Il difetto del mangiare vegan

Vegano

Quando ero ragazzetto imperversavano i cartoni di Goldrake. La novità della cultura orientale che furbescamente si infiltrava nelle nostre vite sotto forma di originali storielle colpiva nel profondo la nostra fantasia. Erano bei tempi, belli almeno come questi tempi moderni, conditi in più con la poesia del non sentire la mancanza di qualcosa ogni volta che si usciva di casa con le tasche completamente vuote prive di qualsiasi strumento di connessione multimediale.
A quel tempo c’eravamo noi onnivori, quelli a cui piacevano le ragazze carine magre magre e le ragazze carine un po’ più curvilinee. A quel tempo il mondo era diviso in due grandi categorie: le persone “normali” (dove per normali si intende normalmente pazze che non disdegnano ogni tanto una bistecca) e i vegetariani. I vegetariani erano pochi e sparuti, avevano una delicatezza d’animo particolare, erano difficili da scovare e le loro convinzioni alimentari erano così radicalmente naturali che non esisteva nessun business dietro al loro esistere.
Il mondo è cambiato molto in questi ultimi anni. Nel film Notting Hill facevano ridere i passaggi di una cena con cui gli amici cercavano di appioppare al protagonista una ragazza “fruitarian“,  oggi se ci troviamo in una situazione colloquiale con qualcuno dichiaratamente vegano, magari in un pranzo di lavoro oppure in un banchetto su facebook, dobbiamo sapientemente dosare le parole. Perché oggigiorno ci sono delle mode che vanno molto al di là dei principi straordinari che le hanno generate.
Avere un cane o un gatto oggi vale molto di più di un tempo, perché oggi ne puoi postare le foto simpatiche e affettuose su fb o su instagram e così tieni sotto scacco affettivo il tuo mondo virtuale con il messaggio subliminale “Sì, lascia perdere ogni sbavatura, trattami sempre bene! Perché lo vedi qua chi c’è con me, quale straordinario tenero essere carico di attenzioni per me. Io e lui siamo perfetti. Abbiamo un’intesa fantastica e non abbiamo nemmeno bisogno di parlarci”.
E allo stesso modo un tempo c’erano pochi vegetariani, genuini e sereni, mentre oggi invece, in certi giorni, ci si sente quasi accerchiati dai vegani. Perché quella vegana, per qualcuno di loro, è quasi una religione.
E io sono combattuto. Capisco i principi, li condivido, anche se sono cosciente che condividere senza praticare agli occhi vegani vale zero. E in più, lo confesso, adoro molto alcuni mangimi vegan. Ho solo il difetto che ci sono dei momenti della vita in cui l’unica cosa che mi può far sentire bene è una pietanza color fiorentina.
Ecco perché non potrò mai aderire a questa moda dilagante.
Le mode non nascono mai dal nulla. L’uomo ha la caratteristica di rispondere in massa solo seguendo meccanismi semplici. Non so quali siano in questo caso, ma diffido sempre quando una moltitudine di persone sembra agire spinta solo dalla forza del “principio sano e caritatevole”. Se così fosse ci sarebbero le guerre, le liti tra le persone, l’anteposizione degli animali all’uomo?
Non so cosa muova tutta questa crescita vegana. Non so se dietro ad essa si nasconda solo una maggiore coscienza dell’Umanità finalmente più attenta alla Natura, non so se a spingere ci sia l’uso generalizzato del sano principio per ottenere un dimagrimento efficace là dove tutte le altre diete avevano fallito prima,  non so se nuove forme di business premano per rendere stra-redditizie le tecniche basate sugli albori preistorici delle comunità agricole umane.

Però so una cosa. L’unico vero difetto che sono riuscito a trovare in questo movimento in espansione, mi è chiarissimo. I Vegani erano gli antagonisti di Goldrake, un grande eroe dell’ingenuo passato, ed è veramente difficile ignorare l’imprinting adolescenziale.

Il mio regno

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A volte alziamo gli occhi al cielo e osserviamo uno spettacolo incantevole mai visto prima. Una luce soprannaturale sembra portare la gioia, mentre riflessi incantati sorprendono per la loro poesia. E desideriamo rimanere a lungo in contemplazione di quella luce.
Poi abbassiamo lo sguardo e vediamo la palude ombrosa della nostra esistenza dalla quale ci sembra di non poter mai uscire. Non siamo abbastanza speciali. Non siamo abbastanza fortunati per poter ambire ad un limpido futuro. Quegli spazi oscuri ci circondano e ci sembra di poterli toccare, quasi per tenerli stretti a noi, perché lì, nell’ombra di sempre, il nostro io si mimetizza senza l’ansia di fallire.
Alziamo ancora lo sguardo verso quella luce. Si fa strada un pizzico di sconsolata invidia per coloro che stabilmente abitano quella luminosa certezza. Essa non offre il fianco alla monotonia. Riabbassiamo gli occhi verso l’oscurità. La percepiamo quasi fosse il nostro habitat naturale. Ma, anche in quel momento, proviamo vera invidia per chi riesce ad abitare le nostre consuete ombre senza mai porsi il dubbio sull’esistenza della luce.

Guardo in alto. La luce è limpida e lontanissima. La lascio brillare. Faccio scendere lentamente la vista fino agli angoli più nascosti, carichi di nebulose certezze, quelli dove dolore e ignoranza si confondono nel buio. Tra i due estremi che non mi appartengono c’è un mondo smisurato e incolmabile, il mio mondo. Questo è il regno dei chiaroscuri.

Eutanasia Giusta

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«No, papà. Tu ti devi curare. Mettiamo noi i soldi!»

La voce di mio figlio riecheggiava ancora nitida nella mia testa. Ero comodamente seduto sulla panchina in cima al piccolo precipizio non lontano da casa. Le montagne apparivano fredde e maestose, mentre la luce rosata del tramonto invernale iniziava a colorarle. Intuivo chiaramente che in quel momento era direttamente Dio che si stava divertendo a dipingere le rocciose creste intorno a me. Lui per me. Un Suo istante dedicato a nutrire la mia serena contemplazione.

I pensieri insistevano sulle decisioni che dovevo prendere. No. Non avrei mai potuto permetterlo. Mio figlio e la sua famiglia non potevano proprio affrontare l’impegno economico dell’operazione e di tutte le cure che ne sarebbero seguite.
“Era andata così!”, Continuavo a ripetere a me stesso.
Avevo lavorato sodo. Avevo contribuito al welfare dello stato per una vita. Ma non mi sentivo di recriminare nulla.

Quando era uscita la legge, meno di un anno prima, avevo condiviso lo spirito e la scelta di chi aveva legiferato. Con la crescita dell’aspettativa di vita, l’economia del sistema previdenziale non si reggeva più. Non si poteva più far pagare ai giovani il prezzo, sempre più caro, del tenere in sesto l’incerta salute di noi vecchi. E così avevo accolto con favore la nuova legge che obbligava a saldare di tasca propria tutte le spese sanitarie delle persone sopra gli ottant’anni.

Il provvedimento aveva avuto un’effetto istantaneo dirompente. In pochi mesi due milioni di giovani avevano trovato finalmente un posto di lavoro stabile. E ricominciavano a sperare nel loro futuro. Un risultato impagabile.
Io avevo scoperto solo da poco la mia malattia. L’unica speranza era l’operazione, una normale operazione di routine, mi avevano detto. Vita certamente allungata di molto, al prezzo di limitati danni permanenti.
Mi ero fatto fare subito un preventivo, ma i miei risparmi non erano adeguati a sopportare quella spesa, né io, a dire il vero, sentivo così tanto il desiderio di vivere oltre il deperire delle mie capacità motorie e mentali.
E mio figlio? Avrebbe dovuto impegnare i risparmi di chissà quanti anni per dare continuità alla linea della vita tracciata sul palmo della mia mano.
Non l’avrei mai permesso.

Ripercorsi per ore, lentamente, tutti i ricordi della mia esistenza. I momenti felici, le difficoltà, il duro lavoro, le soddisfazioni. Le sofferenze e le ingiustizie. Le piccole cose importanti che solo ora apprezzavo appieno nella loro semplicità e profondità.

Mi ritornò alla mente un vecchio raccontino che avevo scritto intorno ai cinquant’anni. Raccontava una strana storia così simile a quella che stavo vivendo. In fondo da allora erano passati oltre trent’anni. Una mezza vita carica di sorprese ed accadimenti. Era stato bello farne parte.
Era bello anche essere là, ora, solo su quella panchina, a scorrere un evento dopo l’altro, rivivendolo con emozione i passaggi della mia storia, insignificante come tante, ma molto, molto personale.

Già da un’ora non sentivo più le mie gambe. Faceva freddo sotto il cielo limpido. La luna piena, ormai alta sull’orizzonte, illuminava le creste delle montagne davanti a me. La neve rifletteva la sua luce, moltiplicandone l’effetto magico. Non ci sarebbe potuto essere un’altro momento della stessa intensità. Era una notte che sembrava un nuovo giorno.
E, mentre osservavo quello spettacolo sublime, mi addormentai.

La doppia striscia continua

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Negli ultimi quindici anni credo di aver cambiato vita almeno tre volte. E non è da escludere che prossimamente il corso degli eventi si modificherà ancora. Chi pensa, come a tratti ho fatto io stesso, che la propria vita sia saldamente inserita in binari stabili io credo debba essere molto prudente in queste sue convinzioni.

La meccanicità dell’esistenza e il suo esatto opposto, la turbinosa vorticosità, sono sempre in agguato ed entrambe possono scatenarsi devastando ogni certezza, scombinando ogni inamovibile piano.
In un batter d’occhio.

Quando si è giovani ti fanno credere (o semplicemente speri), che con il tempo diventerai maturo, che tutto ti sarà chiaro, che lo sviluppo della tua vita sarà lineare e molto soddisfacente. Eppure non è così. E’ brutto da dire. Ma non è così.

La vita rimane un’avventura meravigliosa, più straordinaria di qualsiasi nostro sogno, ma il titolo di questo articoletto non è “La vita è un viaggio pazzesco!” e quindi, per oggi, non parliamo di quanto mozzafiato essa sia nella sua essenza e ci limitiamo ad esplorare cosa ci aspettavamo dovesse accadere e non è stato.

La “maturità”, a mio avviso, è un termine coniato per indicare uno stato dell’animo umano che non può esistere. E’ solo un’aspirazione. La convinzione che prima o poi sia inevitabile incontrare nel nostro percorso un luogo che simboleggi l’El Dorado della Saggezza. Un luogo in cui fermarsi appagati e sereni per aver raggiunto il nostro equilibrio. Illusioni.

Quando l’esistenza ti porta a cambiare vita, però, lo capisci bene che questa aspirazione alla maturità, alla tranquilla accettazione del tuo status adulto, è una chimera che non può essere raggiunta. Un’altro tassello inserito nel nostro DNA per non farci mai mollare la presa.
Infatti, per tutta riprova di questo anelare senza raggiungere, quello del cambiamento è il momento in cui ti assalgono pensieri quasi fanciulleschi. Più adolescenti della tua stessa gioventù. Segnali chiari che la maturità, ammesso esista, si manifesterà secondo schemi sorprendenti ancora molto lontani dall’essere sperimentati.

Nell’imminenza di questo nuovo cambiamento di rotta della mia vita mi sono chiesto più volte quale possa essere stata la conquista più significativa dell’età che avanza, quale sia stato il risultato più inaspettato della mia sempre limitata crescita. E’ brutto quando ad una domanda che riguarda noi stessi si fa fatica a rispondere qualcosa di sensato. Niente di eclatante, niente di cui essere veramente fieri, nessuna conquista che ti faccia dire: “Cazzo, ecco cosa voleva dire crescere!”.
Possibile?

Non amo per niente non trovare risposte. E così, pensa e ripensa, introspezione dopo introspezione, ho trovato un segnale chiaro di cosa è cambiato profondamente dentro di me negli ultimi quindici anni.
Ascoltavo in viaggio la lettura di un libro che parlava di intelligenza emotiva. Si disquisiva dell’amigdala e di altre funzioni cerebrali preposte alla gestione di alcune emozioni. E spiegava alcuni meccanismi sviluppati dal nostro io atavico per proteggere la nostra esistenza.

Mentre ascoltavo la lettura, percorrendo la strada, a tratti incontravo una doppia linea continua che mi invitava a non oltrepassare la mia carreggiata.
Ho intuito similitudini con quello che stavo ascoltando. Il meccanismo che funziona è sempre quello. Che sia il nostro stesso cervello che ci mette in guardia con i suoi automatismi, che sia una strada che ci divide regolamentando la nostra appartenenza ad una direzione, che sia un familiare che ci raccomanda cosa dovremmo fare della nostra vita, che sia un prete che nella confessione ci rende monito del giusto comportamento che dobbiamo seguire per obbedire alle Leggi, che sia un superiore che traccia cosa possiamo o non possiamo fare della nostra professionalità, che sia un telegiornale che invariabilmente racconta solo la notizia chiave delle ultime settimane ignorando ogni altro accadimento importante della contemporaneità, che sia la società che trasforma una vuota consuetudine in un dogma così radicato da mettere in crisi la libertà anche delle menti più aperte, che sia … . La nostra vita è circondata da vincoli preconfezionati. E’ uno stretto pertugio delimitato da tutte le parti da doppie linee continue che abbracciano il nostro spazio di azione in una morsa da cui è vano divincolarsi.

E il meccanismo è davvero sempre quello. Qualcuno progetta quale punto del tuo percorso debba essere segnato con la doppia striscia continua e spesso qualcun altro mette fuori il segnale “lavori in corso” e si industria con calma e precisione a tracciare con la vernice bianca quelle due linee che sicuramente ti salveranno la vita se non ti fai prendere dalla stanchezza dell’esistere.

Quando sei giovane, quelle due linee hanno un significato preciso. Ti insegnano la direzione. E talvolta, se occorre, le attraversi pure, ma quando lo fai, il motivo che ti spinge a farlo non è di certo perché le hai guardate bene. Le attraversi perché la trasgressione è la stereotipata affermazione dell’essere giovani.

Ora è diverso.
Quando sono per strada o mentre dialogo con una persona o quando rifletto tra me e me o quando subisco qualche sermone e mi imbatto in uno qualsiasi di questi segnali ho una percezione articolata di quello che rappresenta, lo vedo distintamente nella sua essenza: solo due strisce dello spessore di un decimo di millimetro di vernice bianca, nulla di più. Immagino il progettista che le ha inventate, penso alla raffazzonata semplicità che voleva trasmettere con il suo editto limitante, completamente ignaro di quando e in che contesto io ci sarei arrivato a ridosso. Penso all’operaio che le ha diligentemente tracciate. Non sento nessun impulso ad attraversarle, nessuno stimolo preconcetto a rimanere da questa parte e nessun senso di colpa o di trasgressione, volendo, ad ignorarne completamente la presenza.

Non so se tutto ciò abbia a che fare con la maturità, ma altro non sono riuscito a trovare dentro me stesso di veramente nuovo rispetto a vent’anni fa.

Quel che resta della sua immagine

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Il video amatoriale che stavo guardando era vecchio solo di una settimana, ma aveva già più di due milioni di visualizzazioni. La protagonista era una donna sulla quarantina, forse qualche anno in più, un viso non appariscente, né insignificante. Un tipo potremmo dire.
Anche i vestiti che indossava sembravano più un travestimento di copertura che uno strumento per valorizzare la sua femminilità.

La cosa che colpiva era il suo sguardo. Nei suoi occhi una luce intensa si sprigionava nella direzione della telecamera, e il suo corpo iniziava ad ondeggiare in armoniche sempre più dolci ed ampie quasi ad assecondare la natura ondulatoria dei raggi di luce che sprizzavano dalle sue pupille.
C’era trasporto nel suo sguardo. Intenso coinvolgimento.

La telecamera scendeva lentamente fino a raggiungere una inquadratura dal basso. Ma gli occhi della donna rimanevano puntati verso l’alto, fissi verso la persona che prima stava dall’altro lato dell’obiettivo, che ora forse se ne era staccata per dare alle riprese una visione stabile, senza sussulti.

Il viso di lei si faceva sempre più sorridente e ammaliante. Il corpo, nei suoi movimenti ritmici, ora faceva uscire dai vestiti una sensualità insospettabile e travolgente. E, quando iniziò a scoprire lentamente nuovi lembi della sua pelle, l’effetto eccitante si moltiplicò.

Ogni tanto facevo un giro sulla piattaforma più che altro per essere sempre aggiornato su come il mondo moderno tempestava i miei figli con i suoi continui messaggi subliminali. Ai miei tempi non esistevano cose del genere o, se esistevano, non erano certo alla portata di un innocente click.
Non ero un grande frequentatore di YouPorn e non avrei potuto dare un parere qualificato. Tuttavia quel video aveva un’atmosfera particolare. La sua fattura amatoriale dava a tutte le immagini un’aura sincera di autenticità e realismo, ma a fare la differenza era quello sguardo della donna, costantemente puntato verso l’oggetto del suo amore.

E ora anche il suo corpo, liberato dall’involucro dei suoi goffi vestiti, rilucente di caldi riflessi in armonia con i movimenti flessuosi, si manifestava nella sua perfezione di curve e proporzioni. Ogni essenza della donna era per il suo uomo e, indirettamente, per noi spettatori del video.

L’uomo si spostò, seguito dagli occhi anelanti di lei, nudi e felici, come tutta la sua anima. La telecamera rimase ferma, immobile intrusa spettatrice di una scena che sarebbe stata perfetta nell’anonimato. L’uomo entrò in scena con la sua ragguardevole presenza. Gli occhi di lei si fecero color miele.

Credo che le immagini seguenti sarebbero potute essere ancor più coinvolgenti. Ma non ce la feci proprio. Chiusi tutto e spensi il computer.

Quella donna.
La conoscevo.
Era Lorena, la madre di un compagno di scuola di mio figlio. Ci incontravamo spesso all’uscita delle lezioni, mentre aspettavamo l’arrivo dei nostri rispettivi figli. Era timida e riservata. Sempre schiva e misurata, dispensava sorrisi dolci e gentili, ma dava pochissima confidenza alle persone.

Avevo saputo dai pettegolezzi delle festicciole di compleanno che era divorziata già da diversi anni, ma non avrei proprio potuto continuare a guardare quel video. Erano passati solo tre giorni dall’accaduto e due da quando ne avevo avuto notizia. Si era suicidata e nessuno sapeva perché l’avesse fatto.

Il paese dimenticato

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Girovagando nel presente finisco talvolta in luoghi strani. Da un po’ di settimane a questa parte ogni tanto mi fermo la notte in un paese sperduto della pianura lombarda.

Ieri sera ho avuto le energie e l’ardire per andare a sondare la sua essenza notturna. Ci sono luoghi come questo, e credo molti altri, in cui le nozioni di tempo, di vita, di dinamismo dell’esistenza assumono una declinazione immutabile che porta con sé la fragilità del cristallo e il mistero dell’ignoto.

Complice il clima pungente, l’atmosfera umida vagamente nebbiosa e delle strane campane che suonavano “a morto”, addentrarsi nel piccolo centro storico di questo luogo alle dieci di sera è stato come tuffarsi in una dimensione romanzesca di altri tempi. E’ stato come entrare in un luogo tipico delle novelle di Stephen King, uno spazio che poteva essere stato già colonizzato da tempo dagli Ultracorpi di Don Siegel. Pochissime persone per la strada immerse nella fioca luce limacciosa accerchiata dall’umidità. Sguardi innaturalmente cordiali in uomini e donne non avezzi ad incontrare forestieri. Grandi spazi vuoti. E, intorno a questo vuoto, pochi locali gremitissimi. Gente animata in concitate discussioni dal piglio visibilmente cospiratore.

Nelle strade il vuoto, dentro i pochi locali, la folla di cittadini. Da zero a cento nello spazio di un uscio.

Questo paese ha una rocca. La Rocca. Un’altro luogo strano. Una corte aperta presidiata da gatti randagi dove non sarebbe sorprendente scoprire che i malcapitati avventori vengono sottoposti a qualche pratica esoterica per la loro trasformazione.

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Vaghi nel buio tra un angolo e l’altro, capisci di essere una specie di pagliuzza che si muove sulla superficie di un occhio ceruleo che cerca di allontanarti e alla fine rientri in albergo. Nonostante le sue stanze moderne, accoglienti e funzionali, il singultare sommesso del collegamento wireless ti fa capire che le priorità e le esigenze lì sono differenti.

E al risveglio, al primo mattino del giorno seguente, nella mente insiste l’assillante motivo musicale del Main Theme di Interstellar e ti senti proprio come nel film. Senti che hai passato una notte in un luogo dove il tempo scorre con una velocità diversa. Per te è passata solo una notte, ma per le persone a te care saranno sicuramente trascorsi dieci giorni di cui tu non saprai mai niente.

Un’indovina mi disse

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Più di un anno è passato.

Attraversavo frettolosamente una grande piazza della mia città. Ero in ritardo. L’avevo vista quando era ancora lontana, lei invece mi aveva sicuramente notato molto prima, quando eravamo davvero distanti l’uno dall’altra.
Perché avesse scelto proprio me in una piazza così gremita, rimane un mistero. Nella vita i misteri che incontriamo sono molti. Quelli che nemmeno riusciamo a percepire assai di più.

È strano. Ricordo ancora il suo viso. Nitido, collocato in un contesto dai contorni ormai sfocati dal tempo, ma straordinariamente vivido nella memoria.
Aveva occhi chiari, o forse solo molto luccicanti, lineamenti segnati dall’età, voce roca come si conviene all’animo zingaro che trapelava da tutto il suo essere. Si era avvicinata lentamente e al ridursi della nostra distanza non avevo provato nemmeno un barlume della solita sensazione di insofferenza che spesso mi assale quando uno zingaro mi si avvicina per chiedere qualcosa.

Aveva parlato a lungo, senza preamboli, raccontandomi storie. Storie della mia vita. Quasi come avesse vissuto  per mesi al mio fianco tutti i giorni.

Si era fermata un attimo per poi riprendere subito a spiegarmi che esistevano forze contrapposte tra loro che lottavano per l’accadimento di eventi a loro graditi.
E lì piazzò quella che mi era sembrata la fin troppo evidente richiesta di emolumenti. Nel suo racconto infatti vi era un’unica grande verità. Solo lei poteva intercedere per far vincere la forza a me più favorevole.

Non ho mai capito dalle sue parole, allora e nemmeno dopo ripercorrendole, a quali forze si stava riferendo, quali forze stessero sprecando il loro tempo a giocare con le insignificanti vicende della mia vita. Il Bene e il Male, Dio e il Diavolo, o il fantasma dell’opera e il fantasma formaggino.

Abbiamo contrattato per un po’. Io sono partito da due euro fino ad arrivare a cinque. Lei è rimasta inamovibile nella sua tariffa iniziale di dieci euro.

Domanda e offerta non si sono mai incontrate quel giorno. E io non saprò mai se l’indovina aveva veramente il potere di influenzare le ipotetiche forze contrapposte di cui parlava.
Terminata la piccola insignificante diatriba sui cinque euro mancanti, aveva continuato serenamente con la voce tranquilla, raccomandandosi di non raccontare le sue rivelazioni. E continuò a parlare, questa volta, del futuro.

L’ultima sua profezia si è avverata qualche settimana fa. Niente di ché in realtà. Si parla di normali eventi della vita. Ma ogni singolo piccolo accadimento previsto dalle sue parole, in un anno e mezzo, si è avverato nei modi e nella sequenza da lei scandita.
Ora, per fortuna, non c’è più niente che si debba compiere.

Non l’ho più rivista. E, lo confesso, qualche volta ho sperato di incontrarla passando ancora per quella piazza.

Se nella vita vi imbatterete in un accadimento simile, ho un mio consiglio. Non badate ai cinque euro di distanza. Magari poi vi prenderete allegramente in giro da soli per la vostra creduloneria, o potrete sempre spiegare il vostro raggiro appellandovi all’abilità dell’arte zigana di trasformare le normali vicende della vita in abito che calza come un guanto su di voi, ma sicuramente non avrete occasione di ripensare all’eterno dilemma del What if.

L’uccello non ha occhi

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Quella che stavo correggendo era la stesura per la pubblicazione finale del tredicesimo articolo in sei mesi. Il quinto che curavo per la rivista scientifica Nature. La mia scoperta andava decisamente di moda.
Mentre leggevo quello che avevo scritto, una certa noia si faceva avanti. Il tema era sempre affascinante, ricco di infiniti risvolti, ma il lento e macchinoso rigore della terminologia tecnica metteva invariabilmente in ombra la poesia del vaso di Pandora che avevamo scoperchiato.

Mi scostai un attimo dalla scrivania e ruotai con tutta la poltrona in direzione della finestra. La città brulicava in un fervore noncurante delle implicazioni della mia scoperta. Tutti erano intenti nei loro affari e le persone erano assiepate intorno alle bancarelle del mercato quasi per riscaldarsi vicendevolmente, mentre i primi leggeri fiocchi di neve si sparpagliavano timidi verso il suolo. Era una giornata fredda, molto fredda per la stagione ancora autunnale e il cielo lattiginoso e uniforme sembrava scendere sempre più in basso quasi volesse deporre con maggior attenzione la coltre bianca che i telegiornali preannunciavano da giorni.

Pensavo alla gente. Alla mia scoperta. Alle regole semplici su cui si basa il funzionamento del mondo. E sorridevo al pensiero di come la saggezza popolare avesse da sempre i detti buoni per spiegare l’essenza di tutto. Mi sarebbe piaciuto riempire i miei articoli scientifici di quei detti. Me ne venne in mente uno di quelli che si dicevano da ragazzi: “L’oseo non gà oci “. Non avrei nemmeno avuto il coraggio di tradurlo in un articolo, però, invece di parlare della dimensione in nanometri di questa o di quell’altra catena chimica legata alla mia scoperta, mi sarei sentito molto più bene a divagare sul perché la saggezza popolare, a volte, carpisce le verità molto prima della scienza.

La mente tornò indietro ad otto mesi prima. L’azienda farmaceutica per cui lavoravo come consulente aveva appena acquisito l’ultima meraviglia della tecnologia: il nanomicroscopio Willstar. Un investimento imponente che, nell’idea dell’amministratore delegato della società, doveva servire a rilanciare l’azienda, ormai in difficoltà, nella produzione di farmaci davvero innovativi. Il nanomicroscopio Willstar era comparso sul mercato solo un’anno e mezzo prima, fondeva in un unico oggetto costruito secondo l’uso delle più moderne nanotecnologie la potenza di un microscopio elettronico con la possibilità di farlo muovere liberamente all’interno del corpo umano in virtù delle sue dimensioni molecolari. Poteva esplorare ogni angolo dell’essere vivente fino ad arrivare dove nessun uomo era mai giunto prima. E da lì inviava le sue scansioni del micromondo dentro di noi. Era un po’ come vivere l’emozione di essere dentro il film Viaggio Allucinante, ahimè senza Rachel Welch vicino, ma con immagini tutte vere.

Il mondo scientifico si era gettato a capofitto nel suo utilizzo.  Il sogno di tutti era debellare finalmente la piaga del cancro. E infatti in pochi mesi i progressi nel settore oncologico erano stati portentosi. Ma, a quanto pare, nessuno scienziato era annoiato come me. Ricordo ancora bene la sera in cui facevo il mio turno all’uso del microscopio. Avrei dovuto seguire il rigido protocollo dell’azienda previsto dalla sperimentazione e invece guidai l’apparato microelettronico a zonzo a caso, dentro le cellule, quasi fosse un motoscafo perso nel Mare della Tranquillità.

Era stato un po’ come pilotare un ago in un pagliaio. Sequenze interminabili di tessuti, catene di aminoacidi diverse e per niente dissimili l’una dall’altra, strane forme di materia organica, che non sarei nemmeno riuscito a catalogare. E poi arrivai lì. Dentro il nucleolo di una cellula. E lo vidi. Stavo quasi per ripartire e tornare ad errare in giro. Poi capii.

Dentro a quella cellula, dentro ad ogni cellula del corpo umano, c’era una piccola struttura submicroscopica inconfondibile. Un minuscolo cervello. Organizzato come un cervello, molto molto simile, anche nelle sembianze, con il fratello maggiore dentro al nostro cranio.

Lì per lì mi era sembrata una cosa curiosa, buona per qualche frase d’effetto e qualche chiacchiera da bar, invero quasi insignificante. Ma poi tutto si manifestò piu chiaramente. Ogni cellula in ogni suo nucleolo aveva un “cervello” in miniatura e da lì partivano catene di molecole composite e infinitesime scariche elettriche che, in continuazione, andavano e venivano verso i piccoli “cervelli” delle cellule vicine.

Per due giorni di fila non ero riuscito a dormire. Troppo eccitato e troppo sconvolto per non rimanere lì con il mio motoscafo a sondare la nuova verità che,  per caso e noia, avevo portato a galla. Ogni cellula “pensa” e “dialoga” con le compagne intorno a lei.

In due giorni di veglia avevo scoperto il novanta per cento di tutto quello che oggi so, nove mesi dopo.

Lo riversai nel primo articolo scientifico, che, a dire il vero, all’inizio passò quasi inosservato. Fino a quando si fece vivo Mark Venture, uno scienziato australiano a cui devo gran parte della mia fama. Aveva arricchito la mia scoperta con una serie di importanti dettagli e in tutti i suoi articoli inseriva sempre, in testa, lunghi panegirici per celebrare la genialità delle mie scoperte.  Così efficaci che, leggendo i suoi testi, sembrava fossero opere mie anche le sue straordinarie osservazioni.

Gli devo molto. Non l’ho ancora conosciuto. Ma mi è così simpatico che mi piacerebbe incontrarlo davanti ad una birra. Così poi potrebbe finalmente iniziare il suo prossimo articolo con una frase molto più adatta a me come: “Grazie al fortunoso cazzeggio del mio amico Tony Furlan, un cazzone di prima categoria, finalmente sappiamo da qualche mese a questa parte che ogni cellula pensa, parla con le altre cellule e con il cervello centrale, si agita, vuole cose, ….”.

Mark ha scoperto che ogni cellula, oltre a parlare con le sue vicine, dialoga con il nostro cervello. Già. Proprio così. Ogni istante, miliardi di cellule inviano impulsi elettrici, una specie di sms del corpo, e spediscono catene molecolari codificate, delle specie di e-mail del corpo, e attendono le risposte.

E il cervello risponde ad ognuna di loro. Continuamente. Un gran casino!

Grazie all’opera di Mark e con l’impegno dei ricercatori che ora lavorano nel mio staff abbiamo iniziato ad interpretare il linguaggio delle cellule. Sono vere frasi. Periodi con soggetti, predicati, complementi oggetto e tutto quello che serve per far comunicare due cervelli autocoscienti. Le cellule, tra di loro, usano una specie di dialetto differente tra zona e zona del corpo umano. Qualcosa del tipo, il piede destro parla in veneto, il ginocchio in lumbard, l’ombelico in romanesco. Cose così. Invece, quando parlano con il cervello, usano tutte le stesse regole grammaticali e semantiche.

Ora che ho raggiunto la fama, i miei collaboratori lavorano, io scrivo articoli, cazzeggio, guardo fuori dalla finestra, penso a questa cosa del cervello che deve rispondere a miliardi di altri cervelli. Teste calde. Fannulloni. Sputasentenze. Scontenti. Entusiasti. Ansiosi. Sofferenti. Tutti legati tra loro solo dall’esigenza primaria di sopravvivere e clonarsi.

Il resto, la nostra mente, i nostri pensieri, i nostri progetti sono solo un’invenzione buffa della Natura. Un cervello grande per governarli tutti. Un cervello grande per mettere d’accordo tutte le miriadi di cervelli piccoli per evitare che disgreghino l’individuo. Credo sia stata la cosa più democristiana, forse l’unica cosa democristiana che la Natura abbia mai inventato in tutta la sua evoluzione.

L’articolo che sto scrivendo parla di emozioni, senza citarle. Leggendo l’articolo non si capisce cosa c’è dietro. Mi obbligano a parlare di questa o quell’altra sequenza di molecole che dalle cellule vengono inviate al cervello. Di quella lunga solo 5 Angstrom, di quell’altra stirata su un micrometro e quando succede questo allora scattano i fenomeni psichici.
La verità è molto più semplice. Basta che mezzo miliardo di cellule mandino al centro cerebrale lo stesso identico messaggio nello stesso momento e il nostro cervello va in pappe, si scatenano le emozioni e i ragionamenti non servono più a nulla. Diventiamo agglomerati di cellule che  tirano da una parte all’altra come cavalli. Un cervello grande fa grandi ragionamenti. Miliardi di piccolissimi cervelli fanno il tumulto esistenziale.

Chiusi gli occhi.
Ora che sapevo che esistevano, ora che li avevo visti scorrere nelle immagini colorate e fascinose del microscopio Willstar, mi pareva di sentirli tutti, mi pareva di averli sempre sentiti questi continui flussi informativi dal corpo al cervello e di nuovo al corpo e di nuovo al cervello che disperatamente soccombe sempre al tumulto delle emozioni. Il desiderio, l’amore, la rabbia, la felicità, la stanchezza, la noia. Flussi turbinosi di messaggi non più gestibili che la nostra mente può solo assecondare sotto forma di bisogni irrefrenabili della nostra anima. Il nostro io più profondo e atavico. Miliardi e miliardi di cellule, unite per il bene comune, portatrici dei bisogni più veri del loro esistere unicellulare.
Aprii gli occhi.

La neve ora cadeva fitta.

La speranza della cartella

Ag_Entr

«Ma non si era detto che in questo blog non si sarebbe mai parlato di politica?»
«Eravamo d’accordo così? Davvero? Sai che non mi ricordo proprio.»
«Ne sono stra-sicuro. Quando ci siamo trovati e abbiamo iniziato a scrivere le nostre sciocchezze, avevamo detto: “Parliamo di tutto, ma non di politica.” E mi sa che ci siamo anche stretti la mano in segno di compiaciuta condivisione. E adesso? Li sento sai i tuoi pensieri che ti tradiscono! Li sento molto bene! »
«Ahhh, va bene! Se ne sei sicuro, facciamo così come dici. Niente politica!»

………

Dunque, dovete sapere che qualche hanno fa ho avuto la fortuna di poter accedere ad una delle grandi concessioni del passato. Il TFR. E non dovete credere che io abbia vissuto quel momento senza avere ben chiaro di essere un privilegiato, senza che mi sentissi profondamente un fortunato lavoratore dei tempi delle garanzie. Quelli che prenderanno il TFR, così come presto, quelli che prenderanno una pensione, saranno sempre più simili agli animali in via di estinzione. Una specie di dinosauri, con la piccola differenza che dopo centomila anni nessuno si preoccuperà mai di fare,  per mostrarlo in un museo ai bambini, il rendering di un uomo che sta per fruire del suo TFR. I dinosauri e l’Uomo di Neanderthal sono stati fortunati, hanno segnato la storia e ancora oggi c’è chi si preoccupa di sapere che aspetto potessero avere. L’Uomo del TFR, invece, non susciterà di sicuro l’interesse degli archeologi del futuro.

Bene. Il pensiero di quanto privilegiato io sia stato nel passato aveva già occupato l’angolo del dimenticatoio che gli spettava (anche perché da buon semi disoccupato, il TFR si è naturalmente essiccato molto velocemente), quando un paio di settimane fa il ricordo è riaffiorato. Nella vita leggo troppo poco, ma quando leggo, lo faccio sempre con grande attenzione. E, preferendo alla lettura di un bel romanzo, quella di questa lettera che mi era arrivata con tutte le raccomandazioni del caso, devo dire la verità, sono rimasto veramente sorpreso. C’era vera poesia in quelle parole. Magari ad una prima lettura frettolosa sarebbero potute sembrare asciutte e fredde, ma dietro a quelle sillabe unite tra di loro c’era molto di più. C’era una cura meticolosa nel raccontare con dolcezza che quando ti arrivano dei soldi devi sentirti fortunato, se poi te li danno con una tassazione ridotta devi gioire ancor di più perché non fa nemmeno cumulo con gli altri tuoi redditi, ma la verità più profonda nascosta tra le righe è che non devi preoccuparti mai di niente, perché chi si trattiene il dovuto per conto dello stato, non è tenuto neanche a fare i conti giusti, perché sei in buone mani e il lieto fine è sempre garantito.

Ed infatti, ecco che compare magicamente tra le righe della lettera una specie di Superman senza macchia e senza paura che finalmente riuscirà a fare il calcolo definitivo che ovviamente tiene conto di tutto quello che hai fatto nella vita per lo Stato. Nello spazio di poche parole l’eroe ti dà certezze e fa passare in secondo piano il fatto che il calcolo definitivo dice che dovrai adoperarti in futuri pesanti versamenti.

Qualche giorno fa, passavo in autostrada all’altezza della deviazione per il casello di Desenzano. Più o meno a metà del tragitto tra casa e ufficio. Lì sono stato  assalito dalla consapevolezza che da allora in poi sarei dovuto passare altre sessanta volte davanti a quella deviazione per poter racimolare tutti i soldi per quei versamenti. Non per comprarmi un vestito, una camicia o una maglietta. Non per comprare un mazzo di fiori per una ipotetica donzella (non temete ragazze, non mettetevi in coda, non sarebbe comunque successo 🙂 ).  Passerò lì davanti sessanta volte per aver osato prendere un TFR quattro anni fa, senza accantonarne il cinquanta per cento per il trionfale arrivo di Superman. Anche perché io faccio parte di quella larga maggioranza di persone che pensano: “Se c’è da pagare qualcosa, la si paga. Punto.”.

Sembra incredibile ma di tutta questa vicenda mi è rimasta una semplice, grande speranza. Sì, per carità, mi piacerebbe molto se quei soldi, che già ho iniziato a pagare, servissero per qualche pensione, o per pagare qualche lavoratore pubblico. Magari uno dei tanti frequentatori di questo mondo blog. Mi farebbe davvero, sinceramente, molto piacere.
Non nascondo che sarei comunque contento anche se alla fine quei soldi fossero utilizzati per far del bene a qualcuno con una operazione di chirurgia estetica passata dalla mutua per invertire le unghie degli alluci con quelle dei pollici rovinate dall’uso del detersivo per i piatti.

Però lasciatemi fare un passaggio veloce nel terreno fertile del Politically Scorrect. La mia speranza più vera sarebbe quella di vedere quei soldi finire direttamente ad uno di quei funzionari dello Stato che sono chiamati a decidere dei prelievi sui redditi delle persone. L’ideale sarebbe uno di quei funzionari che sono stati messi al loro posto da qualche politico di turno quindici anni fa, e continuano ad essere al loro posto, nonostante il loro politico protettore sia già caduto in disgrazia.

Ma, neanche a dirlo, quando io spero, spero le cose proprio in grande, e non mi va bene che il mio versamento finisca nello stipendio di uno qualsiasi di quei funzionari. No. Ne voglio uno ben preciso. Voglio che i soldi vadano a quel tecnico del fisco, quello bravo che ha imparato ad impilare i barili, per essere sicuro che quando ha finito di raschiare un fondo, è già pronto per raschiarne un’altro all’occorrenza. Proprio quello che, quando il politico di turno, gli chiederà la prossima volta:
«Abbiamo bisogno di recuperare mille miliardi nei prossimi sei mesi.» Lui si girerà con la solita tranquillità e inizierà a pensare a quale annata di TFR o di buonuscite dei licenziamenti gli potrebbe rendere di più. Ma poi improvvisamente sarà colto da un’illuminazione geniale, tipo quella che mi ha preso passando all’altezza del casello di Desenzano. Rimarrà immobile cinque secondi e poi si girerà indietro verso il suo politico interlocutore e gli dirà con la stessa decisione e dolcezza della lettera che mi hanno spedito:

«Ma voi? Che cazzo ci dovete fare con tutti ‘sti soldi?»