Il paese dimenticato

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Girovagando nel presente finisco talvolta in luoghi strani. Da un po’ di settimane a questa parte ogni tanto mi fermo la notte in un paese sperduto della pianura lombarda.

Ieri sera ho avuto le energie e l’ardire per andare a sondare la sua essenza notturna. Ci sono luoghi come questo, e credo molti altri, in cui le nozioni di tempo, di vita, di dinamismo dell’esistenza assumono una declinazione immutabile che porta con sé la fragilità del cristallo e il mistero dell’ignoto.

Complice il clima pungente, l’atmosfera umida vagamente nebbiosa e delle strane campane che suonavano “a morto”, addentrarsi nel piccolo centro storico di questo luogo alle dieci di sera è stato come tuffarsi in una dimensione romanzesca di altri tempi. E’ stato come entrare in un luogo tipico delle novelle di Stephen King, uno spazio che poteva essere stato già colonizzato da tempo dagli Ultracorpi di Don Siegel. Pochissime persone per la strada immerse nella fioca luce limacciosa accerchiata dall’umidità. Sguardi innaturalmente cordiali in uomini e donne non avezzi ad incontrare forestieri. Grandi spazi vuoti. E, intorno a questo vuoto, pochi locali gremitissimi. Gente animata in concitate discussioni dal piglio visibilmente cospiratore.

Nelle strade il vuoto, dentro i pochi locali, la folla di cittadini. Da zero a cento nello spazio di un uscio.

Questo paese ha una rocca. La Rocca. Un’altro luogo strano. Una corte aperta presidiata da gatti randagi dove non sarebbe sorprendente scoprire che i malcapitati avventori vengono sottoposti a qualche pratica esoterica per la loro trasformazione.

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Vaghi nel buio tra un angolo e l’altro, capisci di essere una specie di pagliuzza che si muove sulla superficie di un occhio ceruleo che cerca di allontanarti e alla fine rientri in albergo. Nonostante le sue stanze moderne, accoglienti e funzionali, il singultare sommesso del collegamento wireless ti fa capire che le priorità e le esigenze lì sono differenti.

E al risveglio, al primo mattino del giorno seguente, nella mente insiste l’assillante motivo musicale del Main Theme di Interstellar e ti senti proprio come nel film. Senti che hai passato una notte in un luogo dove il tempo scorre con una velocità diversa. Per te è passata solo una notte, ma per le persone a te care saranno sicuramente trascorsi dieci giorni di cui tu non saprai mai niente.

Un’indovina mi disse

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Più di un anno è passato.

Attraversavo frettolosamente una grande piazza della mia città. Ero in ritardo. L’avevo vista quando era ancora lontana, lei invece mi aveva sicuramente notato molto prima, quando eravamo davvero distanti l’uno dall’altra.
Perché avesse scelto proprio me in una piazza così gremita, rimane un mistero. Nella vita i misteri che incontriamo sono molti. Quelli che nemmeno riusciamo a percepire assai di più.

È strano. Ricordo ancora il suo viso. Nitido, collocato in un contesto dai contorni ormai sfocati dal tempo, ma straordinariamente vivido nella memoria.
Aveva occhi chiari, o forse solo molto luccicanti, lineamenti segnati dall’età, voce roca come si conviene all’animo zingaro che trapelava da tutto il suo essere. Si era avvicinata lentamente e al ridursi della nostra distanza non avevo provato nemmeno un barlume della solita sensazione di insofferenza che spesso mi assale quando uno zingaro mi si avvicina per chiedere qualcosa.

Aveva parlato a lungo, senza preamboli, raccontandomi storie. Storie della mia vita. Quasi come avesse vissuto  per mesi al mio fianco tutti i giorni.

Si era fermata un attimo per poi riprendere subito a spiegarmi che esistevano forze contrapposte tra loro che lottavano per l’accadimento di eventi a loro graditi.
E lì piazzò quella che mi era sembrata la fin troppo evidente richiesta di emolumenti. Nel suo racconto infatti vi era un’unica grande verità. Solo lei poteva intercedere per far vincere la forza a me più favorevole.

Non ho mai capito dalle sue parole, allora e nemmeno dopo ripercorrendole, a quali forze si stava riferendo, quali forze stessero sprecando il loro tempo a giocare con le insignificanti vicende della mia vita. Il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, o il fantasma dell’opera e il fantasma formaggino.

Abbiamo contrattato per un po’. Io sono partito da due euro fino ad arrivare a cinque. Lei è rimasta inamovibile nella sua tariffa iniziale di dieci euro.

Domanda e offerta non si sono mai incontrate quel giorno. E io non saprò mai se l’indovina aveva veramente il potere di influenzare le ipotetiche forze contrapposte di cui parlava.
Terminata la piccola insignificante diatriba sui cinque euro mancanti, aveva continuato serenamente con la voce tranquilla, raccomandandosi di non raccontare le sue rivelazioni. E continuò a parlare, questa volta, del futuro.

L’ultima sua profezia si è avverata qualche settimana fa. Niente di ché in realtà. Si parla di normali eventi della vita. Ma ogni singolo piccolo accadimento previsto dalle sue parole, in un anno e mezzo, si è avverato nei modi e nella sequenza da lei scandita.
Ora, per fortuna, non c’è più niente che si debba compiere.

Non l’ho più rivista. E, lo confesso, qualche volta ho sperato di incontrarla passando ancora per quella piazza.

Se nella vita vi imbatterete in un accadimento simile, ho un mio consiglio. Non badate ai cinque euro di distanza. Magari poi vi prenderete allegramente in giro da soli per la vostra creduloneria, o potrete sempre spiegare il vostro raggiro appellandovi all’abilità dell’arte zigana di trasformare le normali vicende della vita in abito che calza come un guanto su di voi, ma sicuramente non avrete occasione di ripensare all’eterno dilemma del What if.

L’uccello non ha occhi

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Quella che stavo correggendo era la stesura per la pubblicazione finale del tredicesimo articolo in sei mesi. Il quinto che curavo per la rivista scientifica Nature. La mia scoperta andava decisamente di moda.
Mentre leggevo quello che avevo scritto, una certa noia si faceva avanti. Il tema era sempre affascinante, ricco di infiniti risvolti, ma il lento e macchinoso rigore della terminologia tecnica metteva invariabilmente in ombra la poesia del vaso di Pandora che avevamo scoperchiato.

Mi scostai un attimo dalla scrivania e ruotai con tutta la poltrona in direzione della finestra. La città brulicava in un fervore noncurante delle implicazioni della mia scoperta. Tutti erano intenti nei loro affari e le persone erano assiepate intorno alle bancarelle del mercato quasi per riscaldarsi vicendevolmente, mentre i primi leggeri fiocchi di neve si sparpagliavano timidi verso il suolo. Era una giornata fredda, molto fredda per la stagione ancora autunnale e il cielo lattiginoso e uniforme sembrava scendere sempre più in basso quasi volesse deporre con maggior attenzione la coltre bianca che i telegiornali preannunciavano da giorni.

Pensavo alla gente. Alla mia scoperta. Alle regole semplici su cui si basa il funzionamento del mondo. E sorridevo al pensiero di come la saggezza popolare avesse da sempre i detti buoni per spiegare l’essenza di tutto. Mi sarebbe piaciuto riempire i miei articoli scientifici di quei detti. Me ne venne in mente uno di quelli che si dicevano da ragazzi: “L’oseo non gà oci “. Non avrei nemmeno avuto il coraggio di tradurlo in un articolo, però, invece di parlare della dimensione in nanometri di questa o di quell’altra catena chimica legata alla mia scoperta, mi sarei sentito molto più bene a divagare sul perché la saggezza popolare, a volte, carpisce le verità molto prima della scienza.

La mente tornò indietro ad otto mesi prima. L’azienda farmaceutica per cui lavoravo come consulente aveva appena acquisito l’ultima meraviglia della tecnologia: il nanomicroscopio Willstar. Un investimento imponente che, nell’idea dell’amministratore delegato della società, doveva servire a rilanciare l’azienda, ormai in difficoltà, nella produzione di farmaci davvero innovativi. Il nanomicroscopio Willstar era comparso sul mercato solo un’anno e mezzo prima, fondeva in un unico oggetto costruito secondo l’uso delle più moderne nanotecnologie la potenza di un microscopio elettronico con la possibilità di farlo muovere liberamente all’interno del corpo umano in virtù delle sue dimensioni molecolari. Poteva esplorare ogni angolo dell’essere vivente fino ad arrivare dove nessun uomo era mai giunto prima. E da lì inviava le sue scansioni del micromondo dentro di noi. Era un po’ come vivere l’emozione di essere dentro il film Viaggio Allucinante, ahimè senza Rachel Welch vicino, ma con immagini tutte vere.

Il mondo scientifico si era gettato a capofitto nel suo utilizzo.  Il sogno di tutti era debellare finalmente la piaga del cancro. E infatti in pochi mesi i progressi nel settore oncologico erano stati portentosi. Ma, a quanto pare, nessuno scienziato era annoiato come me. Ricordo ancora bene la sera in cui facevo il mio turno all’uso del microscopio. Avrei dovuto seguire il rigido protocollo dell’azienda previsto dalla sperimentazione e invece guidai l’apparato microelettronico a zonzo a caso, dentro le cellule, quasi fosse un motoscafo perso nel Mare della Tranquillità.

Era stato un po’ come pilotare un ago in un pagliaio. Sequenze interminabili di tessuti, catene di aminoacidi diverse e per niente dissimili l’una dall’altra, strane forme di materia organica, che non sarei nemmeno riuscito a catalogare. E poi arrivai lì. Dentro il nucleolo di una cellula. E lo vidi. Stavo quasi per ripartire e tornare ad errare in giro. Poi capii.

Dentro a quella cellula, dentro ad ogni cellula del corpo umano, c’era una piccola struttura submicroscopica inconfondibile. Un minuscolo cervello. Organizzato come un cervello, molto molto simile, anche nelle sembianze, con il fratello maggiore dentro al nostro cranio.

Lì per lì mi era sembrata una cosa curiosa, buona per qualche frase d’effetto e qualche chiacchiera da bar, invero quasi insignificante. Ma poi tutto si manifestò piu chiaramente. Ogni cellula in ogni suo nucleolo aveva un “cervello” in miniatura e da lì partivano catene di molecole composite e infinitesime scariche elettriche che, in continuazione, andavano e venivano verso i piccoli “cervelli” delle cellule vicine.

Per due giorni di fila non ero riuscito a dormire. Troppo eccitato e troppo sconvolto per non rimanere lì con il mio motoscafo a sondare la nuova verità che,  per caso e noia, avevo portato a galla. Ogni cellula “pensa” e “dialoga” con le compagne intorno a lei.

In due giorni di veglia avevo scoperto il novanta per cento di tutto quello che oggi so, nove mesi dopo.

Lo riversai nel primo articolo scientifico, che, a dire il vero, all’inizio passò quasi inosservato. Fino a quando si fece vivo Mark Venture, uno scienziato australiano a cui devo gran parte della mia fama. Aveva arricchito la mia scoperta con una serie di importanti dettagli e in tutti i suoi articoli inseriva sempre, in testa, lunghi panegirici per celebrare la genialità delle mie scoperte.  Così efficaci che, leggendo i suoi testi, sembrava fossero opere mie anche le sue straordinarie osservazioni.

Gli devo molto. Non l’ho ancora conosciuto. Ma mi è così simpatico che mi piacerebbe incontrarlo davanti ad una birra. Così poi potrebbe finalmente iniziare il suo prossimo articolo con una frase molto più adatta a me come: “Grazie al fortunoso cazzeggio del mio amico Tony Furlan, un cazzone di prima categoria, finalmente sappiamo da qualche mese a questa parte che ogni cellula pensa, parla con le altre cellule e con il cervello centrale, si agita, vuole cose, ….”.

Mark ha scoperto che ogni cellula, oltre a parlare con le sue vicine, dialoga con il nostro cervello. Già. Proprio così. Ogni istante, miliardi di cellule inviano impulsi elettrici, una specie di sms del corpo, e spediscono catene molecolari codificate, delle specie di e-mail del corpo, e attendono le risposte.

E il cervello risponde ad ognuna di loro. Continuamente. Un gran casino!

Grazie all’opera di Mark e con l’impegno dei ricercatori che ora lavorano nel mio staff abbiamo iniziato ad interpretare il linguaggio delle cellule. Sono vere frasi. Periodi con soggetti, predicati, complementi oggetto e tutto quello che serve per far comunicare due cervelli autocoscienti. Le cellule, tra di loro, usano una specie di dialetto differente tra zona e zona del corpo umano. Qualcosa del tipo, il piede destro parla in veneto, il ginocchio in lumbard, l’ombelico in romanesco. Cose così. Invece, quando parlano con il cervello, usano tutte le stesse regole grammaticali e semantiche.

Ora che ho raggiunto la fama, i miei collaboratori lavorano, io scrivo articoli, cazzeggio, guardo fuori dalla finestra, penso a questa cosa del cervello che deve rispondere a miliardi di altri cervelli. Teste calde. Fannulloni. Sputasentenze. Scontenti. Entusiasti. Ansiosi. Sofferenti. Tutti legati tra loro solo dall’esigenza primaria di sopravvivere e clonarsi.

Il resto, la nostra mente, i nostri pensieri, i nostri progetti sono solo un’invenzione buffa della Natura. Un cervello grande per governarli tutti. Un cervello grande per mettere d’accordo tutte le miriadi di cervelli piccoli per evitare che disgreghino l’individuo. Credo sia stata la cosa più democristiana, forse l’unica cosa democristiana che la Natura abbia mai inventato in tutta la sua evoluzione.

L’articolo che sto scrivendo parla di emozioni, senza citarle. Leggendo l’articolo non si capisce cosa c’è dietro. Mi obbligano a parlare di questa o quell’altra sequenza di molecole che dalle cellule vengono inviate al cervello. Di quella lunga solo 5 Angstrom, di quell’altra stirata su un micrometro e quando succede questo allora scattano i fenomeni psichici.
La verità è molto più semplice. Basta che mezzo miliardo di cellule mandino al centro cerebrale lo stesso identico messaggio nello stesso momento e il nostro cervello va in pappe, si scatenano le emozioni e i ragionamenti non servono più a nulla. Diventiamo agglomerati di cellule che  tirano da una parte all’altra come cavalli. Un cervello grande fa grandi ragionamenti. Miliardi di piccolissimi cervelli fanno il tumulto esistenziale.

Chiusi gli occhi.
Ora che sapevo che esistevano, ora che li avevo visti scorrere nelle immagini colorate e fascinose del microscopio Willstar, mi pareva di sentirli tutti, mi pareva di averli sempre sentiti questi continui flussi informativi dal corpo al cervello e di nuovo al corpo e di nuovo al cervello che disperatamente soccombe sempre al tumulto delle emozioni. Il desiderio, l’amore, la rabbia, la felicità, la stanchezza, la noia. Flussi turbinosi di messaggi non più gestibili che la nostra mente può solo assecondare sotto forma di bisogni irrefrenabili della nostra anima. Il nostro io più profondo e atavico. Miliardi e miliardi di cellule, unite per il bene comune, portatrici dei bisogni più veri del loro esistere unicellulare.
Aprii gli occhi.

La neve ora cadeva fitta.

La speranza della cartella

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«Ma non si era detto che in questo blog non si sarebbe mai parlato di politica?»
«Eravamo d’accordo così? Davvero? Sai che non mi ricordo proprio.»
«Ne sono stra-sicuro. Quando ci siamo trovati e abbiamo iniziato a scrivere le nostre sciocchezze, avevamo detto: “Parliamo di tutto, ma non di politica.” E mi sa che ci siamo anche stretti la mano in segno di compiaciuta condivisione. E adesso? Li sento sai i tuoi pensieri che ti tradiscono! Li sento molto bene! »
«Ahhh, va bene! Se ne sei sicuro, facciamo così come dici. Niente politica!»

………

Dunque, dovete sapere che qualche hanno fa ho avuto la fortuna di poter accedere ad una delle grandi concessioni del passato. Il TFR. E non dovete credere che io abbia vissuto quel momento senza avere ben chiaro di essere un privilegiato, senza che mi sentissi profondamente un fortunato lavoratore dei tempi delle garanzie. Quelli che prenderanno il TFR, così come presto, quelli che prenderanno una pensione, saranno sempre più simili agli animali in via di estinzione. Una specie di dinosauri, con la piccola differenza che dopo centomila anni nessuno si preoccuperà mai di fare,  per mostrarlo in un museo ai bambini, il rendering di un uomo che sta per fruire del suo TFR. I dinosauri e l’Uomo di Neanderthal sono stati fortunati, hanno segnato la storia e ancora oggi c’è chi si preoccupa di sapere che aspetto potessero avere. L’Uomo del TFR, invece, non susciterà di sicuro l’interesse degli archeologi del futuro.

Bene. Il pensiero di quanto privilegiato io sia stato nel passato aveva già occupato l’angolo del dimenticatoio che gli spettava (anche perché da buon semi disoccupato, il TFR si è naturalmente essiccato molto velocemente), quando un paio di settimane fa il ricordo è riaffiorato. Nella vita leggo troppo poco, ma quando leggo, lo faccio sempre con grande attenzione. E, preferendo alla lettura di un bel romanzo, quella di questa lettera che mi era arrivata con tutte le raccomandazioni del caso, devo dire la verità, sono rimasto veramente sorpreso. C’era vera poesia in quelle parole. Magari ad una prima lettura frettolosa sarebbero potute sembrare asciutte e fredde, ma dietro a quelle sillabe unite tra di loro c’era molto di più. C’era una cura meticolosa nel raccontare con dolcezza che quando ti arrivano dei soldi devi sentirti fortunato, se poi te li danno con una tassazione ridotta devi gioire ancor di più perché non fa nemmeno cumulo con gli altri tuoi redditi, ma la verità più profonda nascosta tra le righe è che non devi preoccuparti mai di niente, perché chi si trattiene il dovuto per conto dello stato, non è tenuto neanche a fare i conti giusti, perché sei in buone mani e il lieto fine è sempre garantito.

Ed infatti, ecco che compare magicamente tra le righe della lettera una specie di Superman senza macchia e senza paura che finalmente riuscirà a fare il calcolo definitivo che ovviamente tiene conto di tutto quello che hai fatto nella vita per lo Stato. Nello spazio di poche parole l’eroe ti dà certezze e fa passare in secondo piano il fatto che il calcolo definitivo dice che dovrai adoperarti in futuri pesanti versamenti.

Qualche giorno fa, passavo in autostrada all’altezza della deviazione per il casello di Desenzano. Più o meno a metà del tragitto tra casa e ufficio. Lì sono stato  assalito dalla consapevolezza che da allora in poi sarei dovuto passare altre sessanta volte davanti a quella deviazione per poter racimolare tutti i soldi per quei versamenti. Non per comprarmi un vestito, una camicia o una maglietta. Non per comprare un mazzo di fiori per una ipotetica donzella (non temete ragazze, non mettetevi in coda, non sarebbe comunque successo 🙂 ).  Passerò lì davanti sessanta volte per aver osato prendere un TFR quattro anni fa, senza accantonarne il cinquanta per cento per il trionfale arrivo di Superman. Anche perché io faccio parte di quella larga maggioranza di persone che pensano: “Se c’è da pagare qualcosa, la si paga. Punto.”.

Sembra incredibile ma di tutta questa vicenda mi è rimasta una semplice, grande speranza. Sì, per carità, mi piacerebbe molto se quei soldi, che già ho iniziato a pagare, servissero per qualche pensione, o per pagare qualche lavoratore pubblico. Magari uno dei tanti frequentatori di questo mondo blog. Mi farebbe davvero, sinceramente, molto piacere.
Non nascondo che sarei comunque contento anche se alla fine quei soldi fossero utilizzati per far del bene a qualcuno con una operazione di chirurgia estetica passata dalla mutua per invertire le unghie degli alluci con quelle dei pollici rovinate dall’uso del detersivo per i piatti.

Però lasciatemi fare un passaggio veloce nel terreno fertile del Politically Scorrect. La mia speranza più vera sarebbe quella di vedere quei soldi finire direttamente ad uno di quei funzionari dello Stato che sono chiamati a decidere dei prelievi sui redditi delle persone. L’ideale sarebbe uno di quei funzionari che sono stati messi al loro posto da qualche politico di turno quindici anni fa, e continuano ad essere al loro posto, nonostante il loro politico protettore sia già caduto in disgrazia.

Ma, neanche a dirlo, quando io spero, spero le cose proprio in grande, e non mi va bene che il mio versamento finisca nello stipendio di uno qualsiasi di quei funzionari. No. Ne voglio uno ben preciso. Voglio che i soldi vadano a quel tecnico del fisco, quello bravo che ha imparato ad impilare i barili, per essere sicuro che quando ha finito di raschiare un fondo, è già pronto per raschiarne un’altro all’occorrenza. Proprio quello che, quando il politico di turno, gli chiederà la prossima volta:
«Abbiamo bisogno di recuperare mille miliardi nei prossimi sei mesi.» Lui si girerà con la solita tranquillità e inizierà a pensare a quale annata di TFR o di buonuscite dei licenziamenti gli potrebbe rendere di più. Ma poi improvvisamente sarà colto da un’illuminazione geniale, tipo quella che mi ha preso passando all’altezza del casello di Desenzano. Rimarrà immobile cinque secondi e poi si girerà indietro verso il suo politico interlocutore e gli dirà con la stessa decisione e dolcezza della lettera che mi hanno spedito:

«Ma voi? Che cazzo ci dovete fare con tutti ‘sti soldi?»