Il dilemma del come spiegare

Cumuli_e_Luna

Conoscevo Franca da una quindicina d’anni. All’inizio ci frequentavamo con la compagnia di amici comuni. La nostra amicizia, sempre genuina, si era sviluppata gradualmente, all’inizio molto superficiale, poi sempre più stretta per le innumerevoli affinità che ci legavano.
Negli ultimi anni la compagnia si era sciolta, essendo tutti gli altri persi a seguire il corso delle loro vite, tra coniugi e figli, lavoro e routine esistenziale.

Io e Franca invece avevamo continuato a vederci, ritagliandoci innocui spazi all’interno delle nostre relazioni sentimentali per coltivare le sintonie della nostra amicizia. E ci trovavamo spesso da soli o in compagnia a gustare una chiacchiera davanti ad un aperitivo o passeggiando abbracciati allegramente per il centro rimanendo entrambi sorpresi dall’arguzia dei suoi commenti su bancarelle e passanti. Quando ero con lei tutto si muoveva in un’armonia che non ammetteva incertezze e si sviluppava con una serena naturalezza che lasciava spazio solo per la nostra spontaneità.

Forse proprio per questo, a dire il vero, non riuscivo a spiegarmi come mai quella sera finimmo in quella situazione. Il bosco intorno all’abitato iniziava a scurirsi preparandosi alle tenebre e nel cielo altissimi cumuli nembi si sviluppavano a vista d’occhio minacciando di ricoprire la luna con il loro carico di pioggia fitta. Intorno a noi le luci fioche dei lampioni appena accesi gareggiavano senza primeggiare con la luminosità  diffusa del tramonto frettolosamente partito dall’orizzonte per arrivare in tempo per trasformarsi in alba di lì a qualche ora. Una certa ansia si faceva strada nei nostri cuori e non tanto per l’atmosfera quasi magica dell’imbrunire, ma per il fatto che avevamo già provato ormai troppe volte a trovare la strada per ritornare alla nostra auto per rientrare alle nostre case e sempre questi ceffi alti e minacciosi ci avevano sbarrato ogni passaggio.

Non sapevamo chi fossero. Erano strani. Lunghi e magri come fuscelli, con un volto innaturalmente scarno. Lei subito aveva associato il loro viso all’urlo di Munch.
E a fatica, dalla piazza principale, eravamo riusciti a raggiungere una piazzetta laterale appartata da cui sapevamo si sarebbe potuto imboccare un sentierino stretto e ripido che ci avrebbe portato al parcheggio, ma lì dall’alto vedemmo bene che intorno alla nostra auto altri due di quei brutti ceffi si aggiravano minacciosi. Ci fermammo un attimo, fissandoci negli occhi. Non riuscivamo proprio a spiegarci come saremmo potuti uscire da quella situazione. Credo che dal mio sguardo trasparissero i segni di un crescente smarrimento, perché lei si fece carico della situazione e trovò la soluzione.

Mi prese la mano, sorridendomi, stringendola forte. Io per reazione le presi l’altra, si avvicinò lentamente e con naturalezza in un momento che sembrò durare una vita appoggiò le sue labbra sulle mie. Il bacio fu come se da sempre fossimo abituati all’intimità, ma con l’emozione dirompente del primo bacio della vita. Lasciammo le nostre mani per avvolgere con le nostre braccia il corpo dell’altro e continuammo. Spinse il suo bacino contro il mio e io assecondai il suo movimento andandole incontro.

Non so quanto durò quel lungo passaggio, so che il pensiero dei ceffi più sotto non era più all’ordine del giorno. Ci scostammo un attimo, con un sorriso dipinto in volto, che più che dalla bocca nasceva dagli occhi e con un movimento sincrono, quasi le nostre menti fossero mosse da una coscienza comune, raggiungemmo una panchina a pochi metri da noi, mi distesi e lei si accovacciò sopra di me con leggiadria massimizzando il contatto tra i nostri corpi. Sentivo distintamente ogni singolo punto del mio corpo dolcemente sfiorato dal suo e ognuno di quei punti mi lanciava vibrazioni ed emozioni che accrescevano la mia eccitazione e il mio trasporto.

Con il suo viso chino su di me, lasciò che i suoi lunghi capelli, in caduta libera, circondassero il mio volto come in una prigione. E in quella gabbia, le sue labbra fecero scorribande a lungo e senza freno a sondare ogni angolo del mio viso. Voi non avete idea di quanto morbide fossero quelle labbra e quanto, anche solo sfiorando la superficie della mia pelle, mi stessero entrando dentro l’anima.

 Paparapapà paparapurapurapù ….    La musica della sveglia del cellulare si fece sempre più insistente, nonostante il mio inconscio si rifiutasse completamente di distogliersi dal momento magico che stavo vivendo. Ci vollero, io credo, alcuni minuti prima che la realtà riuscisse ad acquisire un barlume della sua sostanza. Con fatica alzai la schiena tendendo le braccia puntellate dietro per mantenerla ritta. Ero confuso. Non era l’eccitazione ancora viva a tenermi in quello stato. Era quella sensazione naturale e intensa di amore appena sbocciato che stava scuotendo ogni poro della mia pelle che non riuscivo più a riportare ad una dimensione nota della mia esperienza.

Ci vollero altri minuti prima che riuscissi a modificare la mia posizione. Mi girai di lato, con i piedi a sfiorare il pavimento ancora freddo dalla notte e rimasi a ciondolare lì seduto perso in pensieri sempre più tumultuosi. Proprio nel pomeriggio dovevo vedermi con Franca. E adesso? Come avrei mai potuto spiegarle che tra noi era tutto cambiato?

Quando inventammo la tenerezza

UomoCaverne

La caverna della nostra comunità era ampia e spaziosa, piena di cunicoli ed anfratti, dove l’odore della carne consumata nelle sere di estate, prima di coricarci, permaneva a lungo intenso e pungente e ti sembrava di continuare a mangiare anche quando sul fuoco non era rimasto più niente se non ossa spolpate.
L’avevamo conquistata molte lune prima e da allora nessuno straniero era più riuscito nemmeno ad avvicinarcisi. L’imboccatura della galleria era difficile da raggiungere, in cima alla collina e solo una comunità molto più numerosa della nostra avrebbe potuto sperare di farla sua.

Da allora vivevamo un periodo sereno, fatto di caccia abbondante lontano da predatori pericolosi, coltivazioni improvvisate, ma rigogliose, e armonia tra di noi. Fu in quel periodo che cominciammo a frequentarci di più dei soliti accoppiamenti occasionali in uso tra noi della comunità.  Dapprincipio non fu facile convincerla. Le stranezze, qui, non piacciono a nessuno, hanno il profumo del pericolo. Ma quando le fissavo gli occhi, anche all’inizio quando si scostava scontrosa, vedevo che dentro di lei si muoveva una luce che sembrava dire: “No! Assolutamente no! … ma mi incuriosisce.”

Trovavo la sua curiosità stimolante quanto le curve che portava con disinvoltura davanti e dietro. Mi piaceva da morire passarle vicino sfiorando con il mio braccio il suo seno pronunciato. Nessun altro maschio lo considerava, tutti così atavicamente concentrati sul sedere delle femmine. Ci volle tempo, ma poi si capì che il mio strano comportamento, non la lasciava indifferente e quel che accadde dopo fu molto chiaro.
Un giorno avevo provato ad avvicinarmi sornione e strusciante, ma lei si ritrasse scontrosa e stizzita, lasciandomi dentro l’animo una sensazione che io associai al dolore fisico. Per molti giorni non osai più nemmeno farmi vicino, poi, inaspettatamente, ero appena rientrato da una lunga battuta di caccia, gli altri uomini si complimentavano dandomi pacche sulle natiche per il ricco bottino conquistato e, di nascosto, lei mi si fece in fianco e si strofinò plastica su di me.

Non so bene nemmeno come accadde, quel giorno ero troppo confuso per fissare i ricordi, tuttavia quella sera ci ritrovammo in uno dei cunicoli della caverna, la luce fioca la illuminava dolcemente, e passammo del tempo distesi, uno sopra l’altra, uno dentro l’altra. Io ero confuso, lei era preoccupata. Credo le sembrasse innaturale almeno quanto a me (e forse molto di più) non essere penetrata da dietro, come sempre, fino ad allora, si era fatto nella nostra comunità.

Piano, piano, da allora, i nostri incontri si fecero più lunghi e inconsueti. Tantissime volte ci ritrovavamo distesi fianco a fianco, la fissavo ammaliato nei suoi occhi luminosi, con la mano sinistra le sorreggevo la testa palpando i suoi capelli lunghi e sottili che raccoglievano terra e polvere in una consistenza morbida e piena di riflessi. L’altra mano era rapita dalle sue dita che giocherellavano intrecciandosi con i miei polpastrelli. Il suo fianco era appoggiato alla mia gamba, mentre i nostri bacini rimanevano avvinghiati, compenetrati, ondeggiando soavemente quasi immobili. Passavamo in quella posizione lungo tempo e si capiva come lei amasse molto rimanere lì, distesa, oggetto di attenzioni, rubando ogni possibile istante prima di ritornare alle faccende di gestione dei raccolti a cui erano preposte le femmine della comunità.

Poi venne il giorno.
La stavo tenendo stretta a me, con il mio braccio destro sotto il suo sinistro, e con l’altra mano le facevo oscillare le anche giocosamente in un preludio di carezze. Avevo occhi solo per lei, per il suo sguardo e il suo sorriso, per la sua carne soda e muscolosa che si intravedeva sotto la pelle che la copriva. Non avrei potuto accorgermi in nessun modo della clava che scendeva pesante, senza esitazioni, con un colpo secco sulla mia testa.

Stramazzai a terra in un tonfo e per poco l’avrei trascinata al suolo con me, se il capo della comunità non l’avesse afferrata per i capelli dopo aver ripreso il controllo della clava. La trascinò per la capigliatura qualche metro più in là dentro la caverna, mentre lei non opponeva nessuna resistenza. La girò rivolgendola verso di me, le si mise dietro, le sollevò la pelle di leopardo che la copriva giù fin oltre i glutei e la infilzò.

La testa mi sembrava rotta in mille pezzi, sanguinavo a fiotti. Il dolore lancinante si mischiò ad una rabbia profonda. Gli anziani della comunità sostenevano che quando stai per morire rivedi la tua vita. Velocissima. Speravo che avrei rivisto i miei momenti con lei …
Non è così. Io dapprincipio vidi solo il rosso del mio sangue, poi la testa, sì, si riempì di immagini, ma non mi riguardavano. Forse erano lampi che avevano a che fare con il futuro.

Vidi qualcuno che sosteneva che alle donne erano cresciuti i seni solo dopo che erano cambiate le posizioni dell’accoppiamento. Ma io sapevo bene che non era così.
Vidi missionari che vantavano diritti su posizioni. Ma chi cavolo erano questi missionari?
Vidi un fiume di persone credere che noi uomini delle caverne usavamo la clava per controllare la femmina riottosa. Ma quando mai? La clava serviva ad altro.
E vidi mille altre immagini. Tutte cazzate!

Chiusi gli occhi. Li tenni al riparo qualche frazione di secondo dal sangue che colava copioso sul volto e poi giù subito fino a terra. Avevo freddo. Feci l’ultimo sforzo della mia vita. Aprii le palpebre. Riuscivo a mettere a fuoco solo il centro del mio campo visivo. C’era lei. Oscillava al ritmo imposto dall’ominide dietro di lei, il profilo dei suoi seni usciva rigonfio tendendo la pelle di leopardo che mal li conteneva. Mi fissava con dolcezza. I suoi denti storti e incrociati mi lanciavano un sorriso enigmatico. Era bellissima!

I due microbi

Ingranaggi

Romt era un microbo che viveva sulla punta di un dente di un ingranaggio dentro un orologio da polso, massiccio, tutto d’acciaio, cinturino incluso. Giovanna, la proprietaria dell’orologio, non aveva la benché minima idea della sua esistenza.

Romt era un compagnone. Era esuberante e pieno di vita, trascinava tutti con il suo buon’umore e aveva in ogni situazione lo spirito giusto per entusiasmare. Gli capitava spesso di passare intere giornate raccontando la barzelletta che piaceva a tutti, quella sul mitocondrio innammorato, che scatenava intorno a lui la più viva ilarità e faceva assiepare addosso a lui le altre microbine che abitavano quel luogo dell’Universo che loro chiamavano casa. Dopo il divertimento gli piaceva molto donare sé stesso attraverso i peduncoli che pescavano dritti dritti dentro di lui le sue catene di DNA. In quei momenti provava qualcosa di profondo che gli sembrava desse un senso preciso alla sua vita. Questo estrarre pezzi del suo io più recondito e autentico per donarli a chi gli stava vicino, gli creava una sensazione come di eternità.
E spesso si perdeva a guardare il panorama sopra di lui, immerso in queste sensazioni, pensando a futuri momenti ancora differenti dal passato.

Gult era una microba che viveva nell’avallamento tra due denti di un ingranaggio dello stesso orologio. Giovanna, pur non conoscendo l’esistenza nemmeno di Gult, viveva bene lo stesso.

Gult era una tipa schiva. Non dava confidenza a nessuno, e passava tutto il tempo sempre intenta nelle sue faccende con lo sguardo rivolto verso il basso. Nulla la distraeva e nulla la interessava veramente.
Ma quel giorno fu presa da una sensazione strana. Le sembrava di percepire come se il suo tempo stesse cambiando, come se ci fosse qualcosa di nuovo, mai provato prima, da assecondare. Alzò allora lo sguardo e lo vide da lontano. Era tutto un movimento armonico, tutto un fermento di energia ed entusiasmo. E i rumori lontani che arrivavano dal suo luogo erano di allegria e spensieratezza.

Gult non era mai stata attratta dalla mondanità, non si era mai interessata alle leggerezze e il suo occhio era sempre stato ancorato alla levigata superficie di casa sua. Ma quel giorno alzò lo sguardo e sorrise, perché quel personaggio lontano di cui non conosceva nemmeno il nome, aveva qualcosa di straordinario, aveva un fascino che lo rendeva importante. Non era perché si atteggiava a capetto animatore della sua brigata, si vedeva che laggiù dove viveva era l’idolo di tutti. Ma questo non significava niente. Era la dolcezza con cui alzava lo sguardo nella sua direzione che la colpì. E i giorni che seguirono lei non fu più quella di prima.

Romt la notò subito. Gli occhi alzati avrebbero potuto fermarsi su mille obiettivi differenti, invece non ebbe nemmeno modo di razionalizzare, fu rapito da quella vista e su di essa si concentrò come mai gli era capitato nella vita. Non sapeva nemmeno spiegarsi perché. Era una microba dall’aspetto dimesso e quasi ordinario, si capiva che era una tipa schiva e non predisposta ad appassionarsi alle caratteristiche goliardiche del suo carattere. Tuttavia aveva una bellezza che andava oltre l’estetica, rispondeva ai suoi ondeggiamenti con impercettibili movimenti in sintonia perfetta con lui. E queste non sono armonie che si incontrano tutti i giorni.

I loro ingranaggi regolavano la fase lunare dell’orologio e il loro avvicinamento fu lento e sempre più carico di passione attesa e complicità. In tutto quel periodo, Romt raccontò la sua barzelletta preferita da tutti con un po’ meno partecipazione del solito e fece fatica a dar retta a tutti i suoi amici che cercavano di trascinarlo nella mischia del divertimento. Spesso non si faceva nemmeno coinvolgere finché da lontano, ma ogni giorno sempre più vicino, Gult non gli faceva un cenno con un sorriso di lasciarsi andare a chi lo cercava così insistentemente.
Gult, dal lato suo, sempre più spesso abbandonava le sue faccende per ammirare l’avvicinamento di quel microbo così affascinante e spavaldo, che arrossiva con tenerezza quando la guardava.

Da poco erano riusciti a scambiarsi reciprocamente i nomi e già pregustavano l’imminente momento dell’abbracciarsi stretti, quando Giovanna stava attendendo con  impazienza l’arrivo dell’amico che non vedeva da tempo. I suoi ricordi erano un po’ offuscati, ma non si ricordava che fosse persona da dover aspettare così tanto tempo. L’impazienza virava velocemente all’insofferenza e il giornale, che stava sfogliando distrattamente nell’attesa, le ricordò che la fase lunare di quel giorno sarebbe stata una bella luna piena e non quella falce appena accennata che riportava il suo orologio.

Armeggiò allora sulla rotella dell’orologio finché la fase lunare non fu posizionata su una bella luna piena e ne trasse quel po’ di soddisfazione utile per dimenticare il disagio del ritardo del suo imminente partner. Soppesò sul polso l’orologio d’acciaio. E il peso greve del metallo le dette  una piacevole sensazione un po’  bondage, che la fece eccitare e sorridere al pensiero che nessuno avrebbe conosciuto il suo piccolo segreto.

Gult e Romt ebbero un incontro intensissimo e sconvolgente. Ma molto, molto veloce, e dovettero fare subito le loro scelte. Gult capì subito che il mondo di Romt non poteva fare per lei. Sarebbe sempre stata un pesce fuor d’acqua, intenta in faccende che gli altri non avrebbero potuto né comprendere, né apprezzare. Romt avrebbe dovuto decidere se abbandonare la sua casa, le sue amicizie, i festini in cui era il mattatore, la sua barzelletta ripetuta all’infinito, tutto in cambio di una semplice incerta perfetta sintonia.

Allontanandosi, ritto e contrastato sulla punta del dente del suo ingranaggio, Romt guardò a lungo Gult con il volto chino intenta nelle sue faccende, sperando che alzasse il suo sguardo. Perché questo è quello che successe.

Ci fu un tempo presente

Confezioni

Ci fu un tempo in cui la nostra vita era sregolata e le nostre azioni schizofreniche.
Ci fu un tempo in cui era normale vedere una banca appianare i propri debiti finanziando l’azienda che avrebbe sottoscritto il suo aumento di capitale.

Era usuale portare sul tavolo della colazione una confezione di brioches dolcemente dorate che emergevano trionfanti e minuscole dopo aver scartato molteplici involucri. Ci si consolava pensando che solo un possente Tir aveva potuto distribuire ai punti vendita tutte quelle confezioni cariche di vuoto, lo stesso Tir che, se l’avessimo avuto a disposizione, ci avrebbe poi fatto molto comodo per portare tutto alla raccolta differenziata.

Era un tempo in cui non ci si stupiva nel vedere prototipi di moto e automobili che usassero  come carburante l’acqua o l’energia solare e si rimaneva fieri nel godere delle nostre code all’ingresso dei distributori, perché l’idea di assieparci tutti sulle rive di un ruscello per riempire la tanica di “benzina davvero verde” per il nostro mezzo, sarebbe stata troppo prevedibile e, allo stesso tempo, incontrollabile.

Costruivamo i nostri nuovi edifici sui parchi in fianco alle cattedrali di vetro e cemento che avevamo abbandonato, perché solo usando la gomma sul colore verde dei prati intorno a noi potevamo sentirci in sintonia con il grigiore delle nostre vite.

Erano anni in cui contribuire a far crescere il PIL era quasi più piacevole dello scambiarsi una carezza alla brezza marina sotto la luce incerta di una falce di luna rosata. Forse anche per quello nei cibi di tutti i giorni ci veniva infilato quel non so ché che ti faceva perdere un po’ dell’attrazione fisica verso l’altro sesso a favore di un cospicuo aumento dei gigabyte da condividere.

E noi ci lasciavamo vivere senza dire nulla, quieti conduttori del filone esistenziale basato sul bisogno del denaro di alimentare sé stesso. E tutto il nostro vivere si stava riducendo a quella semplice regola.

Poi si diffuse il Libro e tutto cambiò repentinamente. Le nuove generazioni dimenticarono presto. Le logiche di quegli anni passati divennero subito incomprensibili. Ricordo ancora bene, quando ancora la famiglia si ritrovava unita per il pranzo di Natale, e cercavo di raccontare ai nipoti venticinquenni come vivevano i loro coetanei di quel tempo lontano. Partivano interessati, iniziavano a farti domande, si chiedevano come poteva essere stato possibile che le conoscenze dei loro coetanei, la loro voglia di fare non sortisse altro effetto se non lavori sottopagati, o addirittura non pagati del tutto. Ascoltavano racconti di giovani che raccoglievano gloria nel partecipare a progetti che, se avessero avuto successo, avrebbero dato loro solo altra gloria. Ascoltavano … ma poi si facevano guardinghi e increduli, con un’espressione sul volto come se stessero pensando: “Che cazzo stai dicendo, nonno?”.

Com’è difficile immaginare il vivere in un mondo ormai scomparso completamente, quando le regole su cui si basava vengono soppiantate da nuovi principi.

Ora io sono solo un povero vecchio, uno dei pochi ancora abbastanza lucidi da ricordare quei tempi che non ci sono più. Perché a noi viveur dell’undicesima decade oggi ti tengono in funzione sempre ad ogni costo, perché tu sia un vessillo del progresso medico. Ma invero, a giudicare dai numeri, essere autosufficienti e autocoscienti a questa età è un privilegio che non credo abbia nulla a che fare con la scienza medica, mentre vivere senza vivere incrementa i numeri della Sanità ma non le nostre fortune.

E così sono uno dei pochissimi fortunati che può dirlo con certezza, ora che non è più una onta parlarne: a quel tempo sapevamo tutti benissimo che la vita che conducevamo in quegli anni che furono, non sarebbe potuta continuare a lungo con quelle sue regole anacronistiche … e, nonostante questo, continuammo imperterriti con una specie di sorriso disegnato sul nostro volto. Continuammo imperterriti.

Riaprire la ferita

chirurgo_innammorato

Non mi era mai capitato qualcosa di simile prima di allora.

L’avevo incontrata già diverse volte, e, a dire il vero, il suo viso dai lineamenti dolci e non elaborati mi aveva sempre ammaliato e i suoi modi gentili avevano ormai conquistato il mio animo.
Fu però solo qualche tempo dopo, quando fummo più vicini e affiatati, che lei si spogliò con naturalezza e io, da allora, non fui più lo stesso. Sono fermamente convinto che, dentro ognuno di noi, dimori una tensione inarrestabile verso la forma estetica perfetta per i nostri schemi sentimentali. E lei incarnava la mia personale forma perfetta.

Rimasi folgorato. Incapace di capire cosa stava accadendo, capace solo di vivere maldestramente delle emozioni che non avrei mai più potuto sentire con la stessa intensità.
Quella volta non riuscii nemmeno a toccarla più che tanto. Mi sentivo come quando arrivi a casa da un negozio con un oggetto luccicante, da sempre sognato. E’ tuo! Ma non osi nemmeno sfiorarlo per paura di sporcare con le tue umide impronte la sua superficie. Come avere tra le mani l’oggetto delle tue brame, ma sotto la maglia continui ancora a sentire la pelle d’oca alta mezzo centimetro.

Da allora, fu necessario vedersi sempre più spesso e, al di là delle parole dette, lei comprese sempre meglio la crescente attrazione esercitata su di me dalla sua magnetica presenza.

Difficile da credere, lo confesso, io stesso sono attonito. Nonostante la perfezione di ogni particolare, arrivò il giorno funesto in cui io rovinai tutto. Nel momento della verità, dentro di me fui assalito dal panico, fallii miseramente e distrussi tutto, prima con i gesti e poi, più tardi, con le parole. La ferii profondamente e la feci soffrire al punto che, ogni volta che ci ripenso, e vi garantisco mi succede centinaia di volte al giorno, mi sento mancare.

Ci volle del tempo perché tornasse ad avvicinarsi. La convalescenza dal mio scempio, evidentemente, fu tutt’altro che facile da sopportare e io mi sentivo troppo colpevole per fare qualsiasi passo.
Quando incontri un angelo, però, lo riconosci facilmente, perché non solo la sua presenza ti sconvolge, ma quando tu sbagli, lui alla fine si disinteressa ai segni che hai lasciato sul suo corpo e sulla sua anima. Trova sempre, inspiegabilmente e con dolcezza, il modo di far rinascere in te stesso la fiducia che credevi persa irrimediabilmente. Per me, con lei, fu così.

Ora era lì, davanti a me, silenziosa conseguenza di un suo non lontano, sorridente “Forza! Ci riproviamo!”. La guardavo ammaliato mentre, finite le sue allegre esortazioni, era già con gli occhi chiusi nell’attesa. Sapevo bene cosa dovevo fare, ma dentro di me avevo solo voglia di abbracciarla, per poter stringere il suo volto perfetto con le mie mani nascoste tra i suoi lunghi capelli. Lì, sarei stato onesto, solo io e il suo viso, e avrei avanzato la richiesta: “Lasciami per sempre solo, con il mio amore per te libero dall’urgenza di dimostrare qualcosa a qualcuno. Stammi vicina solo per il fatto di essere il mio sogno, non perché io sia il tuo bisogno “.

    ——

L’infermiera alla mia destra, esperta e carina, si avvicinò in silenzio con un fare disinvolto, completamente noncurante del fatto che il suo seno fosse arrivato a destinazione molto prima di lei.
– Le passo il bisturi, dottore? – disse fissandomi con un ossequioso mezzo sorriso dipinto in volto – O aspettiamo che la ragazza si risvegli prima di cominciare? – finì la frase virando il mezzo sorriso in una strizzatina d’occhio enigmatica.

Il finale non è nella corsa

Corsa_finale

Non mi era mai piaciuto correre.
E non sapevo nemmeno bene come mai, nonostante questo, da alcuni anni a quella parte ogni volta che potevo mi cimentavo in una inusuale, faticosa corsa campestre tra canne riverse sui canali e uccelli del malaugurio. Non sceglievo momenti qualsiasi della giornata. Esisteva un unico frangente buono per mettere alla prova il mio fisico: l’una del pomeriggio, sotto il sole, preferenza per le giornate di intensa canicola.

Io credo che questo correre fosse il mio modo per scongiurare il crescere della mia pancia: conoscevo bene ogni suo difetto. E forse rappresentava anche la nuova strada per allenare me stesso a dare, ogni giorno, tutto quello che avevo dentro di me per limitare i miei rimpianti. Amavo il silenzio del vuoto di anime dei luoghi accaldati che percorrevo e amavo il vociare della natura che cicalava, stanca padrona di quegli argini soleggiati.

Quel giorno, ricordo ancora benissimo, calura e afa gareggiavano per primeggiare nei pensieri degli uomini e nei disperati spazi riempitivi dei telegiornali vacanzieri. Il termometro segnava trentacinque gradi all’ombra e ogni desiderio di movimento era frenato dalla appiccicosa sostanza che copriva i nostri corpi.
Con il caldo, le persone perdono facilmente sensibilità e gentilezza, e alla notizia della mia imminente corsa, vi fu una vera inaspettata insurrezione popolare nei dintorni della mia abitazione. Scopo dell’insurrezione: tenermi ancorato alle mura di casa.

Fu allora che estrassi tutto il mio orgoglio e la mia spavalda simpatia, e liquidai sul nascere ogni principio di insurrezione con un perentorio sorriso:
– Non temete, state tranquilli, se starò per morire … vi avviso!  –

Ma mia figlia adolescente rispose con una prontezza che mi sorprese:
– Ma Papi, … dicono tutti così! –

Fu così che quel giorno affrontai la mia corsa pensando al racconto che avrei scritto di lì a poco. E non sentii il caldo intenso perché era come se, fendendo l’immobile aria torrida, fossi protetto dal mio nuovo mantello di giovane saggezza.

Il tempo asincrono

Questione_di_tempo

Per quanto ci si muovesse con circospezione nel nostro mondo, il tempo in cui vivevamo era sempre un po’ disgiunto dai nostri sentimenti e dai nostri desideri. Ci avvicinavamo ad un passaggio importante della nostra vita e la sua intensità cresceva limitata e asintotica, perché non eravamo mai completamente presenti a quel momento. Esistevamo, lì, vicini l’uno all’altra nello stesso istante, ma nel contempo, era come se tutto ci sfuggisse  via lasciandoci con il sapore delle cose incomplete e delle occasioni perse.

Era un po’ come vivere un sogno carico di emozioni, ma dai contorni drogati e sfocati. Ogni evento aveva in sé la perfezione, ma eravamo in continua tensione verso il passato o verso il futuro, mai verso il presente. Perché accadesse questo con le nostre vite non lo sapevamo, né sembrava esserci modo per risolvere l’enigma che portava ogni istante del nostro affetto lontano dalla dinamica oscillazione dei nostri sentimenti.

Io credo fosse soprattutto paura del futuro. Paura che il tempo ancora lontano potesse cancellare la gioa del momento presente. E ogni carezza era intrisa dell’ombra di quell’improbabile futuro.

Poi, un giorno, invece, non fu più così.

Ritardo

sampietrini

Camminava quanto più veloce le era possibile. I tacchi erano un impedimento non tanto per la loro altezza, il problema era che mal si adattavano al selciato di sampietrini che lastricava la strada del centro. Anzi ad essere precisi più che non adattarsi alla strada risultavano assolutamente compatibili con tutte quelle fessure in cui andavano pericolosamente a conficcarsi.

Sta di fatto che rischiava di arrivare tardi all’appuntamento e questo le metteva ansia. Un tempo per un appuntamento come questo si sarebbe tranquillamente fatta attendere, il tutto avrebbe dato un’aura di misterioso distacco al suo fascino, ma oggi le situazioni erano differenti, le occasioni meno frequenti e minore era pure la confidenza nella propria avvenenza.

«Carla!» all’inizio non ci fece caso «Carla!». La seconda chiamata era stata più secca e decisa. Si voltò in direzione della voce.«Che piacere incontrarti qui, Carla.» Francesca si stava dirigendo verso di lei e nonostante fosse ancora lontana già protendeva le braccia in un inizio di stretta affettuosa. «Non sai quanti giorni sono che avevo voglia di chiamarti!»

Arrivate a tu per tu si strinsero affettuosamente. I loro seni abbondanti furono compressi tra di loro e per qualche strano motivo quella stretta forte ed affettuosa mise Carla subito a disagio. Si staccò immediatamente e prese a dire:
«Ciao Francesca, è un piacere vederti anche per me. Devi scusarmi, ma non ho molto tempo perché sono in ritardo per un appuntamento. Ma sono molto contenta di averti incontrata. Come stai?»
«Tu sapessi, Carla. Quanto tempo è che ci conosciamo? Vent’anni?»
«Ventitré per la precisione.» Carla era sempre stata la più precisa e misurata
«Beh, in tanti anni non sono mai stata così male. Ho proprio bisogno di confidarmi con un’amica come te. Non so come comportarmi e volevo chiamarti già da alcuni giorni perché mi aiutassi a capire cosa devo fare.»
«Ma ci siamo visti appena qualche sabato fa a cena con il tuo Fabio e con quel cialtrone di Roberto. Te lo ricordi che scemo? Come si fa a rimanere senza benzina, come una donnicciuola senza cervello? Potevi prendermi in disparte e raccontarmi tutto e salvarmi per un po’ dalle grinfie di quel deficiente. Se non era per tuo marito che lo portava indietro a casa per primo …»
«Ecco appunto! Proprio Fabio …» Carla sembrava non capire. Francesca riprese subito la parola «Ho bisogno di parlarti di Fabio. Di me e di Fabio, non so cosa fare.»
«Dal tono della voce capisco che è una cosa grave e complicata.»
«Lo è!» disse Francesca, ma prima che riuscisse a continuare Carla riprese.
«Ne dobbiamo parlare con calma. Ti vedo sconvolta. Ma adesso proprio non ho tempo perché sono in ritardo. Mi dispiace.» mentre parlava, quasi a sancire la situazione, il telefonino di Carla sussultò per l’arrivo di un messaggio. Carla lo estrasse dalla borsa enfaticamente e nervosamente e lo infilò di nuovo senza leggere il messaggio. «Mi sa che devo proprio andare.»

«Fabio ha un’altra donna!» Francesca pronunciò le parole senza alcuna intonazione, ma gli occhi le si andavano inondando di lacrime. «Cioè non ne sono sicura. Ma da settimane ho questo sospetto.» Carla non sapeva bene cosa fare e le sembrò che abbracciarla fosse la cosa migliore.
«E’ troppo gentile. Molto più di un tempo. E fa l’amore con me come non lo facevamo da tempo.» Carla si ritrasse indietro come indispettita per il fatto che l’amica la stesse prendendo in giro. Francesca riprese. «Può sembrare sciocco, lo so, ma non lo è. Il modo con cui mi tratta … significa che ha un’altra, ne sono sicura.»

Un altro sms si fece strada dalla borsa di Carla, che con un ampio gesto quasi di scusa pescò il telefonino e tenendolo in mano disse.
«Ora devo proprio andare Francesca. Ma appena mi libero ti chiamo e ci mettiamo d’accordo per trovarci da qualche parte e parlare con calma. Mi dispiace. Ma non pensarci, vedrai, ne parliamo un po’, ti sto vicina, e con il mio aiuto vediamo di capire meglio e trovare una soluzione.» Francesca annuì con gli occhi gonfi ed un sorriso forzato, mentre Carla era già partita e con la testa voltata le dava un ultimo saluto carico di comprensione.

Fatti dieci passi, Carla rassettò la minigonna e con un gesto incurante degli altri passanti ammorbidì sul proprio seno la camicetta stropicciata dagli abbracci. Poi prese a rispondere all’ultimo sms:
“Scusa Fabio, un piccolo contrattempo, non andare via sto arrivando. Ti amo.” e già che c’era ne inviò un altro. “Ma sbaglio o eravamo d’accordo che non avresti fatto più niente con Francesca?”