo vivendo. In fondo da allora erano passati oltre trent’anni. Una mezza vita carica di sorprese ed accadimenti. Era stato bello farne parte.
Era bello anche essere là, ora, solo su quella panchina, a scorrere un evento dopo l’altro, rivivendolo con emozione i passaggi della mia storia, insignificante come tante, ma molto, molto personale.

Già da un’ora non sentivo più le mie gambe. Faceva freddo sotto il cielo limpido. La luna piena, ormai alta sull’orizzonte, illuminava le creste delle montagne davanti a me. La neve rifletteva la sua luce, moltiplicandone l’effetto magico. Non ci sarebbe potuto essere un’altro momento della stessa intensità. Era una notte che sembrava un nuovo giorno.
E, mentre osservavo quello spettacolo sublime, mi addormentai.

Quel che resta della sua immagine

Quel_che_resta_della_sua_immagine

Il video amatoriale che stavo guardando era vecchio solo di una settimana, ma aveva già più di due milioni di visualizzazioni. La protagonista era una donna sulla quarantina, forse qualche anno in più, un viso non appariscente, né insignificante. Un tipo potremmo dire.
Anche i vestiti che indossava sembravano più un travestimento di copertura che uno strumento per valorizzare la sua femminilità.

La cosa che colpiva era il suo sguardo. Nei suoi occhi una luce intensa si sprigionava nella direzione della telecamera, e il suo corpo iniziava ad ondeggiare in armoniche sempre più dolci ed ampie quasi ad assecondare la natura ondulatoria dei raggi di luce che sprizzavano dalle sue pupille.
C’era trasporto nel suo sguardo. Intenso coinvolgimento.

La telecamera scendeva lentamente fino a raggiungere una inquadratura dal basso. Ma gli occhi della donna rimanevano puntati verso l’alto, fissi verso la persona che prima stava dall’altro lato dell’obiettivo, che ora forse se ne era staccata per dare alle riprese una visione stabile, senza sussulti.

Il viso di lei si faceva sempre più sorridente e ammaliante. Il corpo, nei suoi movimenti ritmici, ora faceva uscire dai vestiti una sensualità insospettabile e travolgente. E, quando iniziò a scoprire lentamente nuovi lembi della sua pelle, l’effetto eccitante si moltiplicò.

Ogni tanto facevo un giro sulla piattaforma più che altro per essere sempre aggiornato su come il mondo moderno tempestava i miei figli con i suoi continui messaggi subliminali. Ai miei tempi non esistevano cose del genere o, se esistevano, non erano certo alla portata di un innocente click.
Non ero un grande frequentatore di YouPorn e non avrei potuto dare un parere qualificato. Tuttavia quel video aveva un’atmosfera particolare. La sua fattura amatoriale dava a tutte le immagini un’aura sincera di autenticità e realismo, ma a fare la differenza era quello sguardo della donna, costantemente puntato verso l’oggetto del suo amore.

E ora anche il suo corpo, liberato dall’involucro dei suoi goffi vestiti, rilucente di caldi riflessi in armonia con i movimenti flessuosi, si manifestava nella sua perfezione di curve e proporzioni. Ogni essenza della donna era per il suo uomo e, indirettamente, per noi spettatori del video.

L’uomo si spostò, seguito dagli occhi anelanti di lei, nudi e felici, come tutta la sua anima. La telecamera rimase ferma, immobile intrusa spettatrice di una scena che sarebbe stata perfetta nell’anonimato. L’uomo entrò in scena con la sua ragguardevole presenza. Gli occhi di lei si fecero color miele.

Credo che le immagini seguenti sarebbero potute essere ancor più coinvolgenti. Ma non ce la feci proprio. Chiusi tutto e spensi il computer.

Quella donna.
La conoscevo.
Era Lorena, la madre di un compagno di scuola di mio figlio. Ci incontravamo spesso all’uscita delle lezioni, mentre aspettavamo l’arrivo dei nostri rispettivi figli. Era timida e riservata. Sempre schiva e misurata, dispensava sorrisi dolci e gentili, ma dava pochissima confidenza alle persone.

Avevo saputo dai pettegolezzi delle festicciole di compleanno che era divorziata già da diversi anni, ma non avrei proprio potuto continuare a guardare quel video. Erano passati solo tre giorni dall’accaduto e due da quando ne avevo avuto notizia. Si era suicidata e nessuno sapeva perché l’avesse fatto.

L’uccello non ha occhi

Immagine_al_nano_microscopio_Willstar

Quella che stavo correggendo era la stesura per la pubblicazione finale del tredicesimo articolo in sei mesi. Il quinto che curavo per la rivista scientifica Nature. La mia scoperta andava decisamente di moda.
Mentre leggevo quello che avevo scritto, una certa noia si faceva avanti. Il tema era sempre affascinante, ricco di infiniti risvolti, ma il lento e macchinoso rigore della terminologia tecnica metteva invariabilmente in ombra la poesia del vaso di Pandora che avevamo scoperchiato.

Mi scostai un attimo dalla scrivania e ruotai con tutta la poltrona in direzione della finestra. La città brulicava in un fervore noncurante delle implicazioni della mia scoperta. Tutti erano intenti nei loro affari e le persone erano assiepate intorno alle bancarelle del mercato quasi per riscaldarsi vicendevolmente, mentre i primi leggeri fiocchi di neve si sparpagliavano timidi verso il suolo. Era una giornata fredda, molto fredda per la stagione ancora autunnale e il cielo lattiginoso e uniforme sembrava scendere sempre più in basso quasi volesse deporre con maggior attenzione la coltre bianca che i telegiornali preannunciavano da giorni.

Pensavo alla gente. Alla mia scoperta. Alle regole semplici su cui si basa il funzionamento del mondo. E sorridevo al pensiero di come la saggezza popolare avesse da sempre i detti buoni per spiegare l’essenza di tutto. Mi sarebbe piaciuto riempire i miei articoli scientifici di quei detti. Me ne venne in mente uno di quelli che si dicevano da ragazzi: “L’oseo non gà oci “. Non avrei nemmeno avuto il coraggio di tradurlo in un articolo, però, invece di parlare della dimensione in nanometri di questa o di quell’altra catena chimica legata alla mia scoperta, mi sarei sentito molto più bene a divagare sul perché la saggezza popolare, a volte, carpisce le verità molto prima della scienza.

La mente tornò indietro ad otto mesi prima. L’azienda farmaceutica per cui lavoravo come consulente aveva appena acquisito l’ultima meraviglia della tecnologia: il nanomicroscopio Willstar. Un investimento imponente che, nell’idea dell’amministratore delegato della società, doveva servire a rilanciare l’azienda, ormai in difficoltà, nella produzione di farmaci davvero innovativi. Il nanomicroscopio Willstar era comparso sul mercato solo un’anno e mezzo prima, fondeva in un unico oggetto costruito secondo l’uso delle più moderne nanotecnologie la potenza di un microscopio elettronico con la possibilità di farlo muovere liberamente all’interno del corpo umano in virtù delle sue dimensioni molecolari. Poteva esplorare ogni angolo dell’essere vivente fino ad arrivare dove nessun uomo era mai giunto prima. E da lì inviava le sue scansioni del micromondo dentro di noi. Era un po’ come vivere l’emozione di essere dentro il film Viaggio Allucinante, ahimè senza Rachel Welch vicino, ma con immagini tutte vere.

Il mondo scientifico si era gettato a capofitto nel suo utilizzo.  Il sogno di tutti era debellare finalmente la piaga del cancro. E infatti in pochi mesi i progressi nel settore oncologico erano stati portentosi. Ma, a quanto pare, nessuno scienziato era annoiato come me. Ricordo ancora bene la sera in cui facevo il mio turno all’uso del microscopio. Avrei dovuto seguire il rigido protocollo dell’azienda previsto dalla sperimentazione e invece guidai l’apparato microelettronico a zonzo a caso, dentro le cellule, quasi fosse un motoscafo perso nel Mare della Tranquillità.

Era stato un po’ come pilotare un ago in un pagliaio. Sequenze interminabili di tessuti, catene di aminoacidi diverse e per niente dissimili l’una dall’altra, strane forme di materia organica, che non sarei nemmeno riuscito a catalogare. E poi arrivai lì. Dentro il nucleolo di una cellula. E lo vidi. Stavo quasi per ripartire e tornare ad errare in giro. Poi capii.

Dentro a quella cellula, dentro ad ogni cellula del corpo umano, c’era una piccola struttura submicroscopica inconfondibile. Un minuscolo cervello. Organizzato come un cervello, molto molto simile, anche nelle sembianze, con il fratello maggiore dentro al nostro cranio.

Lì per lì mi era sembrata una cosa curiosa, buona per qualche frase d’effetto e qualche chiacchiera da bar, invero quasi insignificante. Ma poi tutto si manifestò piu chiaramente. Ogni cellula in ogni suo nucleolo aveva un “cervello” in miniatura e da lì partivano catene di molecole composite e infinitesime scariche elettriche che, in continuazione, andavano e venivano verso i piccoli “cervelli” delle cellule vicine.

Per due giorni di fila non ero riuscito a dormire. Troppo eccitato e troppo sconvolto per non rimanere lì con il mio motoscafo a sondare la nuova verità che,  per caso e noia, avevo portato a galla. Ogni cellula “pensa” e “dialoga” con le compagne intorno a lei.

In due giorni di veglia avevo scoperto il novanta per cento di tutto quello che oggi so, nove mesi dopo.

Lo riversai nel primo articolo scientifico, che, a dire il vero, all’inizio passò quasi inosservato. Fino a quando si fece vivo Mark Venture, uno scienziato australiano a cui devo gran parte della mia fama. Aveva arricchito la mia scoperta con una serie di importanti dettagli e in tutti i suoi articoli inseriva sempre, in testa, lunghi panegirici per celebrare la genialità delle mie scoperte.  Così efficaci che, leggendo i suoi testi, sembrava fossero opere mie anche le sue straordinarie osservazioni.

Gli devo molto. Non l’ho ancora conosciuto. Ma mi è così simpatico che mi piacerebbe incontrarlo davanti ad una birra. Così poi potrebbe finalmente iniziare il suo prossimo articolo con una frase molto più adatta a me come: “Grazie al fortunoso cazzeggio del mio amico Tony Furlan, un cazzone di prima categoria, finalmente sappiamo da qualche mese a questa parte che ogni cellula pensa, parla con le altre cellule e con il cervello centrale, si agita, vuole cose, ….”.

Mark ha scoperto che ogni cellula, oltre a parlare con le sue vicine, dialoga con il nostro cervello. Già. Proprio così. Ogni istante, miliardi di cellule inviano impulsi elettrici, una specie di sms del corpo, e spediscono catene molecolari codificate, delle specie di e-mail del corpo, e attendono le risposte.

E il cervello risponde ad ognuna di loro. Continuamente. Un gran casino!

Grazie all’opera di Mark e con l’impegno dei ricercatori che ora lavorano nel mio staff abbiamo iniziato ad interpretare il linguaggio delle cellule. Sono vere frasi. Periodi con soggetti, predicati, complementi oggetto e tutto quello che serve per far comunicare due cervelli autocoscienti. Le cellule, tra di loro, usano una specie di dialetto differente tra zona e zona del corpo umano. Qualcosa del tipo, il piede destro parla in veneto, il ginocchio in lumbard, l’ombelico in romanesco. Cose così. Invece, quando parlano con il cervello, usano tutte le stesse regole grammaticali e semantiche.

Ora che ho raggiunto la fama, i miei collaboratori lavorano, io scrivo articoli, cazzeggio, guardo fuori dalla finestra, penso a questa cosa del cervello che deve rispondere a miliardi di altri cervelli. Teste calde. Fannulloni. Sputasentenze. Scontenti. Entusiasti. Ansiosi. Sofferenti. Tutti legati tra loro solo dall’esigenza primaria di sopravvivere e clonarsi.

Il resto, la nostra mente, i nostri pensieri, i nostri progetti sono solo un’invenzione buffa della Natura. Un cervello grande per governarli tutti. Un cervello grande per mettere d’accordo tutte le miriadi di cervelli piccoli per evitare che disgreghino l’individuo. Credo sia stata la cosa più democristiana, forse l’unica cosa democristiana che la Natura abbia mai inventato in tutta la sua evoluzione.

L’articolo che sto scrivendo parla di emozioni, senza citarle. Leggendo l’articolo non si capisce cosa c’è dietro. Mi obbligano a parlare di questa o quell’altra sequenza di molecole che dalle cellule vengono inviate al cervello. Di quella lunga solo 5 Angstrom, di quell’altra stirata su un micrometro e quando succede questo allora scattano i fenomeni psichici.
La verità è molto più semplice. Basta che mezzo miliardo di cellule mandino al centro cerebrale lo stesso identico messaggio nello stesso momento e il nostro cervello va in pappe, si scatenano le emozioni e i ragionamenti non servono più a nulla. Diventiamo agglomerati di cellule che  tirano da una parte all’altra come cavalli. Un cervello grande fa grandi ragionamenti. Miliardi di piccolissimi cervelli fanno il tumulto esistenziale.

Chiusi gli occhi.
Ora che sapevo che esistevano, ora che li avevo visti scorrere nelle immagini colorate e fascinose del microscopio Willstar, mi pareva di sentirli tutti, mi pareva di averli sempre sentiti questi continui flussi informativi dal corpo al cervello e di nuovo al corpo e di nuovo al cervello che disperatamente soccombe sempre al tumulto delle emozioni. Il desiderio, l’amore, la rabbia, la felicità, la stanchezza, la noia. Flussi turbinosi di messaggi non più gestibili che la nostra mente può solo assecondare sotto forma di bisogni irrefrenabili della nostra anima. Il nostro io più profondo e atavico. Miliardi e miliardi di cellule, unite per il bene comune, portatrici dei bisogni più veri del loro esistere unicellulare.
Aprii gli occhi.

La neve ora cadeva fitta.

Un racconto dal passato

Girasoli

Oggi facciamo un piccolo salto nel passato. Era un tempo lontano in cui, ricordo con una certa nostalgia e tenerezza, amavo rallentare una parte delle mie giornate adolescenti all’ombra di tre tigli nel giardino di casa quando il frinire delle cicale si faceva assordante.
Trascorrevo le ore calde estive, passando dall’amaca, che si faceva sempre più molla fino a sfiorare il suolo, ad un tavolinetto da picnic, su cui immancabilmente troneggiava la macchina da scrivere.

La dinamica era sempre la solita. Mi distendevo sull’amaca, ondeggiavo un po’ facendomi ferire qua e là da qualche insidioso raggio solare che filtrava tra le fronde, e poi mi facevo prendere dalla nausea. Ho sempre sofferto di mal di mare. A quel tempo, poi, vomitavo anche in monopattino, e il nauseante ondeggiare dell’amaca era una specie di monito della vita come se ne trovano tanti, un vorrei dondolarmi ma non posso, per incominciare a prendere dimestichezza con le questioni chiave dell’esistenza. L’amaca dunque mi serviva solo per farmi illuminare da qualche idea e per fuggire subito sulla seggiolina di legno a ridosso del tavolino e incominciare a scrivere qualcosa.

Questo ricordo è ritornato vivo per una “coincidenza”. Qualche giorno fa leggevo un blog e ho trovato questo racconto, Il campo di girasoli. Il blog in questione lascia spazio a molte riflessioni, ad iniziare dalla didascalia del blog che da sola è un racconto che può lasciare il segno, per poi continuare con altri blog collegati come questo, dove la sensibilità di ognuno di noi può sbizzarrirsi su temi di cui io non son bravo a parlare.
L’idea del racconto “Il campo di girasoli” è bella e mi ha riportato alla memoria una vecchia storiella nata vicina a quell’amaca, sotto l’ala protettiva di quei tre vecchi tigli, immortalata poi da una macchina da scrivere in attesa che strumenti più flessibili e virtuali come i computer la rendessero quello che è: una manciata di minuti di un ragazzetto sognatore che giocava a fare lo scrittore di fantascienza. E qui di seguito trovate quel che rimane di quel gioco. Una costruzione Lego della fantasia libera di quel ragazzetto.

Racconto non datato scritto in prossimità degli anni ’80.

I GIRASOLI 

– Vedi, l’uomo ha una grandissima dote che è la fantasia- disse lo scrittore al suo amico- e fintanto che potrà godere di questo grande dono, uno scrittore di fantascienza avrà sempre del buon materiale per le sue opere.

        – Sarà …, sarà …, ma per me non potrete continuare a lungo a scrivere le vostre sciocchezze, ancora poco e la gente si stancherà di tutte queste idiozie- sentenziò l’ amico con aria di sufficienza.

        – Perchè poi, non capisco!-

        – Ma è semplice: vi gongolate in altri mondi, in astronavi supergiganti, in esseri mostruosi in situazioni paradossali, in invenzioni talmente fantastiche da essere fin puerili; no, caro mio, la fantascienza sta per morire, e con lei morirà anche il tuo nome. Verrò al tuo funerale, ti va?-

        – Proprio non ti andiamo a genio noi scrittori di fantascienza, vero!-

        – Fosse solo per voi, sarebbe niente. Sono le sciocchezze che scrivete che mi fanno imbestialire: sempre le solite idiozie targate futuro, futili ed inutili, a volte neanche scritte bene. Ne ho lette alcune per il passato, carine sì, originali anche, ma insipide, noiose, pericolosamente insignificanti. La Divina Commedia: ecco cosa val la pena di leggere; o Foscolo, Shakespeare, Leopardi; non certo Asimov, Brown, Moore Williams o altri della vostra stirpe.-

        – Ti confesserò che ho sempre considerato limitate e ottuse le persone che non riescono a comprendere la bellezza della fantascienza. Denota scarsa elasticità, poca predisposizione ad accettare le inevitabili conquiste del futuro e sopratutto indica una grave mancanza di fantasia e, in parte, anche di intelligenza! Quanto poi alla Divina Commedia io l’ho sempre considerata un grande poema di fantascienza, parto di una fantasia sfrenata. – la sua voce denotava un innegabile orgoglio.

        -Voi scrittori vivete tra le nuvole, e sparate idiozie a destra e a manca.- la voce dell’amico sembrava un po’ irritata. Si sentiva forse preso in giro- Vi alimentate delle baggianate che voi stessi scrivete.-

        – Beh, almeno noi siamo autosufficienti; crediamo nella scienza ed esploriamo in essa quello che gli scienziati non si sentono ancora di valutare e ci permettiamo di tentare modestamente l’ignoto senza pretesa alcuna. Ci divertiamo e divertiamo anche coloro che ci leggono. E tutto è bene quel che finisce bene!-

        – Solo che siete destinati a morire presto, come scrittori s’ intende!- la sua voce era di nuovo tranquilla; la discussione in fondo era sempre amichevole- Presto l’ originalità, che è la vostra unica arma, vi abbandonerà.-

        – Dici? – chiese con aria poco convinta- Ma fino ad allora avremo vita certa. –

        – Sino ad allora solo! Non certo di più- si sentiva un po’ crudele come amico.

        – Ma è proprio questo che cercavo di farti capire prima! L’ originalità non verrà mai meno, mai! L’ uomo sogna sempre, fantastica e crea dal nulla cose sempre nuove. Dammi un titolo e ti scrivo un racconto rapido rapido. Dammi il peggior titolo che ti viene in mente e ti dimostro che non è poi così difficile inventare qualcosa di originale.-

        – Okay, okay! Fiat voluntas tua! Vediamo un po’ … Il calendario. Ti va come titolo? No è troppo facile. Oh ecco I Girasoli; tiè, proprio perché mi sento buono! Scrivimi un racconto con titolo “I Girasoli”-

        – Contentissimo!- era veramente contento- Vieni con me nello studio, prendo la macchina, ci penso dieci minuti e poi ti scrivo questo racconto, breve però.-

        – Breve, lungo, largo, stretto, cosa vuoi che sia? Qui ti voglio.-

        Si avviarono nello studio e lo scrittore piombò in una silente meditazione. L’ amico lo disturbava con battute e risate, frutto della sua amichevole avversione.

        Mezz’ora dopo il racconto era terminato.

        – Ecco è pronto- disse lo scrittore con una certa soddisfazione- Tu lo leggi non voglio neanche sapere cosa ne pensi. Te lo regalo come ricordo, se lo vuoi, bene inteso. Quando hai finito me lo dici, che ce ne andiamo fuori subito a farci una birra. Okay? –

        – Okay! – e incominciò a leggere:

 “Come mai nessuno se ne era mai reso conto prima? Era un vero mistero. Come non accorgersi che gli dei esistevano davvero, che vivevano così vicino all’uomo? Gli dei dell’Olimpo erano stati il frutto dell’immaginativa degli antichi Greci, il Dio cristiano perse presto il suo carisma dopo quell’ultima insospettabile scoperta, così pure Allah e Budda vennero sopraffatti velocemente dall’evidenza degli Nuovi Dei.

        Anche di questi ultimi però era la colpa se non erano stati riconosciuti prima. Evidentemente avevano avuto le loro buone ragioni. Sì, doveva esser proprio così. Dovevano aver avuto le loro ragioni.

        Dapprima vi fu una generale incredulità, ma tutti poi si piegarono all’evidenza dei fatti. Fu un duro colpo in verità per tutta l’ umanità al di sopra dei sedici anni, segnò la crisi di tutte le loro credenze. Nessuno prima avrebbe potuto immaginare che gli unici veri Dei erano i girasoli. Anzi i Girasoli: era peccato ora non usare la maiuscola.
In molti rifiutarono di accettare questa nuova realtà. Morirono tutti: vi fu chi si suicidò, altri invece conobbero altre morti, incidenti soprattutto, strani, violenti incidenti.

        I Girasoli, proprio loro, erano gli Dei; era buffo, proprio buffo. La vita dell’uomo cambiò più di quanto fosse prevedibile; le scienze conobbero una lunga crisi; la fisica subì una vera e propria rivoluzione, ma non si riuscì più ad aggiustarla bene: sì, perché il primo ad ipotizzare l’idea che i Girasoli fossero gli Dei fu un biologo, il quale si accorse che non erano i Girasoli a girare il loro capolino verso il Sole, bensì era quest’ultimo a seguire i Loro moti.”

        L’amico piegò perplesso il racconto, lo mise solennemente in tasca senza pronunciar parola; i due si avvicinarono alla porta di casa, l’aprirono ed uscirono in silenzio, addentrandosi nella fitta nebbia di Padova.

Al bar della spiaggia

EstateCheSiChiude

Erano giorni strani quelli. Uscivo da una relazione complessa con una donna ancor più complicata. Mi aveva lasciato il sapore dell’amarezza e la sensazione nel cuore di non poter mai più sperimentare altrettanto coinvolgimento.
L’ennesimo insuccesso sentimentale della mia vita.

Non avrebbe dovuto essere così, ma quell’estate stava trascorrendo in compagnia della solitudine. Forse perché per me era l’unico modo possibile per andare avanti: ricordare piano il recente passato, per dimenticare.
Le giornate trascorrevano malinconicamente tra un bagno di sole, un bagno in acqua e la lettura. Al pomeriggio, nemmeno troppo tardi, salivo al bar in fondo alla spiaggia, con il mio libro, mi sedevo sul solito tavolo un po’ defilato dagli altri e mi gustavo lentamente un paio di aperitivi continuando a perdermi nella storia del romanzo.

Il primo giorno che venne la notai subito. Aveva un corpo perfetto, armonioso e proporzionato. L’abbronzatura uniforme, carica di caldi riflessi ambrati, esaltava il movimento continuo delle curve dei suoi lineamenti. Arrivava al bar con il suo passo elegante, arricchito da una gestualità continua, misurata e spontanea, circondata sempre da un gruppetto di bei ragazzoni prestanti.
Era affascinante vedere il modo con cui si rapportava con i suoi compagni. Con ognuno di loro nel dialogo, verbale e gestuale, esternava una familiarità e una disinvoltura che trasmettevano agio e affinità senza sfrontatezza.

Emanava dal suo essere quella serena giovialità di cui riescono a circondarsi solo quelle rare fortunate persone che sembrano aver trovato il bandolo buono della matassa della vita.
Veniva al bar tutti i pomeriggi e io facevo fatica a tenere il mio sguardo fisso sulle righe del libro. Sovente mi scoprivo a ricercare la sua immagine, per studiare le particolarità delle sue movenze, dei suoi sorrisi carichi di allegria. Mi sembrava di dover ricercare un tatuaggio lungo il suo corpo, perché la sua pelle limpida e rilucente, contrastava troppo per la sua perfezione rispetto ai corpi intorno a lei, tutti roboanti per le effigi variegate dei loro disegni. Ma i suoi costumi, spesso succinti, lasciavano spazio solo ad altra pelle liscia e levigata che si mostrava senza volgarità.

E un giorno, proprio mentre continuava a parlare con i suoi compagni, sorseggiando un bicchiere di prosecco, la vidi distintamente sorridere nella mia direzione. Fu un istante che mi sembrò durare a lungo, gli occhi puntati verso di me, le parole fluide che continuavano ad interloquire senza distrazioni con un paio dei suoi amici.
Un turbamento si ramificò lungo la mia schiena per riunirsi con un piccolo sussulto alla base dell’addome.

Passarono un paio di giorni, senza che si facesse vedere. Io leggevo. Talvolta alzavo la testa a scrutare gli avventori del locale, poi mi riimmergevo nella lettura dopo l’ennesimo tuffo delle labbra a sorseggiare la bibita del momento. Immaginavo, come spesso accade nel tardo periodo agostino, che per lei fosse arrivata la fine della sua vacanza.
Poi, invece, ritornò. Era sola. Si destreggiò con eleganza schivando i tavoli e venne nella mia direzione, un sorriso ammaliante le dipingeva il volto.

«Se mi offri un aperitivo, ti chiedo che libro stai leggendo. Anch’io adoro leggere.» – il suo fare disinvolto e il suo parlare limpido e morbido mi colsero di sorpresa più ancora dell’espressione carica di dolcezza che dipinse sul suo volto – «Piacere, mi chiamo Francesca! » – e mentre mi tendeva la mano, iniziò a fare il movimento per mettersi a sedere.

«… ti … offro volentieri … ma … ma … Mi chiamo Federica, piacere mio! » – credo di aver passato almeno cinque minuti buoni della nostra conversazione in cui l’unica cosa che riuscii a fare veramente bene fu balbettare. Ma poi, complice il suo atteggiamento sereno e colloquiale, l’atmosfera si sciolse velocemente.

Aveva occhi scuri e profondi che mi sorridevano. Vedendo il mio imbarazzo malcelato, allungò le sue mani a catturare la mia che vagava incerta e nervosa a fianco del libro. Erano calde di temperatura ed emozione. Accompagnò quel suo gesto con parole semplici, con un tono di voce basso, rassicurante e avvolgente.
Avrei presto scoperto che aveva anche un piccolo tatuaggio nascosto.