Del toccare il cielo con un dito

Toccare_il_Cielo

Qualche giorno fa ero con un mio caro amico, mi ha mostrato alcune sue foto e abbiamo convenuto che queste erano buone foto da utilizzare per un articolo nel mio blog. Con quattro semplici click Tom le ha condivise e mi accingevo ad utilizzarle. Credo siano state scattate dal suo aviogetto superveloce, nel mezzo di uno dei suoi viaggi in missione segreta verso Cosenza. Perché Tom è un agente segreto. Più volte la Lega Stellare ha ingiustamente e senza successo cercato di collegare la sua identità con quella di un noto pericoloso narco-fabbricante di gemelli.
Si chiama così, ne sono quasi certo, perché mischia nello stesso uomo la dolcezza del personaggio di Tom & Jerry con la medesima accattivante instancabile energia di un Tom Cruise in Mission Impossible.  Come riprova di queste sue impavide caratteristiche ho saputo che di recente ha disinvoltamente fatto la pipì al cospetto dell’intera Via Lattea, al buio, dalla cima di un pericoloso burrone dal minaccioso nome di “Peron del Moz“.

Mi apprestavo dunque,  gustando un po’ di magime vegan,  ad utilizzare una delle sue foto per adornare uno dei miei soliti raccontini senza speranza, quando, mentre la caricavo su WordPress, ho capito che la sua destinazione d’uso sarebbe stata differente.

 Nella vita le nostre sensazioni ci ingannano. Sono moltissime le volte in cui ci sembra di toccare il cielo con un dito, in cui ci sentiamo come se potessimo ottenere tutto dalla nostra esistenza. Questi momenti sono molto più frequenti di quello che crediamo e sovente, più saliamo in alto, più ci facciamo abbattere, dopo, nella malinconica realtà della nostra essenza. Perché, la verità è che siamo tutti poco più di formiche, nemmeno troppo riconoscibili gli uni dagli altri, proprio come le formiche. Camminiamo radenti al suolo, poi ci ritroviamo trasportati dall’aviogetto della vita fin sopra le nuvole, dove gioia, sorpresa, bellezza e forza sembrano regnare inscalfibili. Ma poi immancabilmente si ritorna a terra. Si slacciano le cinture, il viaggio nel sublime finisce e si ritorna a camminare nel nostro habitat naturale.

Ho visto grandi dirigenti d’azienda, persone straordinarie simili a condottieri, terminare il loro mandato e finire in un triste oblio, snobbati dalle stesse persone che pochi giorni prima li veneravano.
Ho visto grandi amori finire nell’odio e nell’astio, quando non sarebbe stato possibile nemmeno lontanamente immaginare un litigio.
Ho visto persone giustamente entusiaste per le loro conquiste perdersi un giorno dopo nell’ansia smarrita per non sapere come aggiungere un nuovo successo al loro insaziabile palmarés.
Ho visto luoghi così mozzafiato da porsi la domanda “E se rimanessi qui per sempre?” sbiadire al calare di una nuvola in un mesto richiamo per le tristezze della nostra anima.

Toccare il cielo con un dito.
Una figata quando succede. Anche se la vera figata, io credo, sia soprattutto la sua versione completa: una formica sta toccando il cielo con un dito.
Dovremmo ambire ai momenti sublimi, ma non dimenticarci di provare gioia anche quando siamo stabilmente a terra e teniamo stretto il nostro granello di sabbia da portarci appresso. E magari ogni tanto alzare gli occhi al cielo e dire: “Sono stato là!”.

Un racconto dal passato

Girasoli

Oggi facciamo un piccolo salto nel passato. Era un tempo lontano in cui, ricordo con una certa nostalgia e tenerezza, amavo rallentare una parte delle mie giornate adolescenti all’ombra di tre tigli nel giardino di casa quando il frinire delle cicale si faceva assordante.
Trascorrevo le ore calde estive, passando dall’amaca, che si faceva sempre più molla fino a sfiorare il suolo, ad un tavolinetto da picnic, su cui immancabilmente troneggiava la macchina da scrivere.

La dinamica era sempre la solita. Mi distendevo sull’amaca, ondeggiavo un po’ facendomi ferire qua e là da qualche insidioso raggio solare che filtrava tra le fronde, e poi mi facevo prendere dalla nausea. Ho sempre sofferto di mal di mare. A quel tempo, poi, vomitavo anche in monopattino, e il nauseante ondeggiare dell’amaca era una specie di monito della vita come se ne trovano tanti, un vorrei dondolarmi ma non posso, per incominciare a prendere dimestichezza con le questioni chiave dell’esistenza. L’amaca dunque mi serviva solo per farmi illuminare da qualche idea e per fuggire subito sulla seggiolina di legno a ridosso del tavolino e incominciare a scrivere qualcosa.

Questo ricordo è ritornato vivo per una “coincidenza”. Qualche giorno fa leggevo un blog e ho trovato questo racconto, Il campo di girasoli. Il blog in questione lascia spazio a molte riflessioni, ad iniziare dalla didascalia del blog che da sola è un racconto che può lasciare il segno, per poi continuare con altri blog collegati come questo, dove la sensibilità di ognuno di noi può sbizzarrirsi su temi di cui io non son bravo a parlare.
L’idea del racconto “Il campo di girasoli” è bella e mi ha riportato alla memoria una vecchia storiella nata vicina a quell’amaca, sotto l’ala protettiva di quei tre vecchi tigli, immortalata poi da una macchina da scrivere in attesa che strumenti più flessibili e virtuali come i computer la rendessero quello che è: una manciata di minuti di un ragazzetto sognatore che giocava a fare lo scrittore di fantascienza. E qui di seguito trovate quel che rimane di quel gioco. Una costruzione Lego della fantasia libera di quel ragazzetto.

Racconto non datato scritto in prossimità degli anni ’80.

I GIRASOLI 

– Vedi, l’uomo ha una grandissima dote che è la fantasia- disse lo scrittore al suo amico- e fintanto che potrà godere di questo grande dono, uno scrittore di fantascienza avrà sempre del buon materiale per le sue opere.

        – Sarà …, sarà …, ma per me non potrete continuare a lungo a scrivere le vostre sciocchezze, ancora poco e la gente si stancherà di tutte queste idiozie- sentenziò l’ amico con aria di sufficienza.

        – Perchè poi, non capisco!-

        – Ma è semplice: vi gongolate in altri mondi, in astronavi supergiganti, in esseri mostruosi in situazioni paradossali, in invenzioni talmente fantastiche da essere fin puerili; no, caro mio, la fantascienza sta per morire, e con lei morirà anche il tuo nome. Verrò al tuo funerale, ti va?-

        – Proprio non ti andiamo a genio noi scrittori di fantascienza, vero!-

        – Fosse solo per voi, sarebbe niente. Sono le sciocchezze che scrivete che mi fanno imbestialire: sempre le solite idiozie targate futuro, futili ed inutili, a volte neanche scritte bene. Ne ho lette alcune per il passato, carine sì, originali anche, ma insipide, noiose, pericolosamente insignificanti. La Divina Commedia: ecco cosa val la pena di leggere; o Foscolo, Shakespeare, Leopardi; non certo Asimov, Brown, Moore Williams o altri della vostra stirpe.-

        – Ti confesserò che ho sempre considerato limitate e ottuse le persone che non riescono a comprendere la bellezza della fantascienza. Denota scarsa elasticità, poca predisposizione ad accettare le inevitabili conquiste del futuro e sopratutto indica una grave mancanza di fantasia e, in parte, anche di intelligenza! Quanto poi alla Divina Commedia io l’ho sempre considerata un grande poema di fantascienza, parto di una fantasia sfrenata. – la sua voce denotava un innegabile orgoglio.

        -Voi scrittori vivete tra le nuvole, e sparate idiozie a destra e a manca.- la voce dell’amico sembrava un po’ irritata. Si sentiva forse preso in giro- Vi alimentate delle baggianate che voi stessi scrivete.-

        – Beh, almeno noi siamo autosufficienti; crediamo nella scienza ed esploriamo in essa quello che gli scienziati non si sentono ancora di valutare e ci permettiamo di tentare modestamente l’ignoto senza pretesa alcuna. Ci divertiamo e divertiamo anche coloro che ci leggono. E tutto è bene quel che finisce bene!-

        – Solo che siete destinati a morire presto, come scrittori s’ intende!- la sua voce era di nuovo tranquilla; la discussione in fondo era sempre amichevole- Presto l’ originalità, che è la vostra unica arma, vi abbandonerà.-

        – Dici? – chiese con aria poco convinta- Ma fino ad allora avremo vita certa. –

        – Sino ad allora solo! Non certo di più- si sentiva un po’ crudele come amico.

        – Ma è proprio questo che cercavo di farti capire prima! L’ originalità non verrà mai meno, mai! L’ uomo sogna sempre, fantastica e crea dal nulla cose sempre nuove. Dammi un titolo e ti scrivo un racconto rapido rapido. Dammi il peggior titolo che ti viene in mente e ti dimostro che non è poi così difficile inventare qualcosa di originale.-

        – Okay, okay! Fiat voluntas tua! Vediamo un po’ … Il calendario. Ti va come titolo? No è troppo facile. Oh ecco I Girasoli; tiè, proprio perché mi sento buono! Scrivimi un racconto con titolo “I Girasoli”-

        – Contentissimo!- era veramente contento- Vieni con me nello studio, prendo la macchina, ci penso dieci minuti e poi ti scrivo questo racconto, breve però.-

        – Breve, lungo, largo, stretto, cosa vuoi che sia? Qui ti voglio.-

        Si avviarono nello studio e lo scrittore piombò in una silente meditazione. L’ amico lo disturbava con battute e risate, frutto della sua amichevole avversione.

        Mezz’ora dopo il racconto era terminato.

        – Ecco è pronto- disse lo scrittore con una certa soddisfazione- Tu lo leggi non voglio neanche sapere cosa ne pensi. Te lo regalo come ricordo, se lo vuoi, bene inteso. Quando hai finito me lo dici, che ce ne andiamo fuori subito a farci una birra. Okay? –

        – Okay! – e incominciò a leggere:

 “Come mai nessuno se ne era mai reso conto prima? Era un vero mistero. Come non accorgersi che gli dei esistevano davvero, che vivevano così vicino all’uomo? Gli dei dell’Olimpo erano stati il frutto dell’immaginativa degli antichi Greci, il Dio cristiano perse presto il suo carisma dopo quell’ultima insospettabile scoperta, così pure Allah e Budda vennero sopraffatti velocemente dall’evidenza degli Nuovi Dei.

        Anche di questi ultimi però era la colpa se non erano stati riconosciuti prima. Evidentemente avevano avuto le loro buone ragioni. Sì, doveva esser proprio così. Dovevano aver avuto le loro ragioni.

        Dapprima vi fu una generale incredulità, ma tutti poi si piegarono all’evidenza dei fatti. Fu un duro colpo in verità per tutta l’ umanità al di sopra dei sedici anni, segnò la crisi di tutte le loro credenze. Nessuno prima avrebbe potuto immaginare che gli unici veri Dei erano i girasoli. Anzi i Girasoli: era peccato ora non usare la maiuscola.
In molti rifiutarono di accettare questa nuova realtà. Morirono tutti: vi fu chi si suicidò, altri invece conobbero altre morti, incidenti soprattutto, strani, violenti incidenti.

        I Girasoli, proprio loro, erano gli Dei; era buffo, proprio buffo. La vita dell’uomo cambiò più di quanto fosse prevedibile; le scienze conobbero una lunga crisi; la fisica subì una vera e propria rivoluzione, ma non si riuscì più ad aggiustarla bene: sì, perché il primo ad ipotizzare l’idea che i Girasoli fossero gli Dei fu un biologo, il quale si accorse che non erano i Girasoli a girare il loro capolino verso il Sole, bensì era quest’ultimo a seguire i Loro moti.”

        L’amico piegò perplesso il racconto, lo mise solennemente in tasca senza pronunciar parola; i due si avvicinarono alla porta di casa, l’aprirono ed uscirono in silenzio, addentrandosi nella fitta nebbia di Padova.

Il difetto del resistere

Uccelli

Oggi mi sono ritrovato in una riunione con una collega e altri dodici apostoli intorno a noi. Più tardi, mentre rientravo alla stazione Termini, nello spazio di trenta metri nella zona “barboni” ho incrociato esistenze. Una donna di colore diceva ad alta voce in inglese “Ho bisogno di essere baciata!” – stranamente, non c’era la coda davanti alla panchina che aveva colonizzato, anche se non era affatto una brutta donna -. Un paio di uomini distesi, raggomitolati,  davano l’aria di fare il sonno più profondo della loro vita. Una donna sui cinquanta stava seduta completamente immobile – e quando dico immobile intendo dire dotata di stabilizzatore di immagine a prova di qualsiasi impercettibile movimento – con la testa china nascosta dentro i suoi lunghi capelli che avevano il solo difetto di non aver mai visto una tintura. Un’altra anziana dall’aria arcigna, con la chioma gialla e il carrellino al seguito,  urlava alla fila di taxi “Siete tutti cattivi!”. E qui mi fermo, ma potrei continuare ad allungare la lista di immagini tutte disgiunte, ma con fili conduttori comuni.  In questi casi, complice anche una certa stanchezza, i miei pensieri tendono ad avvilupparsi ed intrecciarsi … e non possiamo farci niente.

Esistono due differenti tipi di resistenza nella vita, molto diversi tra loro. Sono entrambi la dimostrazione che la tenacia dell’uomo può essere straordinaria.
Ho in mente lo sforzo continuo ed eroico di certe madri che seguono i loro figli giorno per giorno per anni e anni e anni e instancabilmente, anche se tra mille silenziose, nascoste rinunce, mettono il bene dei loro figli, e non solo, davanti a tutto.

Penso a coloro che resistono costantemente alle loro pulsioni più strane nella speranza di riuscire a mantenere quel minimo equilibrio che possa portare la loro vita in qualche punto preciso.

Ho in mente la tenacia di certi uomini,e non solo, che anche nelle tempestose circostanze delle crisi economiche spingono il loro aratro in cerca della vena buona per dare sicurezza a sé e al futuro dei propri cari.

E, dall’altro lato, penso a quei lavoratori che hanno agguantato un posto di lavoro buono, anche se ormai anacronistico, e lo difendono con i denti, le unghie e le minacce, al punto di impaurire tutti intorno a loro e tenere vivo un modo di lavorare e una professione che non hanno più senso di esistere nel mondo di oggi.

Penso a quegli amanti che tengono in scacco perpetuo il loro amato sotto la spinta di un desiderio di vincere un predominio che lasci lontano il rischio del distacco. Anche quando ormai l’amore è solo l’ombra di sé stesso.

Tutte espressioni di una straordinaria capacità dell’uomo di resistere alle difficoltà e alle sofferenze, al cambiamento e alle incertezze.

Pensiamo tutti di essere un po’ più fighi di quanto in realtà siamo e, proprio per questo, non riusciamo mai a diventare tutto quello che potremmo diventare. Ma quando facciamo uso della resistenza, nel nostro piccolo e senza preoccuparci troppo del fine ultimo del nostro resistere, siamo soprattutto una specie di eroi. Rinunciamo ad una parte della vita nell’illusione di raggiungere qualcosa di migliore. (O per lo meno … non peggiore).

E per quanto diverso possa essere il resistere nelle sue differenti espressioni, un grande punto in comune esiste sempre. E temo sia il suo vero difetto.

Basta che ci attardiamo un secondo con i pensieri, basta che perdiamo un attimo la concentrazione delle nostre energie verso gli obbiettivi “resistenti”, e in un lampo tutti potremmo facilmente scrivere nella nostra vita e nella nostra storia un articoletto rilassante e sconsolato dal titolo “I molteplici pregi del mollare la presa”.

Al bar della spiaggia

EstateCheSiChiude

Erano giorni strani quelli. Uscivo da una relazione complessa con una donna ancor più complicata. Mi aveva lasciato il sapore dell’amarezza e la sensazione nel cuore di non poter mai più sperimentare altrettanto coinvolgimento.
L’ennesimo insuccesso sentimentale della mia vita.

Non avrebbe dovuto essere così, ma quell’estate stava trascorrendo in compagnia della solitudine. Forse perché per me era l’unico modo possibile per andare avanti: ricordare piano il recente passato, per dimenticare.
Le giornate trascorrevano malinconicamente tra un bagno di sole, un bagno in acqua e la lettura. Al pomeriggio, nemmeno troppo tardi, salivo al bar in fondo alla spiaggia, con il mio libro, mi sedevo sul solito tavolo un po’ defilato dagli altri e mi gustavo lentamente un paio di aperitivi continuando a perdermi nella storia del romanzo.

Il primo giorno che venne la notai subito. Aveva un corpo perfetto, armonioso e proporzionato. L’abbronzatura uniforme, carica di caldi riflessi ambrati, esaltava il movimento continuo delle curve dei suoi lineamenti. Arrivava al bar con il suo passo elegante, arricchito da una gestualità continua, misurata e spontanea, circondata sempre da un gruppetto di bei ragazzoni prestanti.
Era affascinante vedere il modo con cui si rapportava con i suoi compagni. Con ognuno di loro nel dialogo, verbale e gestuale, esternava una familiarità e una disinvoltura che trasmettevano agio e affinità senza sfrontatezza.

Emanava dal suo essere quella serena giovialità di cui riescono a circondarsi solo quelle rare fortunate persone che sembrano aver trovato il bandolo buono della matassa della vita.
Veniva al bar tutti i pomeriggi e io facevo fatica a tenere il mio sguardo fisso sulle righe del libro. Sovente mi scoprivo a ricercare la sua immagine, per studiare le particolarità delle sue movenze, dei suoi sorrisi carichi di allegria. Mi sembrava di dover ricercare un tatuaggio lungo il suo corpo, perché la sua pelle limpida e rilucente, contrastava troppo per la sua perfezione rispetto ai corpi intorno a lei, tutti roboanti per le effigi variegate dei loro disegni. Ma i suoi costumi, spesso succinti, lasciavano spazio solo ad altra pelle liscia e levigata che si mostrava senza volgarità.

E un giorno, proprio mentre continuava a parlare con i suoi compagni, sorseggiando un bicchiere di prosecco, la vidi distintamente sorridere nella mia direzione. Fu un istante che mi sembrò durare a lungo, gli occhi puntati verso di me, le parole fluide che continuavano ad interloquire senza distrazioni con un paio dei suoi amici.
Un turbamento si ramificò lungo la mia schiena per riunirsi con un piccolo sussulto alla base dell’addome.

Passarono un paio di giorni, senza che si facesse vedere. Io leggevo. Talvolta alzavo la testa a scrutare gli avventori del locale, poi mi riimmergevo nella lettura dopo l’ennesimo tuffo delle labbra a sorseggiare la bibita del momento. Immaginavo, come spesso accade nel tardo periodo agostino, che per lei fosse arrivata la fine della sua vacanza.
Poi, invece, ritornò. Era sola. Si destreggiò con eleganza schivando i tavoli e venne nella mia direzione, un sorriso ammaliante le dipingeva il volto.

«Se mi offri un aperitivo, ti chiedo che libro stai leggendo. Anch’io adoro leggere.» – il suo fare disinvolto e il suo parlare limpido e morbido mi colsero di sorpresa più ancora dell’espressione carica di dolcezza che dipinse sul suo volto – «Piacere, mi chiamo Francesca! » – e mentre mi tendeva la mano, iniziò a fare il movimento per mettersi a sedere.

«… ti … offro volentieri … ma … ma … Mi chiamo Federica, piacere mio! » – credo di aver passato almeno cinque minuti buoni della nostra conversazione in cui l’unica cosa che riuscii a fare veramente bene fu balbettare. Ma poi, complice il suo atteggiamento sereno e colloquiale, l’atmosfera si sciolse velocemente.

Aveva occhi scuri e profondi che mi sorridevano. Vedendo il mio imbarazzo malcelato, allungò le sue mani a catturare la mia che vagava incerta e nervosa a fianco del libro. Erano calde di temperatura ed emozione. Accompagnò quel suo gesto con parole semplici, con un tono di voce basso, rassicurante e avvolgente.
Avrei presto scoperto che aveva anche un piccolo tatuaggio nascosto.

Il difetto della speranza

Speranza

Oggi ero incerto su cosa scrivere. Un raccontino è nell’aria da un po’ di tempo e invoca i suoi spazi per essere scritto. E’ un raccontino estivo, che dovrà prendere luce prima che oltrepassiamo la boa autunnale, altrimenti non ci ricorderemo più di come si vive in agosto al limitare della spiaggia e finirà per essere ancor più fuor di luogo di quanto sarà già naturalmente.

Tuttavia qualche giorno fa, chiacchierando serenamente, qualcuno mi ha detto con delicatezza che i miei raccontini, sì non sono male, ma sono molto meno efficaci di quando scrivo perché ho qualcosa di interessante da dire.
Ammesso che io abbia qualcosa di interessante da dire…

Tutto questo non è realmente importante, se non fosse che, nel susseguirsi dei voli pindarici della mia mente, sono passato di pensiero in pensiero, dallo scrivere un futile raccontino, alle incertezze che ci prendono a volte nella vita, e, alla fine, ad una riflessione sulla speranza. Perché, si sa, la speranza è uno stato d’animo bello! Ci predispone al buonumore, ci apre la strada a nuove emozioni, ci fa sentire carichi di potenzialità e soprattutto ci fa pregustare anche quello che non sarà. Una specie di piccolo miracolo!
Addirittura stiamo parlando di quella straordinaria emozione che è l’ultima a morire e finché abbiamo un minimo alito di vita, pur moribondi, può ancora venirci a trovare, dolce e piena di positivi presagi.

Però, se ci pensate bene, non è così.

Sia che stiamo anelando l’interesse della cosciona della porta accanto perché si accorga ammaliata di noi, oppure che il nostro capo finalmente ci riconosca tutti i meriti che abbiamo collezionato nella nostra splendente carriera professionale, finanche se pensiamo a quella magica continuazione della vita oltre la morte, che è sicuramente la Speranza con la S con il font più grande  tra tutte quelle a cui possiamo concedere il nostro coinvolgimento, il meccanismo è sempre quello.
Desideriamo, iniziamo a sperare in qualcosa e piombiamo in una dinamica da cui difficilmente usciamo. Perché appena si incomincia a dar spazio alla speranza, naturalmente, è come se svoltassimo un angolo che ci porta dritti dietro alla medaglia e iniziamo a vagare nel regno dell’incertezza e dell’incompletezza. Temiamo lo sbaglio che allontani l’obiettivo da raggiungere, cediamo all’ansia dell’inadeguatezza, pendiamo dalle decisioni di qualcun altro.

Perché quando speriamo in qualcosa, fatalmente, c’è sempre qualcun altro che deve fare qualcosa perché il nostro sogno si avveri.

E’ così che, se ambiamo un riconoscimento, finiamo a volte per perseguire l’immobilismo nel lavoro per non turbare l’efficacia dei nostri benemeriti capisaldi conquistati nel passato. Se desideriamo sondare la speranza di vita oltre la morte, finiamo sovente a raffazzonare la nostra esistenza caricandola di falsi buonismi nell’illusione di poter convincere il nostro Dio di essere più degni del suo dono di quanto lo siamo realmente.

La speranza invece è solo un trucco. Per tenerci in gioco quando non lo siamo già più, per confondere le acque quando tutto è chiaro, per trasformare il nostro potenziale successo in cocente delusione, trasferendo ai nostri occhi il controllo del nostro personale agire verso la benevolenza degli altri. Suona veramente male da scrivere, ma la parola buona per spiegare a cosa serve la speranza è … deresponsabilizzazione. Suona veramente male. E non è un caso.

Desiderare non sperare. Essere noi stessi e non abdicare la nostra reale essenza a favore di reiterati e goffi tentativi di percorrere strade che non ci appartengono, per ottenere risultati fuori dalla nostra portata, perché declinati nelle forme auliche esagerate che solo i nostri sogni sanno immaginare.

Abbandonare le speranze per essere sempre noi stessi. In ogni frangente. Sarebbe una specie di piccolo miracolo! Questo sì.

Forse allora potremo varcare l’uscio di casa e saremo finalmente notati dalla cosciona della porta accanto che rimarrà interdetta non capendo se il nostro sorriso sereno fosse stato rivolto alla sua persona, invece che alle sue gambe lungimiranti. Forse allora condurremo la nostra onesta giornata lavorativa noncuranti dell’habitat intorno a noi, interessati solo ad essere coerenti con la nostra professionalità. Forse allora vivremo la nostra esistenza sempre allineata a quello che siamo dentro. Non sarà la versione più buona e vincente come prescritto dal Manuale delle Giovani Marmotte alla voce “guadagnarsi l’Aldilà”, ma forse Lassù non sono nemmeno così inclini alle finzioni.

A volte, specialmente sorseggiando un bicchiere di vino, mi appare chiarissimo che i nostri geni sono proprio tutti disposti con maestria straordinaria per farci accogliere l’arrivo della speranza con benevolenza e illusorio ottimismo, ma ho il sospetto che il loro obiettivo sia completamente differente.

Nella mia vita

Plenilunio

Alcuni giorni fa ero in montagna.
In realtà la storia è più articolata. Avevo passato la giornata un po’ più lontano da lì, a ridosso del mondo indaffarato del business, mischiato ad altre persone, più o meno della mia età, per accudire questo fiume, che chiamiamo pomposamente lavoro, che tortuosamente cerca di portare da qualche parte così tanti di noi.

Solo in serata ero rientrato in montagna.
A causa della discendenza di una parte del ceppo familiare da quel paesino, la mia famiglia ha colonizzato quel piccolo luogo esposto al sole delle dolomiti venete, occupando con piccoli avamposti tre o quattro dei suoi quartieri.
Quella sera, ho offerto, in un ristorantino tipico del luogo la cena a due mie nipoti, figlie di mia sorella. Età tra i venticinque e i trenta, seguono amorevolmente i miei genitori che svernano durante l’estate al fresco dei mille metri di altitudine. Brave ragazze, dimostrano, con le parole dei loro discorsi, serietà e concentrazione verso il loro incerto futuro, quasi fossero già fin troppo mature.

Parlando del più e del meno, ho avuto quasi la sensazione di essere io, più adolescente di loro, come se questa vita portasse con sé delle fasi in cui il senso di marcia del nostro spirito si dovesse adeguare, andando avanti e indietro, ad un costante tentativo di trovare la posizione buona per riuscire a parcheggiare nello spazio riservato alla serenità.

Finita la cena siamo andati a trovare i miei genitori all’altro lato del paese. Mio padre, ormai ha traguardato la soglia dei novanta, mia madre, cerca di raggiungerlo. Non è un segreto, gli anni che ci separano raccontano una storia la cui sintesi è semplice: la mia famiglia era già al completo. Due genitori, quattro fratelli, più o meno ravvicinati tra loro. Io, distanziato a molte lunghezze, sono comparso a perturbare gli equilibri. Ma, come mia mamma ha sempre ripetuto con soddisfazione un’infinità di volte, ero così buono che non si sono nemmeno accorti di avermi allevato.

E infatti, è andata così, perché, qualche volta, te lo senti dentro di essere una specie di intruso in questo mondo. Nessuno ti attendeva, c’era una festa e non eri propriamente invitato, ma ti sei fatto vedere alla porta lo stesso. Ti fanno entrare, sorridendoti, e il minimo che puoi fare è non disturbare, muovendoti con circospezione, sentendoti a tratti poco di più di uno spermatozoo che per caso è incocciato in un ovulo.

Mio papà non mi riconosce più. Non sa più chi sono. Entro in casa dei miei, al seguito delle mie nipoti, mi sorride, si ricorda che ci siamo già visti i giorni precedenti, il mio volto gli è familiare, ma non è più collegato alla relazione di parentela che ci lega. Ci si scambia i saluti con mia mamma, si fanno le prime parole, lui è silenzioso. Poi mi viene vicino, mi prende la mano e mi porta davanti alla parete dove ci sono alcune foto. Me ne indica una in cui lui e la mamma sono in posa sotto un ripido sentiero tra le rocce vicino ad un rifugio. È di pochissimi anni fa. Con loro due ci siamo anche io e mia figlia ora adolescente.
Non parla, ma mi sorride, puntando il dito contro la mia chioma di capelli decisamente più contenuta rispetto ad oggi.

Ricordo bene quella foto. Quel giorno ero orgoglioso di portare i miei genitori ad un rifugio in alta montagna. Erano emozionatissimi. Io ero orgoglioso e … terrorizzato. Temevo che, mettendo il piede in fallo, potessero farsi male e, alla loro età, subire conseguenze devastanti per gli anni a venire. Era estate piena, una giornata calda e soleggiata, ma arrivati al rifugio faceva freddissimo, un vento impetuoso ci aveva costretto a mangiare risotti e minestre calde, anche se avevamo gli zaini gremiti di altre vettovaglie. Quel giorno era stata una bellissima gita, tutto era filato liscio e arrivati a casa io ero sollevato. Oggi so anche che quella gita era necessaria per poter portare a casa il simulacro di ricordo che ora contemplavamo.

Nell’indicare la foto, mio papà era felice e emozionato. Non sapeva chi ero, ma sapeva dentro di sé che ero un pezzo importante della sua vita. Lo so che dietro il suo stato c’è la malattia. E so bene che si potrebbe pensare che sono senza cuore, ma la verità è che io quella sera sono stato contento per lui. Ha lavorato una vita, donando ogni energia nel suo corpo per i suoi figli e la sua famiglia. Ora fisicamente sembra un giovanotto a dispetto della sua età e il non ricordare chi sono io, chi sono i suoi figli, lo mette in uno stato di sereno, emozionato distacco e di perenne sorpresa.

Non so cosa si possa veramente sperare per la propria vecchiaia, ma se oblio deve essere, io credo che quello di conservare la gentilezza infinita di mio papà, senza preoccupazioni di sorta e con l’affetto dei propri cari sia un buon modo di avvicinarcisi.

Quella sera poi, dopo il pellegrinaggio alla foto e le parole di mio papà mentre mi abbracciava felice perché io e lui eravamo nella stessa immagine, ho visto mia mamma pendere dalle mie labbra chiedendomi di seguito dieci volte la stessa cosa con sfumature sempre diverse per sapere come stavo, come andava la mia vita, se riuscivo a reggere il carico, … E quando avevo salutato tutti per ritornare a casa, mi aveva rincorso per darmi una bottiglietta di acqua tonica. Perché per lei io devo sempre mangiare e bere. È ancora tutto come se dovesse accudirmi, come se io fossi ancora su quel vecchio seggiolone. Il seggiolone che viene costruito apposta perché i genitori non debbano chinarsi troppo, così sufficientemente alto perché tu, quando piombi giù a terra perché non sei legato bene (e io ricordo ancora nitidissimamente il suolo che si avvicina veloce mentre cado), se sopravvivi, si capisce  bene che il tuo angelo custode è di buona qualità.

Quella sera sono tornato a casa percorrendo la strada fino al lato opposto del paese. C’era una atmosfera magica, nessun lampione acceso, silenzio e luce lunare. L’aria era carica di foschia, a stento faceva vedere i profili delle montagne in lontananza. La Luna piena, invece sembrava non risentire minimamente dell’umidità, la sua luce era limpida quanto i contorni ultradefiniti dei suoi mari. E illuminava tutto con forza e mistero.

Mentre camminavo tutto solo perso in sensazioni contrastanti tra l’incerto e l’insicuro, ripensavo all’arco di esistenze che avevo toccato nell’intera giornata. Mi sentivo al centro della vita, perché sono ormai dieci anni che dalle mie parti si continua a sperare che Dante Alighieri avesse sbagliato a definire con esattezza il mezzo del cammino. E, con la testa al cielo, nonostante avessi la retina impressionata dalla Luna in tutta la sua maestosa presenza, l’immagine che vedevo dentro il mio animo era quella dell’intera parabola della vita nella sua lineare complessità.

Ci agitiamo. Sogniamo. Viaggiamo. Percorriamo il mondo in lungo e in largo. Programmiamo le nostre esistenze. Improvvisiamo. Corriamo di qua, corriamo di là. A volte persino amiamo.
In realtà, la verità è che, qualsiasi cosa facciamo, stiamo solo camminando scostati di una manciata di centimetri, da un lato o dall’altro di quella parabola. Nulla di più.

E oggi, che ho ripensato a tutte quelle sensazioni, e ho provato a metterle in frasi, mi accorgo che mi dispiace un po’ perché quello che ho scritto oggi è solo un articoletto senza sostanza, e non uno dei miei soliti raccontini.
Se avessi messo tutto sotto forma di racconto, sicuramente avrei potuto almeno sperare in uno dei miei classici finali a sorpresa.

Il dilemma del come spiegare

Cumuli_e_Luna

Conoscevo Franca da una quindicina d’anni. All’inizio ci frequentavamo con la compagnia di amici comuni. La nostra amicizia, sempre genuina, si era sviluppata gradualmente, all’inizio molto superficiale, poi sempre più stretta per le innumerevoli affinità che ci legavano.
Negli ultimi anni la compagnia si era sciolta, essendo tutti gli altri persi a seguire il corso delle loro vite, tra coniugi e figli, lavoro e routine esistenziale.

Io e Franca invece avevamo continuato a vederci, ritagliandoci innocui spazi all’interno delle nostre relazioni sentimentali per coltivare le sintonie della nostra amicizia. E ci trovavamo spesso da soli o in compagnia a gustare una chiacchiera davanti ad un aperitivo o passeggiando abbracciati allegramente per il centro rimanendo entrambi sorpresi dall’arguzia dei suoi commenti su bancarelle e passanti. Quando ero con lei tutto si muoveva in un’armonia che non ammetteva incertezze e si sviluppava con una serena naturalezza che lasciava spazio solo per la nostra spontaneità.

Forse proprio per questo, a dire il vero, non riuscivo a spiegarmi come mai quella sera finimmo in quella situazione. Il bosco intorno all’abitato iniziava a scurirsi preparandosi alle tenebre e nel cielo altissimi cumuli nembi si sviluppavano a vista d’occhio minacciando di ricoprire la luna con il loro carico di pioggia fitta. Intorno a noi le luci fioche dei lampioni appena accesi gareggiavano senza primeggiare con la luminosità  diffusa del tramonto frettolosamente partito dall’orizzonte per arrivare in tempo per trasformarsi in alba di lì a qualche ora. Una certa ansia si faceva strada nei nostri cuori e non tanto per l’atmosfera quasi magica dell’imbrunire, ma per il fatto che avevamo già provato ormai troppe volte a trovare la strada per ritornare alla nostra auto per rientrare alle nostre case e sempre questi ceffi alti e minacciosi ci avevano sbarrato ogni passaggio.

Non sapevamo chi fossero. Erano strani. Lunghi e magri come fuscelli, con un volto innaturalmente scarno. Lei subito aveva associato il loro viso all’urlo di Munch.
E a fatica, dalla piazza principale, eravamo riusciti a raggiungere una piazzetta laterale appartata da cui sapevamo si sarebbe potuto imboccare un sentierino stretto e ripido che ci avrebbe portato al parcheggio, ma lì dall’alto vedemmo bene che intorno alla nostra auto altri due di quei brutti ceffi si aggiravano minacciosi. Ci fermammo un attimo, fissandoci negli occhi. Non riuscivamo proprio a spiegarci come saremmo potuti uscire da quella situazione. Credo che dal mio sguardo trasparissero i segni di un crescente smarrimento, perché lei si fece carico della situazione e trovò la soluzione.

Mi prese la mano, sorridendomi, stringendola forte. Io per reazione le presi l’altra, si avvicinò lentamente e con naturalezza in un momento che sembrò durare una vita appoggiò le sue labbra sulle mie. Il bacio fu come se da sempre fossimo abituati all’intimità, ma con l’emozione dirompente del primo bacio della vita. Lasciammo le nostre mani per avvolgere con le nostre braccia il corpo dell’altro e continuammo. Spinse il suo bacino contro il mio e io assecondai il suo movimento andandole incontro.

Non so quanto durò quel lungo passaggio, so che il pensiero dei ceffi più sotto non era più all’ordine del giorno. Ci scostammo un attimo, con un sorriso dipinto in volto, che più che dalla bocca nasceva dagli occhi e con un movimento sincrono, quasi le nostre menti fossero mosse da una coscienza comune, raggiungemmo una panchina a pochi metri da noi, mi distesi e lei si accovacciò sopra di me con leggiadria massimizzando il contatto tra i nostri corpi. Sentivo distintamente ogni singolo punto del mio corpo dolcemente sfiorato dal suo e ognuno di quei punti mi lanciava vibrazioni ed emozioni che accrescevano la mia eccitazione e il mio trasporto.

Con il suo viso chino su di me, lasciò che i suoi lunghi capelli, in caduta libera, circondassero il mio volto come in una prigione. E in quella gabbia, le sue labbra fecero scorribande a lungo e senza freno a sondare ogni angolo del mio viso. Voi non avete idea di quanto morbide fossero quelle labbra e quanto, anche solo sfiorando la superficie della mia pelle, mi stessero entrando dentro l’anima.

 Paparapapà paparapurapurapù ….    La musica della sveglia del cellulare si fece sempre più insistente, nonostante il mio inconscio si rifiutasse completamente di distogliersi dal momento magico che stavo vivendo. Ci vollero, io credo, alcuni minuti prima che la realtà riuscisse ad acquisire un barlume della sua sostanza. Con fatica alzai la schiena tendendo le braccia puntellate dietro per mantenerla ritta. Ero confuso. Non era l’eccitazione ancora viva a tenermi in quello stato. Era quella sensazione naturale e intensa di amore appena sbocciato che stava scuotendo ogni poro della mia pelle che non riuscivo più a riportare ad una dimensione nota della mia esperienza.

Ci vollero altri minuti prima che riuscissi a modificare la mia posizione. Mi girai di lato, con i piedi a sfiorare il pavimento ancora freddo dalla notte e rimasi a ciondolare lì seduto perso in pensieri sempre più tumultuosi. Proprio nel pomeriggio dovevo vedermi con Franca. E adesso? Come avrei mai potuto spiegarle che tra noi era tutto cambiato?

L’importanza dell’aria e come la viviamo

Aria2

Un po’ di tempo fa, non poi così poco visto il susseguirsi di giornate che da allora ho visto passare, tutte così insensibili da non chiedermi mai il permesso di andarsene per lasciare il passo alla successiva, avevo scritto da qualche parte nel mondo virtuale questa frase:

Per capire veramente quanto importante sia l’aria bisogna provare a trattenere il respiro

Ad essere sincero non sono nemmeno mai stato sicuro che si trattasse di originale farina integrale del mio sacco. Ormai nella storia dell’umanità è stato detto e scritto, ascoltato e letto così tanto che non si può mai essere certi di non trafugare l’originalità con pensieri personali mischiati a ricordi inconsci che riaffiorano mistificanti.
Ma a dire il vero questa questione è abbastanza irrilevante.

La vita insegna a piccoli passi lezioni importanti e spesso difficili da capire nella loro pienezza. E da allora il corso dell’esistenza non si è risparmiato nel farmi provare di quando in quando i momenti di apnea in cui si capisce appieno quanto l’aria sia importante. E quella frasetta di allora rimane inevitabilmente sempre valida.

Da un po’ di tempo a questa parte, però, il mio pensiero si è modificato. E una delle cose più belle che ci possano capitare nella nostra inevitabile introspezione è accorgerci che su certe questioni sappiamo rielaborare e modificare emozioni e percezioni fino ad apprezzare aspetti precedentemente non valutati e fino a creare nuovi stati di coscienza e sentimento che ci fanno sentire dentro un processo continuo di crescita. Un cammino che non ha vere soste.

Oggi non scriverei più quella frase, e non perché l’aria sia meno importante oggi del passato. Non scriverei più quella frase perché da tempo ho capito che il centro vero è da un’altra parte, nella nostra personale, intima e cosciente attitudine a vivere l’indispensabile, costante, presenza dell’aria. E, guarda il caso, si gode veramente dell’aria non quando la tratteniamo dentro di noi, ma quando la facciamo nostra, e, dopo che le abbiamo iniziato a togliere l’ossigeno, la liberiamo sperando che al prossimo passaggio sia di nuovo carica di vitali molecolone.

Ecco, oggi ero perso in queste riflessioni, che non potranno che essere oscure, perché l’autore oggi è fuori servizio. Tuttavia mi è venuta questa intuizione geniale (licenza poetica) che volevo condividere: molti aspetti e vicende della vita si vivono bene solo se riusciamo davvero a riportarli al semplice meccanismo del respirare.

Quando inventammo la tenerezza

UomoCaverne

La caverna della nostra comunità era ampia e spaziosa, piena di cunicoli ed anfratti, dove l’odore della carne consumata nelle sere di estate, prima di coricarci, permaneva a lungo intenso e pungente e ti sembrava di continuare a mangiare anche quando sul fuoco non era rimasto più niente se non ossa spolpate.
L’avevamo conquistata molte lune prima e da allora nessuno straniero era più riuscito nemmeno ad avvicinarcisi. L’imboccatura della galleria era difficile da raggiungere, in cima alla collina e solo una comunità molto più numerosa della nostra avrebbe potuto sperare di farla sua.

Da allora vivevamo un periodo sereno, fatto di caccia abbondante lontano da predatori pericolosi, coltivazioni improvvisate, ma rigogliose, e armonia tra di noi. Fu in quel periodo che cominciammo a frequentarci di più dei soliti accoppiamenti occasionali in uso tra noi della comunità.  Dapprincipio non fu facile convincerla. Le stranezze, qui, non piacciono a nessuno, hanno il profumo del pericolo. Ma quando le fissavo gli occhi, anche all’inizio quando si scostava scontrosa, vedevo che dentro di lei si muoveva una luce che sembrava dire: “No! Assolutamente no! … ma mi incuriosisce.”

Trovavo la sua curiosità stimolante quanto le curve che portava con disinvoltura davanti e dietro. Mi piaceva da morire passarle vicino sfiorando con il mio braccio il suo seno pronunciato. Nessun altro maschio lo considerava, tutti così atavicamente concentrati sul sedere delle femmine. Ci volle tempo, ma poi si capì che il mio strano comportamento, non la lasciava indifferente e quel che accadde dopo fu molto chiaro.
Un giorno avevo provato ad avvicinarmi sornione e strusciante, ma lei si ritrasse scontrosa e stizzita, lasciandomi dentro l’animo una sensazione che io associai al dolore fisico. Per molti giorni non osai più nemmeno farmi vicino, poi, inaspettatamente, ero appena rientrato da una lunga battuta di caccia, gli altri uomini si complimentavano dandomi pacche sulle natiche per il ricco bottino conquistato e, di nascosto, lei mi si fece in fianco e si strofinò plastica su di me.

Non so bene nemmeno come accadde, quel giorno ero troppo confuso per fissare i ricordi, tuttavia quella sera ci ritrovammo in uno dei cunicoli della caverna, la luce fioca la illuminava dolcemente, e passammo del tempo distesi, uno sopra l’altra, uno dentro l’altra. Io ero confuso, lei era preoccupata. Credo le sembrasse innaturale almeno quanto a me (e forse molto di più) non essere penetrata da dietro, come sempre, fino ad allora, si era fatto nella nostra comunità.

Piano, piano, da allora, i nostri incontri si fecero più lunghi e inconsueti. Tantissime volte ci ritrovavamo distesi fianco a fianco, la fissavo ammaliato nei suoi occhi luminosi, con la mano sinistra le sorreggevo la testa palpando i suoi capelli lunghi e sottili che raccoglievano terra e polvere in una consistenza morbida e piena di riflessi. L’altra mano era rapita dalle sue dita che giocherellavano intrecciandosi con i miei polpastrelli. Il suo fianco era appoggiato alla mia gamba, mentre i nostri bacini rimanevano avvinghiati, compenetrati, ondeggiando soavemente quasi immobili. Passavamo in quella posizione lungo tempo e si capiva come lei amasse molto rimanere lì, distesa, oggetto di attenzioni, rubando ogni possibile istante prima di ritornare alle faccende di gestione dei raccolti a cui erano preposte le femmine della comunità.

Poi venne il giorno.
La stavo tenendo stretta a me, con il mio braccio destro sotto il suo sinistro, e con l’altra mano le facevo oscillare le anche giocosamente in un preludio di carezze. Avevo occhi solo per lei, per il suo sguardo e il suo sorriso, per la sua carne soda e muscolosa che si intravedeva sotto la pelle che la copriva. Non avrei potuto accorgermi in nessun modo della clava che scendeva pesante, senza esitazioni, con un colpo secco sulla mia testa.

Stramazzai a terra in un tonfo e per poco l’avrei trascinata al suolo con me, se il capo della comunità non l’avesse afferrata per i capelli dopo aver ripreso il controllo della clava. La trascinò per la capigliatura qualche metro più in là dentro la caverna, mentre lei non opponeva nessuna resistenza. La girò rivolgendola verso di me, le si mise dietro, le sollevò la pelle di leopardo che la copriva giù fin oltre i glutei e la infilzò.

La testa mi sembrava rotta in mille pezzi, sanguinavo a fiotti. Il dolore lancinante si mischiò ad una rabbia profonda. Gli anziani della comunità sostenevano che quando stai per morire rivedi la tua vita. Velocissima. Speravo che avrei rivisto i miei momenti con lei …
Non è così. Io dapprincipio vidi solo il rosso del mio sangue, poi la testa, sì, si riempì di immagini, ma non mi riguardavano. Forse erano lampi che avevano a che fare con il futuro.

Vidi qualcuno che sosteneva che alle donne erano cresciuti i seni solo dopo che erano cambiate le posizioni dell’accoppiamento. Ma io sapevo bene che non era così.
Vidi missionari che vantavano diritti su posizioni. Ma chi cavolo erano questi missionari?
Vidi un fiume di persone credere che noi uomini delle caverne usavamo la clava per controllare la femmina riottosa. Ma quando mai? La clava serviva ad altro.
E vidi mille altre immagini. Tutte cazzate!

Chiusi gli occhi. Li tenni al riparo qualche frazione di secondo dal sangue che colava copioso sul volto e poi giù subito fino a terra. Avevo freddo. Feci l’ultimo sforzo della mia vita. Aprii le palpebre. Riuscivo a mettere a fuoco solo il centro del mio campo visivo. C’era lei. Oscillava al ritmo imposto dall’ominide dietro di lei, il profilo dei suoi seni usciva rigonfio tendendo la pelle di leopardo che mal li conteneva. Mi fissava con dolcezza. I suoi denti storti e incrociati mi lanciavano un sorriso enigmatico. Era bellissima!

I due microbi

Ingranaggi

Romt era un microbo che viveva sulla punta di un dente di un ingranaggio dentro un orologio da polso, massiccio, tutto d’acciaio, cinturino incluso. Giovanna, la proprietaria dell’orologio, non aveva la benché minima idea della sua esistenza.

Romt era un compagnone. Era esuberante e pieno di vita, trascinava tutti con il suo buon’umore e aveva in ogni situazione lo spirito giusto per entusiasmare. Gli capitava spesso di passare intere giornate raccontando la barzelletta che piaceva a tutti, quella sul mitocondrio innammorato, che scatenava intorno a lui la più viva ilarità e faceva assiepare addosso a lui le altre microbine che abitavano quel luogo dell’Universo che loro chiamavano casa. Dopo il divertimento gli piaceva molto donare sé stesso attraverso i peduncoli che pescavano dritti dritti dentro di lui le sue catene di DNA. In quei momenti provava qualcosa di profondo che gli sembrava desse un senso preciso alla sua vita. Questo estrarre pezzi del suo io più recondito e autentico per donarli a chi gli stava vicino, gli creava una sensazione come di eternità.
E spesso si perdeva a guardare il panorama sopra di lui, immerso in queste sensazioni, pensando a futuri momenti ancora differenti dal passato.

Gult era una microba che viveva nell’avallamento tra due denti di un ingranaggio dello stesso orologio. Giovanna, pur non conoscendo l’esistenza nemmeno di Gult, viveva bene lo stesso.

Gult era una tipa schiva. Non dava confidenza a nessuno, e passava tutto il tempo sempre intenta nelle sue faccende con lo sguardo rivolto verso il basso. Nulla la distraeva e nulla la interessava veramente.
Ma quel giorno fu presa da una sensazione strana. Le sembrava di percepire come se il suo tempo stesse cambiando, come se ci fosse qualcosa di nuovo, mai provato prima, da assecondare. Alzò allora lo sguardo e lo vide da lontano. Era tutto un movimento armonico, tutto un fermento di energia ed entusiasmo. E i rumori lontani che arrivavano dal suo luogo erano di allegria e spensieratezza.

Gult non era mai stata attratta dalla mondanità, non si era mai interessata alle leggerezze e il suo occhio era sempre stato ancorato alla levigata superficie di casa sua. Ma quel giorno alzò lo sguardo e sorrise, perché quel personaggio lontano di cui non conosceva nemmeno il nome, aveva qualcosa di straordinario, aveva un fascino che lo rendeva importante. Non era perché si atteggiava a capetto animatore della sua brigata, si vedeva che laggiù dove viveva era l’idolo di tutti. Ma questo non significava niente. Era la dolcezza con cui alzava lo sguardo nella sua direzione che la colpì. E i giorni che seguirono lei non fu più quella di prima.

Romt la notò subito. Gli occhi alzati avrebbero potuto fermarsi su mille obiettivi differenti, invece non ebbe nemmeno modo di razionalizzare, fu rapito da quella vista e su di essa si concentrò come mai gli era capitato nella vita. Non sapeva nemmeno spiegarsi perché. Era una microba dall’aspetto dimesso e quasi ordinario, si capiva che era una tipa schiva e non predisposta ad appassionarsi alle caratteristiche goliardiche del suo carattere. Tuttavia aveva una bellezza che andava oltre l’estetica, rispondeva ai suoi ondeggiamenti con impercettibili movimenti in sintonia perfetta con lui. E queste non sono armonie che si incontrano tutti i giorni.

I loro ingranaggi regolavano la fase lunare dell’orologio e il loro avvicinamento fu lento e sempre più carico di passione attesa e complicità. In tutto quel periodo, Romt raccontò la sua barzelletta preferita da tutti con un po’ meno partecipazione del solito e fece fatica a dar retta a tutti i suoi amici che cercavano di trascinarlo nella mischia del divertimento. Spesso non si faceva nemmeno coinvolgere finché da lontano, ma ogni giorno sempre più vicino, Gult non gli faceva un cenno con un sorriso di lasciarsi andare a chi lo cercava così insistentemente.
Gult, dal lato suo, sempre più spesso abbandonava le sue faccende per ammirare l’avvicinamento di quel microbo così affascinante e spavaldo, che arrossiva con tenerezza quando la guardava.

Da poco erano riusciti a scambiarsi reciprocamente i nomi e già pregustavano l’imminente momento dell’abbracciarsi stretti, quando Giovanna stava attendendo con  impazienza l’arrivo dell’amico che non vedeva da tempo. I suoi ricordi erano un po’ offuscati, ma non si ricordava che fosse persona da dover aspettare così tanto tempo. L’impazienza virava velocemente all’insofferenza e il giornale, che stava sfogliando distrattamente nell’attesa, le ricordò che la fase lunare di quel giorno sarebbe stata una bella luna piena e non quella falce appena accennata che riportava il suo orologio.

Armeggiò allora sulla rotella dell’orologio finché la fase lunare non fu posizionata su una bella luna piena e ne trasse quel po’ di soddisfazione utile per dimenticare il disagio del ritardo del suo imminente partner. Soppesò sul polso l’orologio d’acciaio. E il peso greve del metallo le dette  una piacevole sensazione un po’  bondage, che la fece eccitare e sorridere al pensiero che nessuno avrebbe conosciuto il suo piccolo segreto.

Gult e Romt ebbero un incontro intensissimo e sconvolgente. Ma molto, molto veloce, e dovettero fare subito le loro scelte. Gult capì subito che il mondo di Romt non poteva fare per lei. Sarebbe sempre stata un pesce fuor d’acqua, intenta in faccende che gli altri non avrebbero potuto né comprendere, né apprezzare. Romt avrebbe dovuto decidere se abbandonare la sua casa, le sue amicizie, i festini in cui era il mattatore, la sua barzelletta ripetuta all’infinito, tutto in cambio di una semplice incerta perfetta sintonia.

Allontanandosi, ritto e contrastato sulla punta del dente del suo ingranaggio, Romt guardò a lungo Gult con il volto chino intenta nelle sue faccende, sperando che alzasse il suo sguardo. Perché questo è quello che successe.