Caramelle dagli sconosciuti: la legge sui cookies

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Oggi è l’anniversario zero dell’entrata in vigore della Legge sui Cookies.

Devo essere sincero scrivere qualche riga su questo tema, mi fa entrare in uno stato vagamente itterico, ma non di meno mi sembra di dare un senso alle ore che ho dedicato ieri ad improvvisare per il mio blog una parvenza di allineamento ai dettami delle nuove regole.

Nell’ultimo periodo è stato tutto un rimpallarsi di commenti su questo tema tutt’altro che appassionante, da una parte all’altra di questa piattaforma e di altre disponibili sul mercato. Ovunque si percepiva paura, perché le sanzioni promesse “a pioggia” su chi non si adegua sono davvero importanti.

Ora, da buon italiano, mi sono ritrovato all’ultimo momento a cercare di capirne di più e a correre ai ripari da una situazione completamente fuori dal mio controllo. Ma soprattutto sono rimasto assai perplesso e un po’ amareggiato nel vedere molti blogger addirittura desistere dal continuare a scrivere o affrettarsi a cambiare mondo di riferimento per “ottemperare” più facilmente a queste nuove regole.

Le nuove regole. Bisognerebbe capirne bene lo spirito di queste nuove regole. Perché, anche leggendo i provvedimenti emessi sul tema, non sono chiarissimi, per lo meno a chi non è addetto ai lavori, i fini precisi. In questi regolamenti manca completamente una proporzionalità tra la mancanza di etica di chi gestisce il sito e il rischio di sanzione in cui egli incorre.

Mi chiedo il senso che possa avere una norma di questo tipo in cui non siano chiaramente deresponsabilizzati tutti coloro, come noi utenti di wordpress.com,  che non sono minimamente nelle condizioni di decidere, controllare e gestire alcun cookie e alcuna informazione di profilazione utente.

Se si volesse pensar male, verrebbe da dire che una norma così generica e raffazzonata potrebbe solo offrire nel tempo un buon motivo pretestuoso per andar contro a chiunque avrà qualche idea scomoda, o potrà criticare qualcuno a torto o a ragione, o si sarà opposto a qualche potente. Perché in questo mondo di oggi, teso e litigioso, una denuncia al Garante o un giudice che approfondisca un presunto reato non si fanno fatica a trovare.

Qualche giorno fa avevo scritto un articolo, per motivi tutti diversi, e tra quelle righe si può scovare qualcuno degli aspetti per cui più che la regolamentazione, sopratutto l’etica, nel web andrebbero potenziate. E alla fine della giornata di lavoro di ieri su questi benedetti cookies, mi sono convinto ancor più di questo. Anche perché dopo aver letto il regolamento del Garante, sono finito sui siti linkedin e youtube del Garante, qualcosa spiegano pure, ma nei loro siti di loro banner sull’accettazione all’uso dei cookies nemmeno l’ombra. 😀 Pensate! Per spiegare la nuova regola ci portano dritti dritti nella tana dei leoni.

Un caro amico sostiene che nel mondo del lavoro la cialtroneria impera.

Ecco l’estrema sintesi che mi è rimasta di tutta questa storia. La legge sui cookies (i dolcetti) regolamenta bene come sconosciuti e conosciuti devono allungare le loro caramelle verso noi bambini che iniziamo a navigare nel mondo del web.

Ma se volessimo applicare un paragone con il mondo reale è come se da oggi sapessimo bene come avvisare chi ci sta vicino che stiamo estraendo il coltello a serramanico dal nostro zaino per avere il suo consenso a farlo.
Poi se il coltello lo usiamo per incidere le nostre iniziali su un tronco con un cuoricino nel mezzo o se lo usiamo per squartare chi ci sta vicino non importa, questa è una questione, almeno per ora, secondaria.

Il difetto dei limiti

Cena_In_Terrazzo

Accade nella vita di incorrere in momenti di solitudine. Ieri sera alla fine di una giornata di assoluto relax, persa a muovere il corpo da una posizione di riposo all’altra, mi sono ritrovato nella situazione inusuale di poter decidere cosa fare del residuo tempo crepuscolare della mia giornata. Chi mi conosce sa che non è propriamente un delitto se ogni tanto passo qualche ora di cazzeggio, nell’assoluta apatia, così come sa bene che non sono un amante dei mega ritrovi di persone, troppo spesso cariche del bisogno di primeggiare in perfezione con gli astanti.

Ieri tuttavia non avrei disdegnato il passare una serata con qualcuno a scambiare qualche pensiero davanti ad una birra o ad una pizza o, perché no, dopo un film. E ci ho anche provato, ma, come spesso accade in questi casi, la probabilità di incontrare la disponibilità delle persone intorno a noi è inversamente proporzionale al bisogno che noi abbiamo di passare del tempo con loro.

La solitudine certe volte è pesantissima da sopportare, altre volte invece è una specie di varco che ci porta a sondare una parte di noi stessi su cui spesso non abbiamo la costanza e la coerenza di riflettere. Così ieri sera sono finito a cenare tutto solo in terrazzo, di fronte a un crepuscolo nemmeno particolarmente colorato, con un paio di bicchieri di vino e due piatti molto semplici, gustati con calma in attesa del film noleggiato per l’occasione scelto opportunamente tra quelli che ti consentono di scollegare il cervello.

Mentre cenavo, complice l’entrata in circolo di un po’ di grado alcolico e la musica jazz vagamente melanconica proposta dalla playlist youtube lasciata libera di agire, senza accorgermi, sono finito a far divagare la mente in uno dei miei ragionamenti color pastello perennemente incompiuti …

Si sperimentano quotidianamente le difficoltà che dobbiamo fronteggiare per dare un senso compiuto alla nostra vita. E tra tutte le difficoltà che incrociamo, anche se spesso ci piace rivolgere la nostra imprecazione verso altre destinazioni, i nostri limiti personali rappresentano il vero scoglio su cui ci infrangiamo più spesso.

Chi più chi meno, brancoliamo tutti nella più ineluttabile confusione tra dove siamo e dove vorremmo essere, tra dove potremmo andare e dove le persone intorno a noi ci lasciano andare. Siamo tutti ricchi di limiti. Limiti fisici, legati alla nostra persona, limiti fisici, legati a cause esterne. In primis, il tempo che abbiamo a disposizione, per noi stessi e per le persone a cui vogliamo bene o che ci vogliono bene. Limiti caratteriali, che nelle situazioni più disparate che ci propone la vita ci fanno costantemente oscillare tra l’inadeguato e l’inopportuno, tra l’insensibile e il troppo bisognoso di affetto. A volte riusciamo anche a superarli i nostri limiti, ma la sensazione che ne traiamo non è sempre piacevole. Specialmente quando ci accorgiamo che i limiti, buttati alle nostre spalle con grande difficoltà, di fatto erano inesistenti, erano quelli che ci eravamo regalati da noi, solo per autolimitarci, e per mascherare le nostre paure dietro un vuoto paravento.

Anche quando ci sembra di attraversare un periodo in cui tutto pare funzionare nel miglior modo possibile, la nostra esperienza ci insegna che una nuova rivisitazione è nell’aria, perché qualcosa su cui scontrarci la troviamo sempre e, se proprio non ci imbattiamo in nessun ostacolo, entra in gioco quello che forse è il nostro limite ultimo (e nel contempo anche il motivo per cui l’umanità è sempre in evoluzione), quel gene che abbiamo dentro che non ci rende mai contenti, arrivati ad un traguardo sentiamo il bisogno di superarlo e lasciarcelo alle spalle. Anche se quel traguardo ha a che fare con la nostra serenità. In fondo serenità e noia hanno i loro campi che condividono lo stesso confine.

Ecco, ieri sera, in una cena solitaria in terrazzo, mi sono passati davanti tutti i limiti di cui sono portatore sano, tutti i principali per lo meno. Non ha senso condividerli, è più saggio lasciarvi con i vostri. Ma mentre li scorrevo ad uno ad uno, mi è stato chiaro qual’è il loro denominatore comune.

Ai nostri limiti piace viaggiare in gruppo e combinare le marachelle tutti assieme nella nostra vita, giusto per farci ricordare sempre con affetto che loro ci sono, sono tanti e sono tutti nostri.

Il difetto della pancia degli uomini

Parmigiano

Chi mi conosce a sufficienza sa che io ho un’avversione profonda per la pancia.

La mia pancia in primis e la pancia degli uomini in seconda battuta. Il ventre delle donne ha invece innatamente una dolcezza e una sua ragion d’essere che trascende la sua dimensione. Ma in un uomo, lo stomaco che tenta di fagocitarlo, l’intestino che avvolge il suo girovita, la forma dinoccolata e spesso pelosa della sua area pretoracica, rappresentano un distintivo troppo forte della sua esistenza.

Lo so, riconosco che ai più questo articolo non può che risultare oscuro. Una riflessione nata sul limitare dei filari della vigna dell’irrequietezza o delle pile di Parmigiano Reggiano che vorremmo ingurgitare. Eppure nella mia vita ho visto troppe volte il mio stomaco gonfiarsi e sgonfiarsi,  diventare a tratti un ostacolo al moto browniano della mia vita e altre volte accompagnarne la dinamica evoluzione in luoghi inesplorati.

Quando l’uomo lascia spazio al suo stomaco entra in un vortice in cui il suo ventre alimenta sé stesso e una parte della sua anima viene sostituita dal suo atavico bisogno di sopravvivenza alimentare. E spesso in quei frangenti vengono fuori i segni di uno spirito che non amo: orientato all’immobilità, crogiolato nelle negative contingenze, falsamente soddisfatto di un esistenza ricca di fugaci acquisizioni e ancor più perentorie evacuazioni.

Non credo che queste poche frasi sulle pance degli uomini possano applicarsi a tutti i soggetti maschili della razza umana, sicuramente non si applicano alle donne, sicuramente ci sono eccezioni che sovvertono facilmente l’essenza dei miei pensieri. Tuttavia non raramente mi capita di imbattermi, specialmente negli uomini della mia età, in persone il cui ventre entra in scena molto prima di loro, portandosi dietro il resto di un corpo arreso alla vita o arcignamente segnato dal cinico egoismo, che culmina in un volto che mi ricorda sempre che all’avanzare dell’età l’abbrutimento del nostro aspetto spesso segue di pari passo quello del nostro animo.

Ecco, forse più che a vivere per ottenere straordinari successi, i nostri genitori avrebbero dovuto insegnarci a combattere il processo che insistentemente vorrebbe portarci dall’onorato invecchiamento verso la deriva morale e fisica del nostro animo.

La meccanicità della vita

Meccanica_nella_vita

La vita è soprattutto un susseguirsi continuo di momenti, per ognuno dei quali, al di là dell’intensità con cui riusciamo a viverli, si costruisce l’essenza della nostra esistenza. Tutto scorre apparentemente guidato dalle nostre scelte e dalla complessa interazione con le persone che abbiamo vicino, fino a creare un percorso non dissimile a quello che segue un treno. Noi saliamo in una carrozza, mai sulla motrice, e al più possiamo scegliere di scendere alla prima, alla sesta o alla decima città sul percorso. Altro non ci è dato.

Poi ci sono pochi, strani passaggi, in cui capisci appieno che ognuno di noi si ferma per un po’. Deve fermarsi per il tempo necessario a capire dove si trova. In quei frangenti siamo  pienamente coscienti che la meccanica sequenza di eventi della nostra vita è più che altro una convenzione stereotipata di ciò che vorremmo essere. E’ lì che si sperimenta il desiderio folle di tirare la leva del freno di emergenza del treno, per poter scendere in mezzo ad una campagna sconosciuta e respirare un po’ di aria inattesa.

Cercare noi stessi

Cercare

Leggo da Wikipedia che nel settembre ’97 è stato registrato il dominio di Google, mentre la società è stata fondata circa un anno dopo. Posso dunque ritenermi uno dei pochi fortunati personaggi della storia dell’umanità che sono nati nel periodo giusto per vedere nascere uno dei miti della modernità.

Ricordo ancora gli albori di quel periodo in cui di contenuti in rete non ce ne erano poi tanti e il motore di ricerca era uno strumento davvero utile per scovare la risposta buona alle domande più disparate. La questione più ammaliante di quel tempo un po’ pionieristico, mi verrebbe da dire non dissimile a come deve essersi presentata la Corsa all’Oro non tantissimi decenni prima, credo possa essere ricercata nel fascino della scoperta continua, della assenza di regole e della competizione ridotta.

Quando leggo qualcuno rimembrare le sue esperienze di blogger di vecchia data, con alle spalle dieci e più anni in questo mondo articolato e ricco della creazione di contenuti, non vi nascondo provo vera invidia e molta ammirazione. Credo che la Corsa al Web sia stato un momento epico e, per chi ne ha fatto parte attiva, credo sia un diritto inalienabile il potersene fregiare.

Non mi dilungo oltre nelle premesse. Lavoro nel mondo web si potrebbe dire dalla sua nascita e ho visto crescere il Motore di Ricerca da quando non era il solo padrone della piazza. E ho visto evolvere la Rete da quando era una accozzaglia spontanea e senza regole di esigenze inespresse fino ad oggi in cui il superfluo, il ricco e l’effimero regnano sovrani. Un tempo Google era un utile strumento. Oggi è indispensabile. E’ così indispensabile da non essere nemmeno più uno strumento. Oggi è più simile ad un baricentro.

Assieme e intorno a lui è nato e si è consolidato un articolato agglomerato di luoghi virtuali di ritrovo e di interscambio. La Rete oggi ha degli impatti che nemmeno immaginiamo nella loro devastante portata sul nostro umore, sugli affari nostri e delle nostre aziende, sui nostri desideri e la possibilità di realizzarli, sulle nostre potenzialità inespresse e su quelle che esprimiamo a vuoto. Quando ci penso con un po’ più di profondità provo sensazioni molto simili a quando mi avvicino ad uno strapiombo. Perché io soffro di vertigini.

Per lavoro, cerco spesso sui motori di ricerca, soprattutto aziende, e mi capita di vedere imprese solide e affermate comparire molto in giù nei risultati, a volte molto dietro a piccole realtà, che, se vai ad indagare un po’, sono poco più di un piccolo ufficio. Invece non mi cerco mai personalmente sui motori di ricerca. L’idea di scoprire la fetta insignificante di me che può essere mostrata da chi non mi conosce, mi inquieta un po’. Tuttavia sono cosciente che il Web è un luogo dove, in un modo o nell’altro, si confrontano inevitabilmente le apparenze di tutti quelli che lo abitano. E ovunque ci si trovi virtualmente, a parte quando ci scambiamo messaggi privati, ci si confronta sempre con la mediazione di qualcuno che dipende solo da sé stesso.

L’esperienza blog ha come effetto marginale, ma interessante, quello di farci vedere le dinamiche dietro i motori di ricerca. Ogni tanto sbircio le sparute statistiche di accesso al mio blog. Mi incuriosisce vedere che talora gli accessi al blog arrivano proprio dal Motore di Ricerca. La cosa curiosa è che all’inizio di questa mia scribacchina avventura, con molti meno articoli a disposizione e meno accessi, gli ingressi a partire da Google erano decisamente numericamente più di oggi.

La mia indole naturalmente portata a prediligere il romanzato complotto alla più semplice verità vorrebbe convincermi che dietro al calo degli accessi originati da Google ci sia un raccontino, vagamente anti-Facebook, che ho pubblicato a gennaio. Ovviamente non è affatto così. Avrò scritto male i miei testi o avrò pubblicato troppo poco o troppo oppure semplicemente il caso gioca il suo peso statistico senza curarsi del mio sbirciare sulle statistiche del blog.

Tuttavia credo sia evidente a tutti. Perché non credo di essere un caso isolato. Stai cercando urgentemente un’auto su Google perché la tua è irrimediabilmente guasta, entri in Facebook dieci minuti dopo e magicamente ti vengono presentati post sponsorizzati che ti propongono delle auto. Non auto qualsiasi. Proprio dello stesso modello su cui ti stavi orientando. 🙂 Ascolti una musica su Youtube e ovunque navighi ti vengono proposti album o concerti dello stesso gruppo. Vai su Subito.it a cercare qualche inutilità e ti ritrovi poco dopo sul Motore di Ricerca con le tue parole chiave che vorrebbero mirare a tutt’altro argomento, ma i primi link della ricerca ti presentano proprio il tuo recente passato virtuale.

Quando penso a questi articolati intrecci entro in uno stato di profonda incertezza. Non mi sento di dare nessun giudizio a quel che vedo, capisco le difficoltà della sintesi dei risultati nell’affollato mondo web di oggi e mi sono molto chiari i benefici che possiamo avere dal nuovo mondo, ma nel contempo credo che prima o poi si dovrà dare un verdetto per tutto questo. La Rete sembra ormai presentare una sua anima, pur senza averne una. Sembra comportarsi quasi come quegli amanti che raccolgono tutti i desideri più futili dell’amato, per accontentarlo e accudirlo con mille attenzioni in ogni più piccolo, ordinario capriccio, ma che con lui non riescono a costruire nulla di originale e solido.

E più di qualche volta mi capita che, se sto cercando qualcosa che so che esiste ed è davvero particolare, se sono fortunato lo trovo alla ventesima pagina dei risultati della ricerca o addirittura non lo trovo proprio. Ma ai tempi della Corsa al Web garantisco che non era così. Io c’ero.

Il difetto del possesso

Modellino_Auto

Oggi riflettevo su alcuni accadimenti recenti della mia vita intorno ai quali ruotano una serie di sentimenti molto contrastanti. Nel perdermi in questi pensieri mi sono ritrovato a ragionare a lungo sulle diverse espressioni e sfaccettature con cui si esprimono il possesso e la sua bramosia.

E’ sorprendente come, quando si è giovani, si faccia davvero fatica anche solo a riconoscere che certe nostre azioni seguono l’unica direttrice che ci vorrebbe portare a prendere il controllo di qualcosa.

Non ho molti ricordi della mia infanzia. Tuttavia, tra i pochi, ne ho uno molto nitido. Credo di non averlo mai raccontato, perché un po’ me ne vergogno. E forse questo è il luogo giusto in cui parlarne senza temere troppo il giudizio critico che rettamente potrà suscitare.

Ero all’asilo delle suore, ora naturalizzato Scuola Materna. Ho passato quegli anni tra le sue mura buie e opprimenti con un peso costante nell’animo e la fobia per il refettorio colmo di sapori inconciliabili con il mio palato. Credo che, ad eccezione dei pomeriggi passati placidamente a trafficare con le costruzioni lego, l’unico vero ricordo che mi rimane è di un singolo giorno in cui un abitante dell’asilo, irrequieto e vagamente antipatico, è arrivato nella nostra scuola con una automobilina lustra e finemente lavorata grande quanto il palmo di una nostra mano.

L’ho tenuto d’occhio tutto il tempo, gli sono stato vicino, e ho visto bene, nel suo giocare convulso in cortile, la fuoriuscita dalle tasche del modellino di auto, che ho lasciato nella sabbia alcuni lunghi minuti prima di appropriarmene. Ricordo ancora i pensieri che mi scorrevano nella mente, la bramosia e il peso sorprendente di quel piccolo oggetto metallico, l’ansia del resto del pomeriggio per la paura di essere scoperto. La sera a casa ho giocato libero, ma non felice per quella piccola bellissima macchinina tra le mie mani. Con un gran peso nel cuore che sento ancora tutto.

Pochi giorni dopo, non ci crederete, l’ho persa anch’io quell’auto giocattolo. Forse ancora oggi vaga di cortile in cortile cercando sempre un nuovo giovane proprietario a cui far sperimentare la confusione del possesso.

Qualche anno dopo è arrivato il momento in cui mi sono innamorato di ragazze. A lungo ho dovuto fronteggiare quella diversa forma di possesso che molti preferiscono chiamare nella sua forma più edulcorata. La gelosia è l’essenza di quel bisogno di tenere stretto a sé in esclusiva qualcuno. Quando manifesti questo bisogno esplicitamente varchi la soglia del ridicolo o dell’importuno, quando te lo tieni tutto dentro allora vieni accusato di non amare abbastanza.  Quando si ama e si vuole possedere l’oggetto del proprio amore si sbaglia sempre e si soffre su tutti i fronti.

Di differenti sfumature di possesso ce ne sono un’infinità. Il denaro è un grande istigatore, ma ci sono forme sempre nuove e moderne. Ad esempio nel mondo di oggi, chi possiede le informazioni se le tiene strette e le usa spesso contro il mondo circostante riversandole goccia a goccia.

Nel mezzo di queste insulse divagazioni meditative sul possesso sono finito per immaginarmi quale potesse essere l’etimologia della parola, perché da parecchio tempo a questa parte associo a questo termine una sensazione come di morte. Con un po’ di ingenuità, che a ripensarci ora mi fa sorridere, mi ero convinto che al centro della sua origine doveva esserci la parola sesso. E tutto mi appariva inconciliabile.

Infatti no, decisamente no, l’etimologia parla di tutt’altro. Il possedere è la combinazione dei concetti dominare e sedere. Ogni tanto avere accesso veloce alle informazioni dà soddisfazione. Ora mi appare tutto più in sintonia con le mie sensazioni: il possedere è un po’ come schiacciare, e il senso di morte che ne traggo appare avere un significato profondo.

Il possesso, quando lo sperimenti, ha il sapore della conclusione, della fine di tutto. Uccide il desiderio, schiaccia la persona amata posseduta, rende (se almeno tu hai questa fortuna) il denaro che hai stoccato virtualmente nel conto in banca assolutamente insignificante rispetto a quello che potrebbe diventare accumulando altre ricchezze, banalizza il sapere che hai faticosamente conquistato di fronte ai dilemmi di cui non sai ancora nulla.

Ecco il motivo per cui non amo il possesso ed ecco il motivo per cui, se tornassi bambino, adesso, quella automobile giocattolo la raccoglierei e la darei subito al suo proprietario. Lui un po’ più sbruffone, io un po’ più felice.

Un difetto della musica

Flauto Traverso

Come molte altre persone sulla faccia di questa terra ho una passione, non esagerata, ma continua nei confronti della musica. Sono frequenti le situazioni in cui percorro lunghi tragitti in automobile o altrettanto lunghe serate di lavoro ascoltando musica per rilassarmi. A volte, lo confesso, mi capita di rivivere un singolo brano a ripetizione, senza sosta, per tutto il tempo.

La musica è come una magia. Ti entra dentro non solo attraverso gli organi di senso preposti allo scopo, talvolta investe tutto il tuo corpo e ti pare di sentirla quasi più sulla pelle che con l’udito. Ti entra dentro e ti trasforma.

Io credo che questo suo potere sia legato all’armonia che è in grado di stabilire con il nostro animo. Anzi, forse è l’unica espressione della produzione umana che riesce in qualche misura ad emulare l’equilibrio che talora le persone riescono ad instaurare tra di loro. Perché quando ascoltiamo una musica in sintonia con il nostro stato d’animo ci fondiamo con essa e ci perdiamo nei suoi movimenti armonici e nelle parole delle sue melodie.

Il panorama musicale a cui possiamo attingere è vastissimo e si estende ogni giorno di più. Possiamo abbandonarci ad uno di quei motivetti accattivanti, che per dieci giorni filati ti sembrano una componente irrinunciabile della tua vita, ma poi repentinamente decidi che non lo ascolterai mai più. Oppure puoi abbandonarti ad un ever-green che ogni giorno muove le emozioni di decine e decine di migliaia di persone. Oppure ancora possiamo farci trasportare dal vento di modernità delle playlist randomiche della Rete che ti fanno assaggiare frutti ancora vergini per il tuo palato musicale. In effetti, a ben pensarci, le dinamiche del rapporto con la musica non sono molto dissimili dalle relazioni che sperimentiamo con altre persone.

Si potrebbe parlare dei musicisti, dei cantanti e dei compositori. Penso che nei loro confronti si sperimenti una delle poche occasioni in cui il sentimento di invidia sia davvero giustificato, perché estrarre armonia pura da pezzi di ferro e bocche da sfamare credo sia una fortuna straordinaria. Il buon Dio ha preferito non dotarmi del senso del tempo, né tantomeno dell’intonazione, – evidentemente con me aveva altri obiettivi – e ha preferito concedermi l’opportunità di amare la musica solo di riflesso. Ma spero per questo possa considerare la mia dichiarata invidia con clemenza.

C’è tuttavia una sensazione che si accompagna all’ascolto della musica che io non amo per niente. Fortunatamente mi assale solo qualche volta, ma non sono pochi i casi in cui è così forte che riesce ad azzerare il mio desiderio di lasciarmi trasportare dentro alle note. Vorrei abbandonarmi ad un pezzo amato perché è in grande sintonia con il mio stato d’animo contingente, magari inizio pure ad ascoltarlo e poi … PUFF! … mi viene in mente, vengo assalito dalla convinzione che io, il giorno dopo, quello stesso pezzo, non riuscirei nemmeno a farlo cominciare. Perché sento già che non avrò più la predisposizione giusta, il desiderio di toccare le stesse corde interiori del mio spirito.

E’ una sensazione che si accompagna sempre alla tristezza.

Spesso spengo tutto e mi metto a pensare. Mi sento come in certe fasi iniziali di una amicizia – non so se capita solo a me – quando desidero incontrare una persona perché sono nello spirito giusto per approfondire la nostra sintonia, ma percepisco già che il giorno dopo o io o quella persona non avremo più la stessa predisposizione all’armonia. Se penso alla musica che ascoltavo ieri, oggi mi sembra sicuramente ancora bellissima, ma su di me non può più fare lo stesso effetto. E’ un suo difetto o forse la proiezione dei miei difetti su di lei.

Mi perdo in questi pensieri e mi rattristo ancora di più.

La musica è vera magia per il nostro io interiore, ma porta con sé il germe della superficialità e della instabilità, e asseconda sempre la nostra pessima predisposizione ai cambi di umore.

Spesso trattiamo le persone intorno a noi come brani musicali, ma facciamo un grande errore. Una canzone ci dà gioia e ricchezza, ma noi a lei non diamo proprio niente. Con le persone è o dovrebbe essere diverso.

Un difetto delle donne

Un difetto delle donne

Da alcuni anni a questa parte sono andato consolidando un’ammirazione sempre più convinta nei confronti delle donne. Lo so, e non voglio proprio addentrarmi nelle discussioni relative agli errori che sicuramente si compiono quando si generalizza, tuttavia io credo sia un fatto incontrovertibile che l’energia che sprigiona da una donna, la flessibilità del suo pensiero e la comprensione ampia e intuitiva del mondo che la circonda sono tutti elementi chiaramente più sviluppati nel genere femminile e a mio avviso difficilmente confutabili.

Non sto parlando solo di valutazioni in media, né sto collocando queste mie convinzioni nel contesto di un qualsiasi ipotetico antagonismo tra i generi. Sono convinzioni che più tempo passa più si radicano. Il genere maschile ha altri pregi, differenti. Anzi forse, mi verrebbe da dire, il genere maschile tende ad essere molto forte su alcuni tratti caratteriali che per loro natura sono bivalenti. Possono essere a seconda della circostanza e del campo di applicazione un grande pregio oppure una funesta sventura. Ma l’obbiettivo di questo articolo è quello di accendere un piccolo riflettore su una sfiga comune a quasi tutte le donne e quindi degli eventuali pregi degli uomini, ammesso che ce ne siano, per oggi ci dimentichiamo. Dei difetti degli uomini, poi, non ci possiamo proprio occupare in questo blog, perché questo luogo virtuale, come dichiarato in un vecchio articolo, concede spazio solo ad articoli di dimensione contenuta. 😉

Bene, veniamo al sodo. Nel tempo ho vissuto sulla mia pelle e ho visto in mille casi quella che mi sembra una caratteristica peculiare e diffusissima in tutte le donne. E’ un tratto che compare quasi dal nulla e rimane seminascosto dietro ai loro modi gentili e alla dolcezza, sensibilità ed eleganza che contraddistingue il loro agire.

Non so se vi è mai capitato di osservare, ma, quando una donna raggiunge un adeguato livello di confidenza con una persona, specialmente se dell’altro sesso, arriva sempre il momento in cui si fa strada in lei una convinzione inamovibile. La certezza che solo lei sa cos’è bene per la persona che ha vicino. Più della persona stessa.

Che sia un figlio, un amico, un amante, un marito o qualsiasi altra figura a lei vicina a cui lei vuole dell’affetto sincero, in lei scatta in automatico questa improvvisa visione profonda di cosa sia necessario a quella persona per stare bene, per essere completa, per vivere serena e non commettere errori.

Io credo che questo sia un effetto collaterale, sicuramente tollerabile, ma estremamente spiccato e a tratti limitante, del gene della maternità che esse portano fortunatamente con sé.

Senza questo effetto collaterale molte di loro sarebbero assolutamente perfette.

Sullo scrivere in un blog

Scrittore

Sono ormai alcuni mesi da quando ogni tanto scrivo qualche frase in questo spazio virtuale. Ormai ho elaborato dei testi in quasi tutte le situazioni: di giorno, di notte, a lavoro, passeggiando lungo la campagna puntellata di nutrie, mangiando riso in bianco ricolmo di peperoncino,  da solo in mensa, ai bordi di una tavolata di ragazze mozzafiato agghindate per far colpo nel magico mondo del business. Talvolta in preda all’allegria, a volte circondato da una tristezza profonda.

Ho capito due cose in questo tempo trascorso qui. Quello che si vorrebbe scrivere è molto di più di quello che si riesce a condividere, anche perché, anche solo rileggendo dopo pochi giorni quello che si è scritto, si scopre quanto sia tremendamente facile lasciare dentro la propria testa pezzi di ragionamento fondamentali. Brilleranno come grandi assenti nel pensiero degli avventori che saranno inevitabilmente portati a chiedersi fino a dove arriva il livello di oscurità della mia psiche.

Ho capito anche un’altra cosa. Quando si parte si vorrebbe parlare di certi temi, magari dare un taglio definito al percorso del proprio blog. Poi invece, giorno per giorno, si scopre che il bello sta proprio nell’improvvisare una strada che forse alla fine arriverà vicino a dove si era pensato di andare, ma lo farà sicuramente sorprendendo solo noi stessi.

Dovrei parlare di argomenti tutti diversi e invece mi ritrovo a dilungarmi in inutili riflessioni sullo scrivere in generale, mentre penso al prossimo raccontino in via di pubblicazione, un raccontino un po’ così, che magari, se qualcuno lo leggerà, potrebbe pure scandalizzarsi.

La verità più autentica è che quando si comincia qualcosa di nuovo, siamo soprattutto, inevitabilmente dei bambini. E questa sensazione è forse l’unica ragion d’essere di questo luogo.

Il principio di indeterminazione applicato alle relazioni umane

L'autore_si_dispera

Il principio di Heisenberg rivisto

Nella fisica quantistica esiste un famoso principio, il principio di indeterminazione di Heisenberg, che sancisce come non sia possibile sapere nulla di esatto. Appena si cercano di approfondire i dettagli, appena si cerca di misurare con la massima precisione possibile un sistema o una qualsiasi sua componente, inevitabilmente, con la nostra presenza, perturbiamo il sistema stesso e quello che da lui riusciamo a recepire non è più quello che lui era in origine.

Quando si affrontano questi temi della fisica diventa difficile non sentirsi trasportare alla periferia della filosofia. Gli stessi testi con i quali è stata sviluppata la teoria, riportano frasi che fanno pensare:

Nell’ambito della realtà le cui connessioni sono formulate dalla teoria quantistica, le leggi naturali non conducono ad una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo; l’accadere è piuttosto rimesso al gioco del caso

Recentemente, accadimenti personali, sicuramente non dissimili da milioni di eventi analoghi che tutte le persone sperimentano ogni giorno, mi hanno fatto riflettere molto su questo principio e sul fatto che esso si può applicare, con le dovute riproporzioni, ad una infinità di altri ambiti.

Nelle relazioni umane, poi, il principio di indeterminazione e le sue conseguenze spesso tutt’altro che piacevoli, si applicano con una precisione che io trovo sconcertante. Anzi ho il sospetto che alla base di una parte dell’incomunicabilità che a volte assale le persone ci stia proprio questo principio.

Come nella fisica se si cerca di misurare qualcosa lo si modifica al punto di non poter sapere com’era in realtà, così nell’interazione tra gli uomini la comunicazione reciproca modifica continuamente i comportamenti.

Quando poi la relazione coinvolge la sfera sentimentale il fenomeno esplode.

Perché è naturale voler misurare l’altro, sapere quanto è in sintonia con il nostro sentire, e vogliamo che la nostra percezione sia perfettamente in linea con quello che l’altra persona realmente prova e non con quello che noi vorremmo che lei provasse per noi.

E lì cominciano i problemi.

Non possiamo accettare che la persona che ci è vicina non sia naturalmente sé stessa, perché vogliamo conoscere esattamente come vive la nostra interazione. Ma non possiamo avere la sua spontaneità se trasferiamo il nostro sentire, le nostre emozioni e i nostri desideri senza nessun filtro, perché automaticamente modificheremmo i suoi comportamenti. Il nostro affetto potrebbe “costringere” la persona a seguirci anche al di là di quello che autenticamente prova, la comunicazione esplicita dei nostri desideri potrebbe “facilitare”, rendere banale e privo di sostanza il compito delle persone che vogliamo si avvicinino ai nostri bisogni. Vogliamo che lo facciano nella piena libertà, e senza vanificare la purezza della nostra relazione.

E’ un meccanismo intrinsecamente inevitabile e tristemente spietato. Interagire, vuol dire un po’ misurare l’affinità di chi abbiamo vicino. E per valutarla avremo bisogno di “perturbare” la sua spontaneità. E la misura che ne deriveremo difficilmente ci potrà condurre alla completa comprensione di quanto vicini realmente siamo.

Io credo che questo principio stia alla base dell’incomunicabilità tra le persone, molto di più della loro presunta incompatibilità. Quest’ultima spesso è più il risultato del bisogno del non dire e del non condividere che sta alla base dei meccanismi che ci servono per capire meglio come siamo fatti. Proprio come i fisici, che per studiare le traiettorie delle particelle fanno finta di non essere interessati alle particelle stesse, ma vanno a vedere gli effetti che esse generano intorno a loro.

E, non credo sia una coincidenza, anche nelle relazioni umane, come nella fisica, “il gioco del caso” finisce spesso per avere un peso determinante. Perché diventa l’elemento chiave per risolvere l’indeterminazione di fondo di ogni nostra dinamica.