Ritardo

sampietrini

Camminava quanto più veloce le era possibile. I tacchi erano un impedimento non tanto per la loro altezza, il problema era che mal si adattavano al selciato di sampietrini che lastricava la strada del centro. Anzi ad essere precisi più che non adattarsi alla strada risultavano assolutamente compatibili con tutte quelle fessure in cui andavano pericolosamente a conficcarsi.

Sta di fatto che rischiava di arrivare tardi all’appuntamento e questo le metteva ansia. Un tempo per un appuntamento come questo si sarebbe tranquillamente fatta attendere, il tutto avrebbe dato un’aura di misterioso distacco al suo fascino, ma oggi le situazioni erano differenti, le occasioni meno frequenti e minore era pure la confidenza nella propria avvenenza.

«Carla!» all’inizio non ci fece caso «Carla!». La seconda chiamata era stata più secca e decisa. Si voltò in direzione della voce.«Che piacere incontrarti qui, Carla.» Francesca si stava dirigendo verso di lei e nonostante fosse ancora lontana già protendeva le braccia in un inizio di stretta affettuosa. «Non sai quanti giorni sono che avevo voglia di chiamarti!»

Arrivate a tu per tu si strinsero affettuosamente. I loro seni abbondanti furono compressi tra di loro e per qualche strano motivo quella stretta forte ed affettuosa mise Carla subito a disagio. Si staccò immediatamente e prese a dire:
«Ciao Francesca, è un piacere vederti anche per me. Devi scusarmi, ma non ho molto tempo perché sono in ritardo per un appuntamento. Ma sono molto contenta di averti incontrata. Come stai?»
«Tu sapessi, Carla. Quanto tempo è che ci conosciamo? Vent’anni?»
«Ventitré per la precisione.» Carla era sempre stata la più precisa e misurata
«Beh, in tanti anni non sono mai stata così male. Ho proprio bisogno di confidarmi con un’amica come te. Non so come comportarmi e volevo chiamarti già da alcuni giorni perché mi aiutassi a capire cosa devo fare.»
«Ma ci siamo visti appena qualche sabato fa a cena con il tuo Fabio e con quel cialtrone di Roberto. Te lo ricordi che scemo? Come si fa a rimanere senza benzina, come una donnicciuola senza cervello? Potevi prendermi in disparte e raccontarmi tutto e salvarmi per un po’ dalle grinfie di quel deficiente. Se non era per tuo marito che lo portava indietro a casa per primo …»
«Ecco appunto! Proprio Fabio …» Carla sembrava non capire. Francesca riprese subito la parola «Ho bisogno di parlarti di Fabio. Di me e di Fabio, non so cosa fare.»
«Dal tono della voce capisco che è una cosa grave e complicata.»
«Lo è!» disse Francesca, ma prima che riuscisse a continuare Carla riprese.
«Ne dobbiamo parlare con calma. Ti vedo sconvolta. Ma adesso proprio non ho tempo perché sono in ritardo. Mi dispiace.» mentre parlava, quasi a sancire la situazione, il telefonino di Carla sussultò per l’arrivo di un messaggio. Carla lo estrasse dalla borsa enfaticamente e nervosamente e lo infilò di nuovo senza leggere il messaggio. «Mi sa che devo proprio andare.»

«Fabio ha un’altra donna!» Francesca pronunciò le parole senza alcuna intonazione, ma gli occhi le si andavano inondando di lacrime. «Cioè non ne sono sicura. Ma da settimane ho questo sospetto.» Carla non sapeva bene cosa fare e le sembrò che abbracciarla fosse la cosa migliore.
«E’ troppo gentile. Molto più di un tempo. E fa l’amore con me come non lo facevamo da tempo.» Carla si ritrasse indietro come indispettita per il fatto che l’amica la stesse prendendo in giro. Francesca riprese. «Può sembrare sciocco, lo so, ma non lo è. Il modo con cui mi tratta … significa che ha un’altra, ne sono sicura.»

Un altro sms si fece strada dalla borsa di Carla, che con un ampio gesto quasi di scusa pescò il telefonino e tenendolo in mano disse.
«Ora devo proprio andare Francesca. Ma appena mi libero ti chiamo e ci mettiamo d’accordo per trovarci da qualche parte e parlare con calma. Mi dispiace. Ma non pensarci, vedrai, ne parliamo un po’, ti sto vicina, e con il mio aiuto vediamo di capire meglio e trovare una soluzione.» Francesca annuì con gli occhi gonfi ed un sorriso forzato, mentre Carla era già partita e con la testa voltata le dava un ultimo saluto carico di comprensione.

Fatti dieci passi, Carla rassettò la minigonna e con un gesto incurante degli altri passanti ammorbidì sul proprio seno la camicetta stropicciata dagli abbracci. Poi prese a rispondere all’ultimo sms:
“Scusa Fabio, un piccolo contrattempo, non andare via sto arrivando. Ti amo.” e già che c’era ne inviò un altro. “Ma sbaglio o eravamo d’accordo che non avresti fatto più niente con Francesca?”

Il difetto della resilienza

Resilienza

Negli ultimi mesi mi sono imbattuto più volte nella resilienza e nella sua dichiarata scesa in campo. Potremmo dire che c’è una recrudescenza nell’uso di questo termine, di cui, solo pochi anni fa, non conoscevo nemmeno il significato, non per lo meno nella sua accezione psicologica.

E’ una di quelle poche parole particolari, che quando le senti nominare capisci che dietro ad essa c’è molto di più. In sole dieci lettere racchiude tutto un universo di dolore, energia e proiezione al futuro che rende la speranza il nuovo motore di una vita. E’ una parola bella. Nasce dalla sofferenza, ma ne oscura lo spettro, dando alla forza e al valore della persona il motivo della sua rinascita.

Eppure, questa parola è strana.

Negli ultimi mesi l’ho sentita chiamare in causa almeno una decina di volte. Sempre in modalità riflessiva. Sempre da donne. Per la mia cultura scientifica tendo a dare alla statistica un senso, non assoluto, ma sicuramente di indirizzo, e quando percepisco che una distribuzione non sta seguendo un andamento usuale che a lungo andare emuli la perfezione di una gaussiana, finisco sempre con il perdermi in riflessioni per cercare l’origine della possibile anomalia.

Sicuramente, in passato, mi è capitato di sentire qua e là qualche uomo parlare di resilienza, ma, se la memoria non mi inganna, erano sempre ingegneri che decantavano la straordinaria capacità di un certo materiale nell’assorbire l’energia elastica quando posto in forte trazione.
Se guardo la storia recente cercando di immedesimarmi con l’occhio maschile dell’ingegnere medio, l’idea che tutte le donne, che ho sentito invocare la resilienza su sé stesse, siano state posizionate su una morsa emotiva e lì siano state sottoposte alla dolorosa applicazione di una continua torsione sull’animo e sul cuore, mi sembra il pericoloso sintomo di un latente conflitto di generi.

A dire il vero, non credo che il genere maschile sia completamente immune dal subire eventi traumatici e non penso che, a modo suo, alla bisogna, non sappia tirare fuori una giusta dose di resilienza. Forse semplicemente non le dà un nome, forse non sente il bisogno di esternare un suo stato interiore vagamente trionfale nell’aver scoperto dentro sé stesso quel barlume di energia necessario a costruire la pericolante staccionata con cui conta di confinare il suo dolore.

Poche cose mi sono chiare. Da qualsiasi punto di vista si guardi la questione, la resilienza non può essere solo una App dell’animo femminile, né può soppiantare la presa di coscienza che essa origina sempre da un disagio profondo. Non possiamo assegnare una colpa generica ed esclusiva al mondo esterno che ci porta ad attingere il massimo dalle nostre energie più vive per non soccombere, perché diamo sempre anche noi il nostro contributo alla creazione delle situazioni che ci riguardano. Non possiamo permettere che il termine resilienza diventi una moda, perché dietro ad esso c’è troppa sofferenza, valore ed eroismo che non devono andare sprecati in luoghi comuni. E non dobbiamo nemmeno escludere a priori che la constatazione che essa si manifesti così forte e orgogliosa nel genere femminile rappresenti proprio un sintomo della possibilità che, nei tempi moderni, il genere maschile si stia dimostrando sempre più inadeguato a seguire le necessità del cuore della nostra società.

Difficile dare una visione accorta di questa insistente comparsa della resilienza nel nostro mondo, ma di certo, soprattutto per la sofferenza che essa indomitamente cerca di vincere, dobbiamo cercare di evitare la sua diffusione incontrollata, la sua recrudescenza.

La foto di FIK

Foto_di_FIK

Oggi inizio con il salutare alcuni lettori. Sì perché il raccontino di oggi, avviso subito, è un po’ triste e per chi non è dello spirito giusto, è meglio che si fermi qui. Vi saluto con simpatia, ci si rivede presto! Ciao.

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Quella mattina sembrava procedere come tutte le altre da due anni a quella parte. Sonno, caffè, pulizia, vestizione, automobile, distributore, autostrada, viaggio. Una giornata speculare alle sue sorelle.

Invece fu diversa.

Non avevo fatto nemmeno troppi chilometri dal casello di entrata dell’autostrada, e, per i casi della vita, mi sembrava addirittura si stesse diffondendo un crescente buonumore nei meandri della mia psiche. Ma ci volle veramente poco per far virare la giornata dalla routine di sempre verso il nuovo. Non era la prima volta che partecipavo ad una coda. Ma quella, fu subito chiaro, era diversa. Arrivato in coda, rimasi subito immobile. Non fu possibile andare avanti nemmeno di un giro di ruota. E, passati pochi secondi, fu il senso di colpa per l’inquinamento che diffondevo alacremente con il mio mezzo, che mi fece spegnere tutto.

Sono questi i casi in cui, se sei fortunato, può arrivare una telefonata di FIK.
FIK è un caro amico. Davvero esperto nella sottile arte del rabbocco del bicchiere di birra. Con lui si gareggia spesso nell’estrarre le verità della vita nascoste nelle sinapsi cerebrali della nostra memoria alcolica. Verità che, ad essere sinceri, il giorno dopo non ricordiamo mai, quasi fossimo vittime di un complotto continuo contro la nostra presa di coscienza. Ma ci lasciano sempre il piacere profondo legato alla loro effimera scoperta.

FIK quel giorno era una decina di chilometri davanti a me, sulla stessa autostrada, impegnato tanto quanto me a popolare la stessa fila di auto immobili. Mi raccontò le notizie di prima mano che venivano dal fronte, anticipando una storia che, oltre tre ore dopo, avrei avuto l’opportunità di osservare attraverso la vista, edulcorata dall’operosa attenzione di vigili del fuoco, dei suoi effetti. La compenetrazione senza scampo tra due autotreni lascia il segno.

Non parlammo molto al telefono. Quando sei in un corteo, si tende a stare in silenzio. Finimmo tutti a far vagare la mente silenziosamente negli stessi pensieri. Io, lui, e tutti gli altri automobilisti assiepati su quel lembo di asfalto. E’ strano. Puoi essere in dieci in coda alle poste per pagare un bollettino e dopo poco c’è sempre qualcuno che si lamenta senza decoro con qualcun’altro. Per i torti subiti, per le lentezze agli sportelli, per gli impiegati fannulloni, contro chi fuma, contro la sorte avversa impersonata da qualche nostro simile. Per qualsiasi motivo utile ad istigare il litigio.
Invece lì, quel giorno, avevo intorno a me qualcosa come cinquemila veicoli, forse diecimila persone. Tutti in silenzio. Qualcuno intento a passeggiare, altri a fumare, qualcuno a parlare sottovoce. Tutti con gli stessi pensieri e nessuna voglia di litigare.

Quante riunioni sono saltate quel giorno? No, non saprei. Tremila? Seimila? Forse. Sicuramente un toccasana per l’economia italiana.
Ma a nessuno di noi interessava nulla di questo. Il pensiero più frequente credo fosse rivolto a quella singola persona tra noi su quel tratto di strada che si era svegliato la mattina, una mattina come tante altre tutte uguali, e aveva dovuto scoprire, forse senza nemmeno riuscire a provare vera sorpresa, che quel giorno era più corto di tutti gli altri giorni, tremendamente più corto.

Certo. Forse nella vita poteva anche essere una persona antipatica, qualcuno con cui non saremmo mai andati d’accordo, del quale non saremmo mai stati amici, nemmeno se avessimo abitato porta a porta. Eppure ognuno di noi provava per lui un rispetto profondo, una specie di riconoscenza immotivata e non perché si era sacrificato al posto nostro nel fortunale di queste nostre esistenze concentrate nella corsa continua. C’è dell’eroismo a spingere avanti la propria vita difficile, e l’eroismo, a volte, è davvero totale e se ci passi vicino, lo senti.

Alcune ore di silenzio dopo, FIK mi ritelefonò:
– Manca poco. La volante della polizia, sta per farci strada. – Mi arriva via messaggio la sua foto. La foto di FIK. – Sono davanti a tutti. – cinquemila auto pronte a ributtarsi nella mischia dietro di lui.

Alla mia altezza la coda si mosse, lentamente, molte decine di minuti dopo. E, ancora FIK, quando ormai le nostre giornate avevano già preso la loro forma finale, mi raccontò come mai ci eravamo rimessi in movimento come tartarughe disperatamente intente a cercar di perdere la gara con Achille.

Sì perché ci eravamo mossi a passo d’uomo.

La polizia, carica della verità dell’esperienza, aveva preferito accompagnare dolcemente la fila lunghissima di auto nel suo “Rompete le righe!” imponendo un’andatura rispettosamente silenziosa fino al casello successivo. E, in tutto questo lento procedere, FIK e io, vedemmo grande saggezza.

Perché quel giorno lì avevamo già dato tutti quanti. Chi poco, chi tutto.

I mitocondri

Mitocondri

Ho una figlia al primo anno di medicina ormai in prossimità della sessione estiva degli esami. A differenza dei miei tempi universitari in cui si studiava davvero poco, oggigiorno si studia molto poco e si fanno gran ritrovi tra amici. Nonostante questo, qualche giorno fa, è entrata in un mood studiaiolo e non è riuscita a non coinvolgermi nelle sue accorate ripetizioni delle materie prossime alla dirittura di arrivo.

E’ stato allora che, seguendo il suo ripassare ad alta voce, ho scoperto una cosa che proprio non sapevo. In realtà la questione mi ha incuriosito molto, perché le possibilità sono due: o ai tempi delle medie e delle superiori quando ho studiato la biologia della cellula la scienza non aveva ancora tutti gli elementi di questa interessante scoperta oppure devo aver attraversato nella mia giovinezza dei periodi di scarsa presenza di spirito, perché certe informazioni mi appassionano sempre e non sarebbe da me non ricordarmene. Propendo per la prima delle due ipotesi.

La faccio breve. Pare che questi mitocondri non siano altro che i residui dell’integrazione evoluzionistica tra il nostro corpo e alcuni dei suoi batteri simbionti. Non ho voluto approfondire molto perché la notizia già da sola mi è giunta sconvolgente, ma, nella pratica, molto tempo fa, questi mitocondri erano solo dei normali “batteri buoni”. Loro si trovavano bene nel nostro corpo e noi traevamo dei benefici dalla loro presenza. Dei fermenti lattici vivi un po’ più cazzuti, potremmo dire. Funzionava tutto così bene che alla fine sono diventati parte di noi. Indistinta.

Una figata!

La spiegazione ricevuta insegna che i mitocondri mantengono ancora oggi una loro identità, la loro struttura genetica è un po’ differente dal resto del nostro corpo, il loro codice genetico lo prendono solo dalla nostra mamma e mai anche da quello del nostro papà (la natura deve aver pensato qualcosa del tipo: “Beh, per integrare questi batteri non occorre fare tutto per bene. Se prendendo solo la parte che viene dalla donna questo connubio simbiontico non risulterà proprio perfetto, forse nessuno se ne accorgerà 😉 “), e poi hanno questa e quell’altra differenza rispetto al resto della nostra materia organica. Ma io trovo che questo piccolo miracolo evolutivo sia una cosa che deve far pensare.

Siccome poi io sono anche un appassionato della saga di Guerre Stellari, non sono riuscito a non vedere dei punti di contatto tra questa storia dei mitocondri e il racconto sui Midichlorian che compare in una puntata della serie. I Midichlorian sarebbero degli esserini simbionti di tutti gli esseri viventi, dentro le loro cellule, grazie ai quali è possibile sviluppare la Forza e le sue vie.

Per chi non fosse informato su cosa sia la Forza, possiamo in estrema sintesi dire che la Forza è quel non so che di impalpabile che può servire per sollevare con la sola energia del pensiero un’astronave imburrata irrimediabilmente in un acquitrinio, oppure permette di prevedere squarci di futuro, oppure ancora ci può servire per non imboccare la via verso il Lato Oscuro. E questo, come ben sappiamo, è sempre molto utile.

Ora voi potrete dire: “Sì, bella questa storia dei batteri buoni che smettono di essere batteri perché sono così utili che la Natura li ha promossi a parte importante e integrante della nostra essenza! Sì, simpatico questo fantomatico paragone con le storielle di Guerre Stellari! Ma? …. Tutta qua l’essenza di questo articolo?”.

E no! Amici miei.

Ecco mentre ascoltavo la storia dei mitocondri, mi sentivo invaso da una intuizione derivata dalla Forza. Quando un nostro figlio ci racconta o addirittura ci insegna con entusiasmo qualcosa che non conoscevamo o ci fa ascoltare un brano in un suo saggio di musica che ci trasmette emozioni o semplicemente ci fa comprendere che è un essere umano completo che potrebbe plasmare come noi, meglio di noi, la sua vita, quello è il momento in cui si fa strada una delle percezioni emotive più forti che possiamo provare.

Tutti noi, nella nostra personale misura, passiamo una parte della vita per trovare la strada per accoppiarci secondo il nostro istinto. La Natura ci ha anche magicamente dotati del sentimento e della poesia che rendono la vicinanza e l’armonia tra le persone l’unico passaggio che ci coinvolge e ci rende veramente completi. E questo già sublima la nostra esistenza.

Però i nostri figli non possono non essere la parte migliore delle nostre speranze e della nostra crescita. Perché solo attraverso di loro possiamo anche solo sperare di arrivare oltre a dove noi ci fermeremo.

Angoli svoltati

casetta

– Sai, quel giorno lì me lo ricordo bene. Io e lui avevamo bevuto un aperitivo. Lo facevamo ogni tanto. Anche quel giorno eravamo stati benissimo. Avevamo riso, scherzato. Come sempre eravamo riusciti a trovare il modo di parlare di qualche argomento che non avevamo mai affrontato prima. Giacomo doveva andare ad un appuntamento senza importanza, si era scusato per non avere più tempo da dedicarmi in quella occasione, ma ormai si era impegnato. Mi aveva accarezzato sulla guancia leggero come faceva lui, si era alzato e, nonostante tutto, se ne è andato con il sorriso dolce di sempre. – Monica si fermò un attimo a prendere fiato per trovare la forza per le frasi successive – Appena aveva svoltato l’angolo, sono rimasta folgorata dall’intuizione. Non l’avrei più rivisto! L’ho capito subito. Dal suo passo deciso, dalla limpidezza della giornata, da quello che sentivo dentro di me. Da tutto. Sono una scema, cazzo! Ricordo ancora bene che una parte di me aveva ordinato alle mie gambe di rizzarsi in piedi e di corrergli dietro. Per raggiungerlo e tenerlo ancora dentro alla mia vita. Ma a quel tempo ero ancora confusa. A quel tempo iniziavo a perdermi per Pietro. Avevo solo lui nella testa. E così sono rimasta seduta. –

Federica, tutta protesa verso Monica, la fissava con un sorriso di comprensione e di serenità, ascoltando da buona amica le parole che arrivavano e le confessioni che sarebbero arrivate.

– L’ho capito un paio d’anni dopo. Giacomo è l’unico uomo che mi abbia veramente amato. Per come sono, per il mio aspetto fisico, per i miei pensieri, per i miei conflitti e per le mie passioni. Quando mi sfiorava non sentivo mai arrivare il batticuore come con Pietro, con Ugo, con Ferdinando e con gli altri. Però mi sentivo protetta e coccolata come se a toccarmi fosse un’altra parte di me. – Monica si fermò ancora cercando negli occhi di Federica un segnale di comprensione, che non sembrò così chiaro – Lo so non è facile da capire. Giacomo si era dichiarato con me. Mi aveva corteggiato con dolcezza, ma a quel tempo io cercavo i fuochi d’artificio e non avevo capito che quello di cui avevo veramente bisogno, ce lo avevo già, lì con me. E così è passato il tempo senza che ci sentissimo. Lui non mi ha più chiamata. Io l’ho cercato dopo molto tempo, ma qualcuno mi ha detto che aveva cambiato lavoro, cellulare, città. L’ho cercato in tutti i modi, un anno fa. Ho pianto mille volte ripensando a quell’ultimo aperitivo assieme. Sono sicura che se lo incontrassi oggi, scoprirei che è ancora quello di un tempo. Perché lui è così. Sono una scema, cazzo! Non lo rivedrò più! –

Calò un silenzio prolungato, qualche mezzo balbettio, quasi Federica non trovasse le parole buone per rincuorare Monica per i suoi errori, poi di nuovo il silenzio. Faceva un caldo innaturale per essere novembre, si stava bene all’aperto, e il sole illuminava con chiarezza ogni cosa. Gli occhi di Monica, virati ad un azzurro umido, tradivano pensieri introspettivi reiterati, e quasi scuotendosi, per reazione,  riprese:

– Ma non parliamo di questa storia. Raccontami di te, Federica, non ci vediamo da una vita. Non so niente né di dove vivi né di cosa fai. Raccontami! Dove lavori? Sei sposata? Hai un uomo? – Federica si rabbuiò un attimino, come se nella sua vita non ci fosse molto da esternare, si fece indietro appoggiandosi allo schienale e cominciò senza entusiasmo.

– Mah, a dire il vero non c’è molto da raccontare. Lo sai come sono. Io non sono questa grande bellezza, e non sono nemmeno un caterpillar emotivo. Mi piace avere tutto sotto controllo. E la mia vita è un po’ così. Lavoro, vivo programmando la mia vita e quella del mio uomo. Non vogliamo figli perché destabilizzerebbero il mio ordine, – fece un sorriso come per ricevere una approvazione da Monica – facciamo largo uso di ristoranti, cinema e teatro per mantenere il cervello in funzione lontano dalla noia. Tutto qui. –

– Ma dove vivi? Cosa fai? – Monica mostrava con il tono della voce e con gli atteggiamenti un entusiasmo che malcelava la gioia per aver ritrovato inaspettatamente la sua vecchia amica.

– Da alcuni anni vivo lontano da qui. Sono qui oggi solo perché avevo una faccenda da sbrigare. E’ stato quasi un caso che ci siamo incontrate. Quando sono andata via, pensati, per diversi mesi sono rimasta disoccupata, poi ho iniziato a lavorare per un’azienda che si occupa di motori elettrici. Mi trovo bene. Ti ricordi quella volta che tu e Sara mi prendavate in giro perché secondo voi ero adatta solo ai lavori ripetitivi, beh questo non lo è. Lavoro molto con clienti esteri ed è tutto in movimento, io sto sempre dietro la mia scrivania, ma intorno a me è tutto dinamico.  Li aiuto a tenere l’ordine, diciamo. E ti ricordi di quella volta in cui tu e Sara avete … – Federica cominciò a rispolverare i tempi in cui loro tre passavano le giornate ad ammazzare il tempo tra una chiacchiera sui loro ragazzi e i pettegolezzi sul futuro che arrivava.

Passarono dieci minuti di revival sul passato, poi Federica con un impercettibile oscuramento del volto, riprese:

– Ora sono in ritardo devo andare. –

– Sicura di non poterti fermare un altro po’? Mi dai il numero di cellulare che una volta organizzo un incontro con Sara? E magari ci fai conoscere il tuo uomo. –

– Sara l’ho incrociata stamattina. Era tantissimo che non vedevo anche lei. – ormai Federica si era già alzata in piedi e stava raccogliendo la sua borsa. – Magari mi faccio viva presto e ci ritroviamo. –

– Anch’io è parecchio che non vedo Sara.  Magari organizziamo e veniamo a trovarvi. A me e a Sara farà di sicuro piacere incontrare la vostra coppia felice. Noi siamo capaci di vivere solo mozziconi di relazioni. – Monica allungò un sorriso come per condividere della bonaria invidia. – Sono sicura che sarebbe una bella occasione per riallacciare i rapporti. –

– Coppia felice! – Federica fece un sorriso forzato – Ultimamente mi ha detto che si è risentito con una sua vecchia amica. So che non c’è nulla, ma io sai come sono fatta. Basta un niente e vado in ansia. –  Le si chinò sopra dandole due baci sulle guance. E sussurrandole “Ora vado” .

Stava già allontanandosi, ma giunta ad una decina di passi, si fermò, ruotò la testa verso Monica ancora seduta, e, quasi mossa da un ripensamento, le disse con voce nitida:

– Comunque hai ragione: Giacomo non lo rivedrai mai più! Non te lo farò incontrare! – e svoltò l’angolo pensando con soddisfazione al gelo dell’inverno in arrivo.

Caramelle dagli sconosciuti: la legge sui cookies

Scadenza_2_giugno

Oggi è l’anniversario zero dell’entrata in vigore della Legge sui Cookies.

Devo essere sincero scrivere qualche riga su questo tema, mi fa entrare in uno stato vagamente itterico, ma non di meno mi sembra di dare un senso alle ore che ho dedicato ieri ad improvvisare per il mio blog una parvenza di allineamento ai dettami delle nuove regole.

Nell’ultimo periodo è stato tutto un rimpallarsi di commenti su questo tema tutt’altro che appassionante, da una parte all’altra di questa piattaforma e di altre disponibili sul mercato. Ovunque si percepiva paura, perché le sanzioni promesse “a pioggia” su chi non si adegua sono davvero importanti.

Ora, da buon italiano, mi sono ritrovato all’ultimo momento a cercare di capirne di più e a correre ai ripari da una situazione completamente fuori dal mio controllo. Ma soprattutto sono rimasto assai perplesso e un po’ amareggiato nel vedere molti blogger addirittura desistere dal continuare a scrivere o affrettarsi a cambiare mondo di riferimento per “ottemperare” più facilmente a queste nuove regole.

Le nuove regole. Bisognerebbe capirne bene lo spirito di queste nuove regole. Perché, anche leggendo i provvedimenti emessi sul tema, non sono chiarissimi, per lo meno a chi non è addetto ai lavori, i fini precisi. In questi regolamenti manca completamente una proporzionalità tra la mancanza di etica di chi gestisce il sito e il rischio di sanzione in cui egli incorre.

Mi chiedo il senso che possa avere una norma di questo tipo in cui non siano chiaramente deresponsabilizzati tutti coloro, come noi utenti di wordpress.com,  che non sono minimamente nelle condizioni di decidere, controllare e gestire alcun cookie e alcuna informazione di profilazione utente.

Se si volesse pensar male, verrebbe da dire che una norma così generica e raffazzonata potrebbe solo offrire nel tempo un buon motivo pretestuoso per andar contro a chiunque avrà qualche idea scomoda, o potrà criticare qualcuno a torto o a ragione, o si sarà opposto a qualche potente. Perché in questo mondo di oggi, teso e litigioso, una denuncia al Garante o un giudice che approfondisca un presunto reato non si fanno fatica a trovare.

Qualche giorno fa avevo scritto un articolo, per motivi tutti diversi, e tra quelle righe si può scovare qualcuno degli aspetti per cui più che la regolamentazione, sopratutto l’etica, nel web andrebbero potenziate. E alla fine della giornata di lavoro di ieri su questi benedetti cookies, mi sono convinto ancor più di questo. Anche perché dopo aver letto il regolamento del Garante, sono finito sui siti linkedin e youtube del Garante, qualcosa spiegano pure, ma nei loro siti di loro banner sull’accettazione all’uso dei cookies nemmeno l’ombra. 😀 Pensate! Per spiegare la nuova regola ci portano dritti dritti nella tana dei leoni.

Un caro amico sostiene che nel mondo del lavoro la cialtroneria impera.

Ecco l’estrema sintesi che mi è rimasta di tutta questa storia. La legge sui cookies (i dolcetti) regolamenta bene come sconosciuti e conosciuti devono allungare le loro caramelle verso noi bambini che iniziamo a navigare nel mondo del web.

Ma se volessimo applicare un paragone con il mondo reale è come se da oggi sapessimo bene come avvisare chi ci sta vicino che stiamo estraendo il coltello a serramanico dal nostro zaino per avere il suo consenso a farlo.
Poi se il coltello lo usiamo per incidere le nostre iniziali su un tronco con un cuoricino nel mezzo o se lo usiamo per squartare chi ci sta vicino non importa, questa è una questione, almeno per ora, secondaria.

Il difetto dei limiti

Cena_In_Terrazzo

Accade nella vita di incorrere in momenti di solitudine. Ieri sera alla fine di una giornata di assoluto relax, persa a muovere il corpo da una posizione di riposo all’altra, mi sono ritrovato nella situazione inusuale di poter decidere cosa fare del residuo tempo crepuscolare della mia giornata. Chi mi conosce sa che non è propriamente un delitto se ogni tanto passo qualche ora di cazzeggio, nell’assoluta apatia, così come sa bene che non sono un amante dei mega ritrovi di persone, troppo spesso cariche del bisogno di primeggiare in perfezione con gli astanti.

Ieri tuttavia non avrei disdegnato il passare una serata con qualcuno a scambiare qualche pensiero davanti ad una birra o ad una pizza o, perché no, dopo un film. E ci ho anche provato, ma, come spesso accade in questi casi, la probabilità di incontrare la disponibilità delle persone intorno a noi è inversamente proporzionale al bisogno che noi abbiamo di passare del tempo con loro.

La solitudine certe volte è pesantissima da sopportare, altre volte invece è una specie di varco che ci porta a sondare una parte di noi stessi su cui spesso non abbiamo la costanza e la coerenza di riflettere. Così ieri sera sono finito a cenare tutto solo in terrazzo, di fronte a un crepuscolo nemmeno particolarmente colorato, con un paio di bicchieri di vino e due piatti molto semplici, gustati con calma in attesa del film noleggiato per l’occasione scelto opportunamente tra quelli che ti consentono di scollegare il cervello.

Mentre cenavo, complice l’entrata in circolo di un po’ di grado alcolico e la musica jazz vagamente melanconica proposta dalla playlist youtube lasciata libera di agire, senza accorgermi, sono finito a far divagare la mente in uno dei miei ragionamenti color pastello perennemente incompiuti …

Si sperimentano quotidianamente le difficoltà che dobbiamo fronteggiare per dare un senso compiuto alla nostra vita. E tra tutte le difficoltà che incrociamo, anche se spesso ci piace rivolgere la nostra imprecazione verso altre destinazioni, i nostri limiti personali rappresentano il vero scoglio su cui ci infrangiamo più spesso.

Chi più chi meno, brancoliamo tutti nella più ineluttabile confusione tra dove siamo e dove vorremmo essere, tra dove potremmo andare e dove le persone intorno a noi ci lasciano andare. Siamo tutti ricchi di limiti. Limiti fisici, legati alla nostra persona, limiti fisici, legati a cause esterne. In primis, il tempo che abbiamo a disposizione, per noi stessi e per le persone a cui vogliamo bene o che ci vogliono bene. Limiti caratteriali, che nelle situazioni più disparate che ci propone la vita ci fanno costantemente oscillare tra l’inadeguato e l’inopportuno, tra l’insensibile e il troppo bisognoso di affetto. A volte riusciamo anche a superarli i nostri limiti, ma la sensazione che ne traiamo non è sempre piacevole. Specialmente quando ci accorgiamo che i limiti, buttati alle nostre spalle con grande difficoltà, di fatto erano inesistenti, erano quelli che ci eravamo regalati da noi, solo per autolimitarci, e per mascherare le nostre paure dietro un vuoto paravento.

Anche quando ci sembra di attraversare un periodo in cui tutto pare funzionare nel miglior modo possibile, la nostra esperienza ci insegna che una nuova rivisitazione è nell’aria, perché qualcosa su cui scontrarci la troviamo sempre e, se proprio non ci imbattiamo in nessun ostacolo, entra in gioco quello che forse è il nostro limite ultimo (e nel contempo anche il motivo per cui l’umanità è sempre in evoluzione), quel gene che abbiamo dentro che non ci rende mai contenti, arrivati ad un traguardo sentiamo il bisogno di superarlo e lasciarcelo alle spalle. Anche se quel traguardo ha a che fare con la nostra serenità. In fondo serenità e noia hanno i loro campi che condividono lo stesso confine.

Ecco, ieri sera, in una cena solitaria in terrazzo, mi sono passati davanti tutti i limiti di cui sono portatore sano, tutti i principali per lo meno. Non ha senso condividerli, è più saggio lasciarvi con i vostri. Ma mentre li scorrevo ad uno ad uno, mi è stato chiaro qual’è il loro denominatore comune.

Ai nostri limiti piace viaggiare in gruppo e combinare le marachelle tutti assieme nella nostra vita, giusto per farci ricordare sempre con affetto che loro ci sono, sono tanti e sono tutti nostri.

La fine delle idee

Condivisione

Fummo i primi ad averne coscienza.

Una mattina non diversa dalle altre avevamo atteso il momento di affacciarci alla nostra finestra sul mondo virtuale. La solita sommessa trepida attesa di ricevere qualcosa di importante e di donare qualche momento speciale alle altre persone intorno a noi. Un giorno come tutti gli altri.

Se ad intuire tutto fosse stato uno solo di noi non sarebbe stata la stessa cosa. Sarebbe stato tutto più semplice e l’evento sarebbe passato inosservato. Ne sarebbe uscito al più un post vagamente originale, qualche decina di sue condivisioni, una mezza giornata o due di commenti. Si sarebbe trattato di un passaggio interessante come ogni tanto era sempre successo in questo etereo mondo. Ma poi ogni rumore si sarebbe quetato.  Probabilmente, le alte sfere dell’azienda che gestiva la piattaforma avrebbero sguinzagliato i loro osservatori per guidare il motore di condivisione verso l’oscuramento permanente dell’effimera intuizione di quel singolo di noi appena più lungimirante degli altri.

La storia invece fu differente.

Ricordo ancora molto bene, i primi commenti che ci scambiammo a caldo in rete. Parlammo di sindrome da fuochi d’artificio, di persone stanche di muoversi nello spazio angusto dei flash condivisi che scorrono velocemente fino ad occupare il prima possibile il loro angolo di dimenticatoio. In fondo il nostro stato d’animo era davvero lo stesso di quando si assiste ai fuochi d’artificio: all’inizio si rimane incantati, dalla sorpresa, dai botti, dai colori scintillanti, dalle forme floreali che rischiarano imponenti il buio sovrastante. Ma alla lunga il tuo occhio non trasmette più sorpresa, il tuo istinto ti guida a riconoscere che si sta avvicinando il momento del gran finale, vaticinato precursore del vuoto che ne consegue. Il tuo animo si rammarica perché l’ultimo lampo fatto di pizzi finemente decorati stracarichi di colore è svanito molto prima di essere catturato dalla tua memoria.

La nostra predisposizione in quei giorni non era differente. Eravamo stanchi. Sorridevamo ancora alla vista di queste frasi a sorpresa, ma sapevamo già in anticipo, che scorrendo lo schermo dopo la prova costume riuscita a tutti con successo, perché qualcuno aveva ipotizzato che il costume bagnato si sarebbe asciugato, avremmo trovato quella dolcissima e virale cucciolata di gattini scampati alla leucemia felina grazie alla serata cosmica pro-animali organizzata dal nucleo volontari senza macchia e senza paura del quartiere San Tristino, e poi avremmo gustato una massima esistenziale degli indiani d’america, affiancata dalla confortevole forma a gaussiana del corpo di un oritteropo, che preannunciava la foto degli involtini primavera, invero molto simili a bolo predigerito, che la vicina di casa, vagamente gnocca, aveva appena cucinato senza invitarci né a mangiarli, né a scoparla … e così via. In una sequenza, senza sosta, di fugaci riecheggi di quarta e quinta mano delle stesse idee che qualcun altro aveva avuto chissà quanto tempo prima.

Ma, nella vita reale, lo sapevamo bene in cuor nostro, nessuno di noi avrebbe mai accettato, nemmeno come regalo, un’auto usata di quinta mano.

E forse quel giorno lo capimmo tutti assieme, di colpo: eravamo solo stanchi di ricevere e donare idee trite e ritrite di qualcun altro. Eravamo stati raggirati così profondamente da esserci convinti che ogni contenuto che ci palleggiavamo potesse essere così straordinario e senza tempo da poter rappresentare la versione universalmente ottimistica del nostro vero io. Ci eravamo a lungo identificati in frasi, immagini e situazioni, originali e forti, per colpire senza fatica l’immaginario nostro e dei nostri amichevoli obiettivi umani. Ma nella realtà avevamo solo dimenticato, piano piano, il meraviglioso valore celato dietro l’uso del nostro tempo, non dico per creare noi stessi qualcosa di significativo, ma anche solo per cercare dentro il libro di un nostro amato autore la frase d’effetto veramente in sintonia con il nostro stato d’animo.

Non è importante cercare il perché l’intuizione di massa si manifestò così repentinamente. Non è importante sapere chi sia stato il primissimo di tutti noi a inserire in rete questo concetto. La questione straordinaria e vincente fu che, indipendentemente gli uni dagli altri, mettemmo in circolo lo stesso pensiero scritto in forme sempre un po’ diverse ed originali e, nello spazio di un’ora, investimmo la rete.
Ricordo ancora perfettamente la sequenza degli eventi. Avevo appena lanciato l’aggiornamento del mio stato, con una smorfia di vago disgusto dipinto sulle mie labbra, e avevo deciso di chiudere tutto per quel giorno. Avevo esitato qualche secondo di troppo per quella mia indole un po’ vanesia che ama vedere il click del “Mi piace” da parte di qualche amico sulle mie cose, quando comparvero due condivisioni che scimmiottavano la mia: una frase in inglese maccheronico su sfondo rosa antico recitava “We have our balls completely broken” e subito sopra una “Certe condivisioni ci hanno sfracellato”, in verde speranza, cercava di nascondere con il suo font smisurato la sfondo preso da un film sulla discesa agli inferi. E da lì fu tutto un susseguirsi di sentenze a senso unico, separate qua e là solo dal solito “post consigliato” anacronistico e commerciale che rese il tutto ancor più grottesco. L’aspetto più curioso fu che, stranamente, nelle nostre frasi tutti o quasi avevamo fatto uso del plurale maiestatico, come se più che di intuizione di massa si fosse trattato di autocoscienza collettiva.

Il resto del giorno non lavorammo, commentammo alla grande, diventammo tutti molto più amici e a sera mezza nazione si tolse dalla piattaforma.

Quel che successe dopo lo conosciamo molto bene e non ha senso rivangarlo, ma ancora oggi passo spesso lunghe ore a chiedermi cosa sarebbe accaduto se quel giorno alcuni di noi ci avessero pensato qualche momento in più e avessero desistito dal pubblicare il loro stato o se i primi post di inizio giornata fossero stati quel tanto più originali del solito da scoraggiare ogni nuova tristezza o se i gestori della piattaforma avessero avuto l’intuizione di spegnere tutto in tempo per non far proliferare il rivoluzionario virus nato in quella prima ora. Quando ci rifletto, mi assale vera ansia al pensiero che se avessimo assistito ad un incastro di eventi solo leggermente differente, non ci sarebbe stata nessuna storia da raccontare, e saremmo ancora lì tutte le mattine con la solita sommessa trepida attesa di ricevere qualcosa di importante e di donare qualche momento speciale alle altre persone intorno a noi.

Tutti in balia di condivisioni geniali di decima mano.

Il branco

Il_Branco

La donna in cima alla scalinata, prima di iniziare a scendere, si guarda intorno circospetta quasi in preda ad una intuizione di quelle che solo l’animo femminile sa generare con chiarezza nelle situazioni apparentemente tranquille. Questa sera, nonostante l’approssimarsi della primavera inoltrata, l’aria è stranamente velata e limacciosa e i lampioni appena entrati in azione alla luce incerta dell’imbrunire faticano a rivelare la limpidezza della realtà.

Se non fosse convinta di poter dominare tutto dalla sommità, prima di affrontare i gradini, non credo procederebbe. Tornerebbe sui suoi passi, indietro, a cercare un’altra via verso casa oppure un comodo accogliente taxi. Ma lì, dall’alto, li vede tutti così isolati, distanti l’uno dall’altro, così sparsi e indifferenti, che per un attimo dimentica la sua intuizione. Sette o otto passi sotto di lei c’è un ragazzo distinto, forse di una decina di anni più giovane, alto, asciutto ed elegante, intensamente intento a leggere un libro sulla panchina al bordo della discesa. Riassetta con un vezzo impercettibile la sua minigonna, ordinando alle sue gambe ben tornite di muoversi per iniziare a scendere, mentre i suoi lunghi capelli neri ondeggiano spavaldi e ribelli dietro di lei.

Sono pochi i gradini che si è lasciata alle spalle quando i loro sguardi iniziano a ferirla. Li sente, pungenti, multipli e contemporanei, arrivare da quei punti che solo alcuni istanti prima le erano sembrati innocuamente sparsi. L’istinto la fa voltare incerta verso l’alto a cercare con lo sguardo quella che potrebbe essere la via di fuga. Così tristemente simile alla via che l’aveva portata in quell’incrocio sbagliato della sua vita, quel passaggio ora è presidiato. Un ragazzone dai lineamenti rudi e spigolosi sta scendendo pesante senza fretta e senza dolcezza.

Si volge nuovamente verso il basso e riprende a discendere la scalinata dissimulando malamente, al  ritmico tichettio dei suo tacchi, un’ansia crescente.  Supera l’accanito lettore della panchina che, con la testa rivolta al libro, la scruta attraverso una maligna fessura degli occhi alzata verso il suo petto. Improvvisamente comprende nell’animo che quella sua età ormai non lontana dai quaranta, quel suo corpo sinuoso ed emancipato, compatto e snello allo stesso tempo, inviolato da gravidanze e accentuato dall’aderenza dei suoi abiti è un’attrazione perfetta per portare alla luce gli istinti delle persone intorno a lei.

Alcool e droghe imprecisate fanno crescere e rivelano l’essenza dei più semplici e atavici bisogni. Codificati in maniera fintamente schematica nelle strane sequenze genetiche di milioni di cellule, liberati da ogni senso di umano equilibrio e di sublime condivisione di intenti, essi si scatenano senza alcun filtro verso quel corpo che solo incidentalmente appartiene a lei. Partono all’unisono e vanno concentrandosi verso l’unico punto quasi chiamati da una silenziosa adunanza. Mentre lei, scesa ancora di qualche tremulo passo, viene sorpresa da uno di loro che le balza di fianco coprendole con una mano l’intero volto a soffocare uno strillo che comunque non sarebbe uscito.

Passano pochi istanti ed è riversa sulla nuda terra, subissata da arti esploratori e suoni emessi da corde vocali che legano il suo cuore nella morsa della paura. E i suoi vestiti si dimenticano di proteggerla. Gli uomini intorno a lei sembrano ruotare, ondeggiando come impazziti, carichi di dolorosa energia e per non cedere alla nausea e alla vista dei loro volti, chiude gli occhi.

Sparito il senso della vista le rimangono attivi solo l’udito e il tatto. Ma non può urlare per sovrastare le loro voci, non glielo fanno fare. Non può divincolarsi per sentire contatti fisici differenti con i loro corpi, perché non glielo fanno fare. Morde il fango per concentrare la mente su qualcosa di sensibilmente diverso … ma loro si susseguono in armonia, uno dopo l’altro, quasi avessero studiato un ordine ottimale, a tavolino, molto tempo prima. Ma la sequenza maschera solo atavici bisogni. Intensi. Nulla più.

Ora è il turno del Pertica, l’istigatore di tutti. Lui non ha mai avuto una ragazza, per lui è facile fare il capobranco. Si avvicina solenne e minaccioso, i suoi movimenti sono decisi e impietosi.

E’ misterioso e sorprendente vedere la ragazza come divisa in due. Il volto in lacrime, riverso di lato a cercare quasi un nascondiglio nella fredda terra, in una smorfia di infinita sofferenza, mentre la parte inferiore del suo corpo si muove quasi ad assecondare, con l’ondeggiare del proprio ventre, il ritmo sempre più frequente del loro piacere.

Davvero un peccato che le loro prede dimentichino il piacere e ricordino solo il dolore.

Si alternano uno dopo l’altro incuranti delle lacrime, dei lamenti, e soprattutto incuranti delle suppliche. Anzi ad ogni preghiera della donna sembra scatenarsi un’incitazione ancor più veemente delle frasi ridanciane del Pertica. Uno dopo l’altro. Uno dopo l’altro.

Ora vi devo lasciare. Questo è il branco, io sono uno di loro, e adesso è il mio turno.