I due generi

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A volte mi assale la certezza che a questo mondo le persone si dividano in due grandi gruppi. Una divisione pressoché assoluta, epocale, come la divisione tra il genere maschile e quello femminile.
Esistono persone per le quali l’esistenza si assesta senza scossoni, le giornate si susseguono senza perturbazioni significative, trovando una logica compiuta nel lento evolvere degli eventi quotidiani, delle relazioni stabili, dell’accettazione, non sempre serena, ma profondamente chiara che l’oggi è qui e il domani arriverà. Nessun mulino a vento da sconfiggere, nessun acuto da sfornare dal forno della propria vita.
E, dall’altro lato, ci sono persone che non trovano mai il luogo buono, la situazione perfetta in cui essere se stessi. Ogni episodio, per quanto positivo e sorridente, ha sempre un lontano retrogusto di incompletezza. Porta con se il presagio che presto anche quel momento lascerà il posto ad un qualche cambiamento che lo negherà.
Non mi è dato ancora sapere se questo secondo gruppo di persone sia destinato comunque a trovare, nel corso della sua esistenza, l’habitat finale che gli farà pensare: “Ecco, sono qui. Alla fine sono arrivato anch’io. La mia Ultima Spiaggia è qui e valeva la pena vagare a lungo per fermarsi a guardare l’Oceano da questo punto”. O se invece la ricerca non ammette soste.
So però che come non esiste un genere migliore dell’altro, così anche non esiste una vera supremazia tra chi fa uso continuo della stabilità e chi non sa nemmeno quale sapore possa avere. Un uomo non è migliore di una donna, e chi è arrivato non è migliore di chi è sempre in viaggio.
E credo anche di sapere che, negli anni, si stia concretizzando una lenta migrazione da un lato all’altro del crepaccio che ci divide.
Siamo il popolo migratore della felicità incompleta.

L’aria frizzante della foto

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A volte scatto una foto e sono assalito da una sensazione fortissima, come se in quell’immagine si nascondesse una sfumatura importante della mia vita che fino ad allora mi era sempre sfuggita. Cerco e ricerco a distanza di tempo e scopro che il momento che vuol rivelarsi non si nasconde tra i pixel ma dentro me stesso.

Il difetto del mangiare vegan

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Quando ero ragazzetto imperversavano i cartoni di Goldrake. La novità della cultura orientale che furbescamente si infiltrava nelle nostre vite sotto forma di originali storielle colpiva nel profondo la nostra fantasia. Erano bei tempi, belli almeno come questi tempi moderni, conditi in più con la poesia del non sentire la mancanza di qualcosa ogni volta che si usciva di casa con le tasche completamente vuote prive di qualsiasi strumento di connessione multimediale.
A quel tempo c’eravamo noi onnivori, quelli a cui piacevano le ragazze carine magre magre e le ragazze carine un po’ più curvilinee. A quel tempo il mondo era diviso in due grandi categorie: le persone “normali” (dove per normali si intende normalmente pazze che non disdegnano ogni tanto una bistecca) e i vegetariani. I vegetariani erano pochi e sparuti, avevano una delicatezza d’animo particolare, erano difficili da scovare e le loro convinzioni alimentari erano così radicalmente naturali che non esisteva nessun business dietro al loro esistere.
Il mondo è cambiato molto in questi ultimi anni. Nel film Notting Hill facevano ridere i passaggi di una cena con cui gli amici cercavano di appioppare al protagonista una ragazza “fruitarian“,  oggi se ci troviamo in una situazione colloquiale con qualcuno dichiaratamente vegano, magari in un pranzo di lavoro oppure in un banchetto su facebook, dobbiamo sapientemente dosare le parole. Perché oggigiorno ci sono delle mode che vanno molto al di là dei principi straordinari che le hanno generate.
Avere un cane o un gatto oggi vale molto di più di un tempo, perché oggi ne puoi postare le foto simpatiche e affettuose su fb o su instagram e così tieni sotto scacco affettivo il tuo mondo virtuale con il messaggio subliminale “Sì, lascia perdere ogni sbavatura, trattami sempre bene! Perché lo vedi qua chi c’è con me, quale straordinario tenero essere carico di attenzioni per me. Io e lui siamo perfetti. Abbiamo un’intesa fantastica e non abbiamo nemmeno bisogno di parlarci”.
E allo stesso modo un tempo c’erano pochi vegetariani, genuini e sereni, mentre oggi invece, in certi giorni, ci si sente quasi accerchiati dai vegani. Perché quella vegana, per qualcuno di loro, è quasi una religione.
E io sono combattuto. Capisco i principi, li condivido, anche se sono cosciente che condividere senza praticare agli occhi vegani vale zero. E in più, lo confesso, adoro molto alcuni mangimi vegan. Ho solo il difetto che ci sono dei momenti della vita in cui l’unica cosa che mi può far sentire bene è una pietanza color fiorentina.
Ecco perché non potrò mai aderire a questa moda dilagante.
Le mode non nascono mai dal nulla. L’uomo ha la caratteristica di rispondere in massa solo seguendo meccanismi semplici. Non so quali siano in questo caso, ma diffido sempre quando una moltitudine di persone sembra agire spinta solo dalla forza del “principio sano e caritatevole”. Se così fosse ci sarebbero le guerre, le liti tra le persone, l’anteposizione degli animali all’uomo?
Non so cosa muova tutta questa crescita vegana. Non so se dietro ad essa si nasconda solo una maggiore coscienza dell’Umanità finalmente più attenta alla Natura, non so se a spingere ci sia l’uso generalizzato del sano principio per ottenere un dimagrimento efficace là dove tutte le altre diete avevano fallito prima,  non so se nuove forme di business premano per rendere stra-redditizie le tecniche basate sugli albori preistorici delle comunità agricole umane.

Però so una cosa. L’unico vero difetto che sono riuscito a trovare in questo movimento in espansione, mi è chiarissimo. I Vegani erano gli antagonisti di Goldrake, un grande eroe dell’ingenuo passato, ed è veramente difficile ignorare l’imprinting adolescenziale.

Il mio regno

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A volte alziamo gli occhi al cielo e osserviamo uno spettacolo incantevole mai visto prima. Una luce soprannaturale sembra portare la gioia, mentre riflessi incantati sorprendono per la loro poesia. E desideriamo rimanere a lungo in contemplazione di quella luce.
Poi abbassiamo lo sguardo e vediamo la palude ombrosa della nostra esistenza dalla quale ci sembra di non poter mai uscire. Non siamo abbastanza speciali. Non siamo abbastanza fortunati per poter ambire ad un limpido futuro. Quegli spazi oscuri ci circondano e ci sembra di poterli toccare, quasi per tenerli stretti a noi, perché lì, nell’ombra di sempre, il nostro io si mimetizza senza l’ansia di fallire.
Alziamo ancora lo sguardo verso quella luce. Si fa strada un pizzico di sconsolata invidia per coloro che stabilmente abitano quella luminosa certezza. Essa non offre il fianco alla monotonia. Riabbassiamo gli occhi verso l’oscurità. La percepiamo quasi fosse il nostro habitat naturale. Ma, anche in quel momento, proviamo vera invidia per chi riesce ad abitare le nostre consuete ombre senza mai porsi il dubbio sull’esistenza della luce.

Guardo in alto. La luce è limpida e lontanissima. La lascio brillare. Faccio scendere lentamente la vista fino agli angoli più nascosti, carichi di nebulose certezze, quelli dove dolore e ignoranza si confondono nel buio. Tra i due estremi che non mi appartengono c’è un mondo smisurato e incolmabile, il mio mondo. Questo è il regno dei chiaroscuri.

La doppia striscia continua

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Negli ultimi quindici anni credo di aver cambiato vita almeno tre volte. E non è da escludere che prossimamente il corso degli eventi si modificherà ancora. Chi pensa, come a tratti ho fatto io stesso, che la propria vita sia saldamente inserita in binari stabili io credo debba essere molto prudente in queste sue convinzioni.

La meccanicità dell’esistenza e il suo esatto opposto, la turbinosa vorticosità, sono sempre in agguato ed entrambe possono scatenarsi devastando ogni certezza, scombinando ogni inamovibile piano.
In un batter d’occhio.

Quando si è giovani ti fanno credere (o semplicemente speri), che con il tempo diventerai maturo, che tutto ti sarà chiaro, che lo sviluppo della tua vita sarà lineare e molto soddisfacente. Eppure non è così. E’ brutto da dire. Ma non è così.

La vita rimane un’avventura meravigliosa, più straordinaria di qualsiasi nostro sogno, ma il titolo di questo articoletto non è “La vita è un viaggio pazzesco!” e quindi, per oggi, non parliamo di quanto mozzafiato essa sia nella sua essenza e ci limitiamo ad esplorare cosa ci aspettavamo dovesse accadere e non è stato.

La “maturità”, a mio avviso, è un termine coniato per indicare uno stato dell’animo umano che non può esistere. E’ solo un’aspirazione. La convinzione che prima o poi sia inevitabile incontrare nel nostro percorso un luogo che simboleggi l’El Dorado della Saggezza. Un luogo in cui fermarsi appagati e sereni per aver raggiunto il nostro equilibrio. Illusioni.

Quando l’esistenza ti porta a cambiare vita, però, lo capisci bene che questa aspirazione alla maturità, alla tranquilla accettazione del tuo status adulto, è una chimera che non può essere raggiunta. Un’altro tassello inserito nel nostro DNA per non farci mai mollare la presa.
Infatti, per tutta riprova di questo anelare senza raggiungere, quello del cambiamento è il momento in cui ti assalgono pensieri quasi fanciulleschi. Più adolescenti della tua stessa gioventù. Segnali chiari che la maturità, ammesso esista, si manifesterà secondo schemi sorprendenti ancora molto lontani dall’essere sperimentati.

Nell’imminenza di questo nuovo cambiamento di rotta della mia vita mi sono chiesto più volte quale possa essere stata la conquista più significativa dell’età che avanza, quale sia stato il risultato più inaspettato della mia sempre limitata crescita. E’ brutto quando ad una domanda che riguarda noi stessi si fa fatica a rispondere qualcosa di sensato. Niente di eclatante, niente di cui essere veramente fieri, nessuna conquista che ti faccia dire: “Cazzo, ecco cosa voleva dire crescere!”.
Possibile?

Non amo per niente non trovare risposte. E così, pensa e ripensa, introspezione dopo introspezione, ho trovato un segnale chiaro di cosa è cambiato profondamente dentro di me negli ultimi quindici anni.
Ascoltavo in viaggio la lettura di un libro che parlava di intelligenza emotiva. Si disquisiva dell’amigdala e di altre funzioni cerebrali preposte alla gestione di alcune emozioni. E spiegava alcuni meccanismi sviluppati dal nostro io atavico per proteggere la nostra esistenza.

Mentre ascoltavo la lettura, percorrendo la strada, a tratti incontravo una doppia linea continua che mi invitava a non oltrepassare la mia carreggiata.
Ho intuito similitudini con quello che stavo ascoltando. Il meccanismo che funziona è sempre quello. Che sia il nostro stesso cervello che ci mette in guardia con i suoi automatismi, che sia una strada che ci divide regolamentando la nostra appartenenza ad una direzione, che sia un familiare che ci raccomanda cosa dovremmo fare della nostra vita, che sia un prete che nella confessione ci rende monito del giusto comportamento che dobbiamo seguire per obbedire alle Leggi, che sia un superiore che traccia cosa possiamo o non possiamo fare della nostra professionalità, che sia un telegiornale che invariabilmente racconta solo la notizia chiave delle ultime settimane ignorando ogni altro accadimento importante della contemporaneità, che sia la società che trasforma una vuota consuetudine in un dogma così radicato da mettere in crisi la libertà anche delle menti più aperte, che sia … . La nostra vita è circondata da vincoli preconfezionati. E’ uno stretto pertugio delimitato da tutte le parti da doppie linee continue che abbracciano il nostro spazio di azione in una morsa da cui è vano divincolarsi.

E il meccanismo è davvero sempre quello. Qualcuno progetta quale punto del tuo percorso debba essere segnato con la doppia striscia continua e spesso qualcun altro mette fuori il segnale “lavori in corso” e si industria con calma e precisione a tracciare con la vernice bianca quelle due linee che sicuramente ti salveranno la vita se non ti fai prendere dalla stanchezza dell’esistere.

Quando sei giovane, quelle due linee hanno un significato preciso. Ti insegnano la direzione. E talvolta, se occorre, le attraversi pure, ma quando lo fai, il motivo che ti spinge a farlo non è di certo perché le hai guardate bene. Le attraversi perché la trasgressione è la stereotipata affermazione dell’essere giovani.

Ora è diverso.
Quando sono per strada o mentre dialogo con una persona o quando rifletto tra me e me o quando subisco qualche sermone e mi imbatto in uno qualsiasi di questi segnali ho una percezione articolata di quello che rappresenta, lo vedo distintamente nella sua essenza: solo due strisce dello spessore di un decimo di millimetro di vernice bianca, nulla di più. Immagino il progettista che le ha inventate, penso alla raffazzonata semplicità che voleva trasmettere con il suo editto limitante, completamente ignaro di quando e in che contesto io ci sarei arrivato a ridosso. Penso all’operaio che le ha diligentemente tracciate. Non sento nessun impulso ad attraversarle, nessuno stimolo preconcetto a rimanere da questa parte e nessun senso di colpa o di trasgressione, volendo, ad ignorarne completamente la presenza.

Non so se tutto ciò abbia a che fare con la maturità, ma altro non sono riuscito a trovare dentro me stesso di veramente nuovo rispetto a vent’anni fa.

Il paese dimenticato

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Girovagando nel presente finisco talvolta in luoghi strani. Da un po’ di settimane a questa parte ogni tanto mi fermo la notte in un paese sperduto della pianura lombarda.

Ieri sera ho avuto le energie e l’ardire per andare a sondare la sua essenza notturna. Ci sono luoghi come questo, e credo molti altri, in cui le nozioni di tempo, di vita, di dinamismo dell’esistenza assumono una declinazione immutabile che porta con sé la fragilità del cristallo e il mistero dell’ignoto.

Complice il clima pungente, l’atmosfera umida vagamente nebbiosa e delle strane campane che suonavano “a morto”, addentrarsi nel piccolo centro storico di questo luogo alle dieci di sera è stato come tuffarsi in una dimensione romanzesca di altri tempi. E’ stato come entrare in un luogo tipico delle novelle di Stephen King, uno spazio che poteva essere stato già colonizzato da tempo dagli Ultracorpi di Don Siegel. Pochissime persone per la strada immerse nella fioca luce limacciosa accerchiata dall’umidità. Sguardi innaturalmente cordiali in uomini e donne non avezzi ad incontrare forestieri. Grandi spazi vuoti. E, intorno a questo vuoto, pochi locali gremitissimi. Gente animata in concitate discussioni dal piglio visibilmente cospiratore.

Nelle strade il vuoto, dentro i pochi locali, la folla di cittadini. Da zero a cento nello spazio di un uscio.

Questo paese ha una rocca. La Rocca. Un’altro luogo strano. Una corte aperta presidiata da gatti randagi dove non sarebbe sorprendente scoprire che i malcapitati avventori vengono sottoposti a qualche pratica esoterica per la loro trasformazione.

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Vaghi nel buio tra un angolo e l’altro, capisci di essere una specie di pagliuzza che si muove sulla superficie di un occhio ceruleo che cerca di allontanarti e alla fine rientri in albergo. Nonostante le sue stanze moderne, accoglienti e funzionali, il singultare sommesso del collegamento wireless ti fa capire che le priorità e le esigenze lì sono differenti.

E al risveglio, al primo mattino del giorno seguente, nella mente insiste l’assillante motivo musicale del Main Theme di Interstellar e ti senti proprio come nel film. Senti che hai passato una notte in un luogo dove il tempo scorre con una velocità diversa. Per te è passata solo una notte, ma per le persone a te care saranno sicuramente trascorsi dieci giorni di cui tu non saprai mai niente.

Un’indovina mi disse

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Più di un anno è passato.

Attraversavo frettolosamente una grande piazza della mia città. Ero in ritardo. L’avevo vista quando era ancora lontana, lei invece mi aveva sicuramente notato molto prima, quando eravamo davvero distanti l’uno dall’altra.
Perché avesse scelto proprio me in una piazza così gremita, rimane un mistero. Nella vita i misteri che incontriamo sono molti. Quelli che nemmeno riusciamo a percepire assai di più.

È strano. Ricordo ancora il suo viso. Nitido, collocato in un contesto dai contorni ormai sfocati dal tempo, ma straordinariamente vivido nella memoria.
Aveva occhi chiari, o forse solo molto luccicanti, lineamenti segnati dall’età, voce roca come si conviene all’animo zingaro che trapelava da tutto il suo essere. Si era avvicinata lentamente e al ridursi della nostra distanza non avevo provato nemmeno un barlume della solita sensazione di insofferenza che spesso mi assale quando uno zingaro mi si avvicina per chiedere qualcosa.

Aveva parlato a lungo, senza preamboli, raccontandomi storie. Storie della mia vita. Quasi come avesse vissuto  per mesi al mio fianco tutti i giorni.

Si era fermata un attimo per poi riprendere subito a spiegarmi che esistevano forze contrapposte tra loro che lottavano per l’accadimento di eventi a loro graditi.
E lì piazzò quella che mi era sembrata la fin troppo evidente richiesta di emolumenti. Nel suo racconto infatti vi era un’unica grande verità. Solo lei poteva intercedere per far vincere la forza a me più favorevole.

Non ho mai capito dalle sue parole, allora e nemmeno dopo ripercorrendole, a quali forze si stava riferendo, quali forze stessero sprecando il loro tempo a giocare con le insignificanti vicende della mia vita. Il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, o il fantasma dell’opera e il fantasma formaggino.

Abbiamo contrattato per un po’. Io sono partito da due euro fino ad arrivare a cinque. Lei è rimasta inamovibile nella sua tariffa iniziale di dieci euro.

Domanda e offerta non si sono mai incontrate quel giorno. E io non saprò mai se l’indovina aveva veramente il potere di influenzare le ipotetiche forze contrapposte di cui parlava.
Terminata la piccola insignificante diatriba sui cinque euro mancanti, aveva continuato serenamente con la voce tranquilla, raccomandandosi di non raccontare le sue rivelazioni. E continuò a parlare, questa volta, del futuro.

L’ultima sua profezia si è avverata qualche settimana fa. Niente di ché in realtà. Si parla di normali eventi della vita. Ma ogni singolo piccolo accadimento previsto dalle sue parole, in un anno e mezzo, si è avverato nei modi e nella sequenza da lei scandita.
Ora, per fortuna, non c’è più niente che si debba compiere.

Non l’ho più rivista. E, lo confesso, qualche volta ho sperato di incontrarla passando ancora per quella piazza.

Se nella vita vi imbatterete in un accadimento simile, ho un mio consiglio. Non badate ai cinque euro di distanza. Magari poi vi prenderete allegramente in giro da soli per la vostra creduloneria, o potrete sempre spiegare il vostro raggiro appellandovi all’abilità dell’arte zigana di trasformare le normali vicende della vita in abito che calza come un guanto su di voi, ma sicuramente non avrete occasione di ripensare all’eterno dilemma del What if.

La speranza della cartella

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«Ma non si era detto che in questo blog non si sarebbe mai parlato di politica?»
«Eravamo d’accordo così? Davvero? Sai che non mi ricordo proprio.»
«Ne sono stra-sicuro. Quando ci siamo trovati e abbiamo iniziato a scrivere le nostre sciocchezze, avevamo detto: “Parliamo di tutto, ma non di politica.” E mi sa che ci siamo anche stretti la mano in segno di compiaciuta condivisione. E adesso? Li sento sai i tuoi pensieri che ti tradiscono! Li sento molto bene! »
«Ahhh, va bene! Se ne sei sicuro, facciamo così come dici. Niente politica!»

………

Dunque, dovete sapere che qualche hanno fa ho avuto la fortuna di poter accedere ad una delle grandi concessioni del passato. Il TFR. E non dovete credere che io abbia vissuto quel momento senza avere ben chiaro di essere un privilegiato, senza che mi sentissi profondamente un fortunato lavoratore dei tempi delle garanzie. Quelli che prenderanno il TFR, così come presto, quelli che prenderanno una pensione, saranno sempre più simili agli animali in via di estinzione. Una specie di dinosauri, con la piccola differenza che dopo centomila anni nessuno si preoccuperà mai di fare,  per mostrarlo in un museo ai bambini, il rendering di un uomo che sta per fruire del suo TFR. I dinosauri e l’Uomo di Neanderthal sono stati fortunati, hanno segnato la storia e ancora oggi c’è chi si preoccupa di sapere che aspetto potessero avere. L’Uomo del TFR, invece, non susciterà di sicuro l’interesse degli archeologi del futuro.

Bene. Il pensiero di quanto privilegiato io sia stato nel passato aveva già occupato l’angolo del dimenticatoio che gli spettava (anche perché da buon semi disoccupato, il TFR si è naturalmente essiccato molto velocemente), quando un paio di settimane fa il ricordo è riaffiorato. Nella vita leggo troppo poco, ma quando leggo, lo faccio sempre con grande attenzione. E, preferendo alla lettura di un bel romanzo, quella di questa lettera che mi era arrivata con tutte le raccomandazioni del caso, devo dire la verità, sono rimasto veramente sorpreso. C’era vera poesia in quelle parole. Magari ad una prima lettura frettolosa sarebbero potute sembrare asciutte e fredde, ma dietro a quelle sillabe unite tra di loro c’era molto di più. C’era una cura meticolosa nel raccontare con dolcezza che quando ti arrivano dei soldi devi sentirti fortunato, se poi te li danno con una tassazione ridotta devi gioire ancor di più perché non fa nemmeno cumulo con gli altri tuoi redditi, ma la verità più profonda nascosta tra le righe è che non devi preoccuparti mai di niente, perché chi si trattiene il dovuto per conto dello stato, non è tenuto neanche a fare i conti giusti, perché sei in buone mani e il lieto fine è sempre garantito.

Ed infatti, ecco che compare magicamente tra le righe della lettera una specie di Superman senza macchia e senza paura che finalmente riuscirà a fare il calcolo definitivo che ovviamente tiene conto di tutto quello che hai fatto nella vita per lo Stato. Nello spazio di poche parole l’eroe ti dà certezze e fa passare in secondo piano il fatto che il calcolo definitivo dice che dovrai adoperarti in futuri pesanti versamenti.

Qualche giorno fa, passavo in autostrada all’altezza della deviazione per il casello di Desenzano. Più o meno a metà del tragitto tra casa e ufficio. Lì sono stato  assalito dalla consapevolezza che da allora in poi sarei dovuto passare altre sessanta volte davanti a quella deviazione per poter racimolare tutti i soldi per quei versamenti. Non per comprarmi un vestito, una camicia o una maglietta. Non per comprare un mazzo di fiori per una ipotetica donzella (non temete ragazze, non mettetevi in coda, non sarebbe comunque successo 🙂 ).  Passerò lì davanti sessanta volte per aver osato prendere un TFR quattro anni fa, senza accantonarne il cinquanta per cento per il trionfale arrivo di Superman. Anche perché io faccio parte di quella larga maggioranza di persone che pensano: “Se c’è da pagare qualcosa, la si paga. Punto.”.

Sembra incredibile ma di tutta questa vicenda mi è rimasta una semplice, grande speranza. Sì, per carità, mi piacerebbe molto se quei soldi, che già ho iniziato a pagare, servissero per qualche pensione, o per pagare qualche lavoratore pubblico. Magari uno dei tanti frequentatori di questo mondo blog. Mi farebbe davvero, sinceramente, molto piacere.
Non nascondo che sarei comunque contento anche se alla fine quei soldi fossero utilizzati per far del bene a qualcuno con una operazione di chirurgia estetica passata dalla mutua per invertire le unghie degli alluci con quelle dei pollici rovinate dall’uso del detersivo per i piatti.

Però lasciatemi fare un passaggio veloce nel terreno fertile del Politically Scorrect. La mia speranza più vera sarebbe quella di vedere quei soldi finire direttamente ad uno di quei funzionari dello Stato che sono chiamati a decidere dei prelievi sui redditi delle persone. L’ideale sarebbe uno di quei funzionari che sono stati messi al loro posto da qualche politico di turno quindici anni fa, e continuano ad essere al loro posto, nonostante il loro politico protettore sia già caduto in disgrazia.

Ma, neanche a dirlo, quando io spero, spero le cose proprio in grande, e non mi va bene che il mio versamento finisca nello stipendio di uno qualsiasi di quei funzionari. No. Ne voglio uno ben preciso. Voglio che i soldi vadano a quel tecnico del fisco, quello bravo che ha imparato ad impilare i barili, per essere sicuro che quando ha finito di raschiare un fondo, è già pronto per raschiarne un’altro all’occorrenza. Proprio quello che, quando il politico di turno, gli chiederà la prossima volta:
«Abbiamo bisogno di recuperare mille miliardi nei prossimi sei mesi.» Lui si girerà con la solita tranquillità e inizierà a pensare a quale annata di TFR o di buonuscite dei licenziamenti gli potrebbe rendere di più. Ma poi improvvisamente sarà colto da un’illuminazione geniale, tipo quella che mi ha preso passando all’altezza del casello di Desenzano. Rimarrà immobile cinque secondi e poi si girerà indietro verso il suo politico interlocutore e gli dirà con la stessa decisione e dolcezza della lettera che mi hanno spedito:

«Ma voi? Che cazzo ci dovete fare con tutti ‘sti soldi?»