Un difetto dei giovani (maschi) di oggi

Il_Grnochi_Rosa

Oggi, dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a ricaricare le pile esauste, si sarebbe dovuto lavorare ad un raccontino, invece, complici le coincidenze, così non è stato. Ne è sortita una giornata da difetti.

Alla mattina presto è arrivata la signora gentile ed energica che mi aiuta a tenere pulita e in ordine la casa, le ho offerto il caffè, come è consuetudine del sabato prima dell’inizio dei lavori,  e abbiamo scambiato due parole in ordine sparso. Sono così venuto a sapere che la Cgia di Mestre ha appena emesso un’altra delle sue analisi statistiche di grande interesse per il panorama economico italiano, immediatamente echeggiata dal telegiornale di prima serata di una tv locale a larghissima diffusione provinciale. Praticamente, se l’analisi e la sua interpretazione sono corrette, in Italia il lavoro c’è tutto, ma ai giovani italiani non piace più sporcarsi le mani.
A dire il vero questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Non sono riuscito a leggere, né a conoscere il contenuto del comunicato, e qualche perplessità su tutta questa abbondanza di posti di lavoro, non vi nascondo, mi rimane forte. Tuttavia mentre parlavo delle implicazioni di questa notizia shock, il mio pensiero è andato a finire su un evento che si è manifestato profondo negli ultimi dieci-quindici anni di silenziosa e devastante efficacia. Un tempo le compagnie telefoniche mobili erano quello che erano, con il loro target di mercato di riferimento fatto di business man tesi a dimostrare che il loro telefonino era più cazzuto con una tariffa più capace di fare miracoli di tutte le altre. E si sa bene, i business man non perdono né il pelo, né il vizio. Sono ancora tutti là a misurarsi su queste cose strategiche.

Le compagnie telefoniche però si sono un po’ dimenticate di questa importante corsa all’apparire del business, perché il centro delle loro attenzioni si è spostato da tempo su giovani e giovanissimi.
A dire il vero anche questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Ora sento già sfregolare le mani di quei lettori tra voi che stanno aspettando il momento di poter scrivere con soddisfazione come commento qualcosa del tipo “Questo articolo è una vera ca..ata!!!”. Perché mettere in relazione organica l’attento studio della Cgia di Mestre con il solerte impegno delle compagnie telefoniche che compiono quotidianamente l’altruistico straordinario miracolo di far colloquiare tra loro incessantemente questa montagna di giovincelli appare impresa fuor dall’umana possibilità.

Fortunatamente mi soccorre in extremis proprio la panacea di tutto, di sempre, da sempre: il sesso. E anche il collegamento impossibile diventa facile.

Perché sappiamo tutti bene che passiamo il nostro tempo, diciamo per non offendere nessuno una cifra variabile dal 50% al 95% del nostro tempo (che nel seguito per semplicità indicheremo con la cifra tonda del 90%), con il pensiero o il retropensiero finalizzato all’accoppiamento. E i giovani di questi ultimi quindici anni sono stati facilitati anche troppo su questo fronte, perché le loro famiglie benestanti (e non) li hanno messi nelle condizioni di avere in tasca sempre due cose: qualche soldo, giusto il minimo che serve per sballare un po’, e un cellulare, il buon veicolo per rimanere sempre in connessione con il centro dell’attenzione di qualcun altro.

Mi sembra di poter dire che ragazzi e ragazze vivano queste comuni fortune con approcci molto diversi in sintonia con la loro armonia di genere. Le ragazze vivono il cellulare come uno strumento per aumentare il proprio fascino, istillare curiosità e contatti, punzecchiare il materiale emotivo dei maschietti intorno a loro. I ragazzetti sono invece molto più rozzi e pesanti, rapaci e ottusi.

Faccio un salto indietro nella mia gioventù e mi immagino come avrei potuto reagire ad una vita così come viene offerta ai giovani maschi di oggi. Il 90% dei miei pensieri sarebbero soddisfatti (o comunque persi) attraverso forme diverse di comunicazione tutte in mio potere, avrei avuto in tasca sempre più soldi di quelli di cui avrei avuto stretta necessità.
E allora se avessi dovuto imboccare un lavoro faticoso (magari di muratore ed idraulico in cui si costruisce qualcosa di concreto) per portare a casa gli stessi soldi che già avevo in tasca, chi me l’avrebbe fatto fare? Ho visto molte facce di certi ragazzi di oggi dire la stessa cosa.
Se avessi voluto usare quel 10% di energie residue per fare qualcosa di importante avrei accettato un primo lavoro per meno di duemila-tremila euro al mese? I ragazzi di oggi tendono a non farlo. Molto meglio fare qualcosa di idealizzato, non pratico, oppure peggio, finalizzato solo a poter esercitare un giorno una professione che soddisfi quell’arcigna voglia, propria dell’animo maschile, di primeggiare schiacciando chi ci è intorno.

Purtroppo lo studio della Cgia di Mestre è aria fritta. Usa la cognizione comune che i giovani d’oggi apparentemente hanno tutto quello che serve per appagare il 90% dei loro bisogni apparenti, per giustificare il fatto che il lavoro abbonda sulla bocca degli stolti. Ci sono problemi infiniti intorno a tutto ciò, dall’economia reale, alle banche, dalla etica (sentite come suona male anche solo scritta), al lavoro pubblico, dalla mancanza di linee guida di lungo termine, alla pazienza e alla determinazione per perseguirle.

Tuttavia, cari giovani maschi di oggi, lo so i vostri genitori vi proteggeranno da questo evento, ma un giorno le vostre compagne vi spiegheranno l’obiettivo dell’accoppiamento, diventeranno facilmente insofferenti anche se avrete in tasca molti euro e l’ultimo cellulare i-grido, e se avrete troppo apprezzato soldi e divertimenti facili, farete davvero fatica a fare il piccolo passaggio che intercorre tra l’essere fruitore e l’essere creatore. Perché per fare questo insignificante passaggio è necessario prendere le proprie palle e metterle sull’incudine. Prima lo si fa, prima ritornano della loro forma naturale.

Un difetto dei blog

Edera

Oggi passeggiavo tranquillo per le lande che frequento usualmente in questo periodo. Tra le altre questioni un po’ più rilevanti, pensavo anche a quale sarebbe stato il mio prossimo post. Ho una serie di raccontini, idee e altre sciocchezuole che aspettano di essere sviluppate e poi consegnate alle rotative virtuali del tasto Pubblica di wp.

Ma la verità è che in questi giorni non ho veramente voglia di raccontare niente. Non mi sento all’altezza dell’uscire dal banale. Mi sento come se fossi avvolto da un’edera che oscura tutto,  anche le antenne sensoriali.

In questo frangente la voglia di dire qualcosa diventa effimera e i pensieri sono rivolti soprattutto alla confusa introspezione.

Ora che di questo articolato mondo dei blog capisco qualcosa di più dello zero assoluto di qualche mese fa, devo dire che è una figata da molti punti di vista. E, se dovessi riassumere al massimo questo pensiero per non diventare noioso, direi  che credo tutto abbia a che fare con il rispetto, la libertà e la comprensione reciproca. Per lo meno nella maggioranza dei casi.

Il rispetto di chi scrive qualcosa nei confronti dei propri sparuti potenziali lettori, e, dall’altra parte, proprio i lettori, che leggono quando vogliono, con l’attenzione che si sentono di fornire in quel momento della loro vita, con lo spirito ugualmente aperto alla critica, alla suggestione, alla costruttiva valutazione, alla curiosa attenzione. Questa libertà e l’arricchimento nella comprensione che ne consegue è la vera anima del mondo blog e dello spirito che lo anima.

Ma, in giorni come questi, la predisposizione è ancora differente. Sarà l’atmosfera vacanziera che il popolo immerso nelle sue holidays immancabilmente trasuda anche in questi luoghi, saranno le piccole insignificanti storie personali che accadono nella realtà, sarà il repentino passaggio dal caldo torrido al fresco inatteso di questi giorni, difficile valutare. Il risultato finale è che in questi giorni mi è chiarissimo uno dei limiti più grandi di questo spazio virtuale dei blog.

Si sente la mancanza nel non avere a disposizione uno strumento blog che, all’occorrenza, diventi introspettivo. Che ti consenta, ogni tanto, di scrivere qualcosa non rivolto all’ignoto o alle altre persone intorno a noi, ma che sia esclusivamente indirizzato a tutti quei pochi o tanti io (c’è chi ne ha di più, chi ne ha di meno, ma tutti siamo un po’ multipli dentro noi stessi) che abitano la nostra mente e il nostro cuore. Si sente la mancanza di poter scrivere qualche parola, anche raffazzonata (tanto la comprensione dovrebbe essere facile, almeno così si spera), e lasciarla là a disposizione perché l’io di turno che ne ha voglia ed è ispirato, la possa leggere e dia i suoi consigli e i suoi commenti.

Immaginatevi se a fronte di un disagio, o un dubbio esistenziale, o lo scoramento, o l’entusiasmo, o l’amore cieco, potessimo lasciare arrivare gli io nascosti dentro di noi ad uscire allo scoperto, leggere quando ne hanno voglia,  comprendere e rielaborare, proporre, fare un passo avanti o uno indietro spontaneamente. Arriverebbe il Pj razionale, ancorato alla sua ottusa convinzione che due più due fa cinque, e rifletterebbe senza il bisogno di convincere nessuno su niente, l’io romantico che non si accanirebbe a punzecchiare questo nostro cuore più pervicacemente del mondo femminile intorno a noi, arriverebbe l’io sognatore e magari capirebbe che per questa volta è meglio tenere i piedi per terra, il Pj prudente o quello coraggioso che potrebbe finalmente convincersi che questo è il suo momento. E piano piano si farebbero sentire, così, senza una regola tutti gli altri. Il Pj bambino, quello serioso, quello burlone, quello stanco, il pilota esperto, il centauro mancato, lo sportivo alla Decoubertain, il Pj un po’ maligno, quello che vorrebbe bere un amaro prima di coricarsi e quello che fuma tranquillamente seduto in poltrona … E così via. Una cosa è certa. L’ipotetico blog di cui parliamo avrebbe davvero un sacco di followers.

Purtroppo un diario non sarebbe la stessa cosa. Equivale a mettere tutti i PJ che abbiamo dentro di noi nello stesso luogo e nello stesso tempo a discutere in una riunione troppo spesso ciarliera e improduttiva. Mentre lasciandoli ciascuno libero a sé stesso, senza vincoli di sorta e bisogno di interagire l’un l’altro, se ne vedrebbero, io credo, delle belle.

Chissà quanti commenti e osservazioni argute, tutte da rielaborare a posteriori per trasformare la nostra confusa introspezione in crescita ripida, rapida e produttiva.
Ecco cosa manca a questo mondo dei blog. Uno spazio completamente privato e incomprensibile al resto dell’Universo, dove far accedere in libertà qualche rara volta solo i nostri io interiori.
E se poi, vi chiederete, uno di loro perdesse la sua password di accesso?
(direi io) Sfiga! La password non si può recuperare e dovrebbe starsene buono senza rompere più le palle … per il resto della vita.

Ci fu un tempo presente

Confezioni

Ci fu un tempo in cui la nostra vita era sregolata e le nostre azioni schizofreniche.
Ci fu un tempo in cui era normale vedere una banca appianare i propri debiti finanziando l’azienda che avrebbe sottoscritto il suo aumento di capitale.

Era usuale portare sul tavolo della colazione una confezione di brioches dolcemente dorate che emergevano trionfanti e minuscole dopo aver scartato molteplici involucri. Ci si consolava pensando che solo un possente Tir aveva potuto distribuire ai punti vendita tutte quelle confezioni cariche di vuoto, lo stesso Tir che, se l’avessimo avuto a disposizione, ci avrebbe poi fatto molto comodo per portare tutto alla raccolta differenziata.

Era un tempo in cui non ci si stupiva nel vedere prototipi di moto e automobili che usassero  come carburante l’acqua o l’energia solare e si rimaneva fieri nel godere delle nostre code all’ingresso dei distributori, perché l’idea di assieparci tutti sulle rive di un ruscello per riempire la tanica di “benzina davvero verde” per il nostro mezzo, sarebbe stata troppo prevedibile e, allo stesso tempo, incontrollabile.

Costruivamo i nostri nuovi edifici sui parchi in fianco alle cattedrali di vetro e cemento che avevamo abbandonato, perché solo usando la gomma sul colore verde dei prati intorno a noi potevamo sentirci in sintonia con il grigiore delle nostre vite.

Erano anni in cui contribuire a far crescere il PIL era quasi più piacevole dello scambiarsi una carezza alla brezza marina sotto la luce incerta di una falce di luna rosata. Forse anche per quello nei cibi di tutti i giorni ci veniva infilato quel non so ché che ti faceva perdere un po’ dell’attrazione fisica verso l’altro sesso a favore di un cospicuo aumento dei gigabyte da condividere.

E noi ci lasciavamo vivere senza dire nulla, quieti conduttori del filone esistenziale basato sul bisogno del denaro di alimentare sé stesso. E tutto il nostro vivere si stava riducendo a quella semplice regola.

Poi si diffuse il Libro e tutto cambiò repentinamente. Le nuove generazioni dimenticarono presto. Le logiche di quegli anni passati divennero subito incomprensibili. Ricordo ancora bene, quando ancora la famiglia si ritrovava unita per il pranzo di Natale, e cercavo di raccontare ai nipoti venticinquenni come vivevano i loro coetanei di quel tempo lontano. Partivano interessati, iniziavano a farti domande, si chiedevano come poteva essere stato possibile che le conoscenze dei loro coetanei, la loro voglia di fare non sortisse altro effetto se non lavori sottopagati, o addirittura non pagati del tutto. Ascoltavano racconti di giovani che raccoglievano gloria nel partecipare a progetti che, se avessero avuto successo, avrebbero dato loro solo altra gloria. Ascoltavano … ma poi si facevano guardinghi e increduli, con un’espressione sul volto come se stessero pensando: “Che cazzo stai dicendo, nonno?”.

Com’è difficile immaginare il vivere in un mondo ormai scomparso completamente, quando le regole su cui si basava vengono soppiantate da nuovi principi.

Ora io sono solo un povero vecchio, uno dei pochi ancora abbastanza lucidi da ricordare quei tempi che non ci sono più. Perché a noi viveur dell’undicesima decade oggi ti tengono in funzione sempre ad ogni costo, perché tu sia un vessillo del progresso medico. Ma invero, a giudicare dai numeri, essere autosufficienti e autocoscienti a questa età è un privilegio che non credo abbia nulla a che fare con la scienza medica, mentre vivere senza vivere incrementa i numeri della Sanità ma non le nostre fortune.

E così sono uno dei pochissimi fortunati che può dirlo con certezza, ora che non è più una onta parlarne: a quel tempo sapevamo tutti benissimo che la vita che conducevamo in quegli anni che furono, non sarebbe potuta continuare a lungo con quelle sue regole anacronistiche … e, nonostante questo, continuammo imperterriti con una specie di sorriso disegnato sul nostro volto. Continuammo imperterriti.

Riaprire la ferita

chirurgo_innammorato

Non mi era mai capitato qualcosa di simile prima di allora.

L’avevo incontrata già diverse volte, e, a dire il vero, il suo viso dai lineamenti dolci e non elaborati mi aveva sempre ammaliato e i suoi modi gentili avevano ormai conquistato il mio animo.
Fu però solo qualche tempo dopo, quando fummo più vicini e affiatati, che lei si spogliò con naturalezza e io, da allora, non fui più lo stesso. Sono fermamente convinto che, dentro ognuno di noi, dimori una tensione inarrestabile verso la forma estetica perfetta per i nostri schemi sentimentali. E lei incarnava la mia personale forma perfetta.

Rimasi folgorato. Incapace di capire cosa stava accadendo, capace solo di vivere maldestramente delle emozioni che non avrei mai più potuto sentire con la stessa intensità.
Quella volta non riuscii nemmeno a toccarla più che tanto. Mi sentivo come quando arrivi a casa da un negozio con un oggetto luccicante, da sempre sognato. E’ tuo! Ma non osi nemmeno sfiorarlo per paura di sporcare con le tue umide impronte la sua superficie. Come avere tra le mani l’oggetto delle tue brame, ma sotto la maglia continui ancora a sentire la pelle d’oca alta mezzo centimetro.

Da allora, fu necessario vedersi sempre più spesso e, al di là delle parole dette, lei comprese sempre meglio la crescente attrazione esercitata su di me dalla sua magnetica presenza.

Difficile da credere, lo confesso, io stesso sono attonito. Nonostante la perfezione di ogni particolare, arrivò il giorno funesto in cui io rovinai tutto. Nel momento della verità, dentro di me fui assalito dal panico, fallii miseramente e distrussi tutto, prima con i gesti e poi, più tardi, con le parole. La ferii profondamente e la feci soffrire al punto che, ogni volta che ci ripenso, e vi garantisco mi succede centinaia di volte al giorno, mi sento mancare.

Ci volle del tempo perché tornasse ad avvicinarsi. La convalescenza dal mio scempio, evidentemente, fu tutt’altro che facile da sopportare e io mi sentivo troppo colpevole per fare qualsiasi passo.
Quando incontri un angelo, però, lo riconosci facilmente, perché non solo la sua presenza ti sconvolge, ma quando tu sbagli, lui alla fine si disinteressa ai segni che hai lasciato sul suo corpo e sulla sua anima. Trova sempre, inspiegabilmente e con dolcezza, il modo di far rinascere in te stesso la fiducia che credevi persa irrimediabilmente. Per me, con lei, fu così.

Ora era lì, davanti a me, silenziosa conseguenza di un suo non lontano, sorridente “Forza! Ci riproviamo!”. La guardavo ammaliato mentre, finite le sue allegre esortazioni, era già con gli occhi chiusi nell’attesa. Sapevo bene cosa dovevo fare, ma dentro di me avevo solo voglia di abbracciarla, per poter stringere il suo volto perfetto con le mie mani nascoste tra i suoi lunghi capelli. Lì, sarei stato onesto, solo io e il suo viso, e avrei avanzato la richiesta: “Lasciami per sempre solo, con il mio amore per te libero dall’urgenza di dimostrare qualcosa a qualcuno. Stammi vicina solo per il fatto di essere il mio sogno, non perché io sia il tuo bisogno “.

    ——

L’infermiera alla mia destra, esperta e carina, si avvicinò in silenzio con un fare disinvolto, completamente noncurante del fatto che il suo seno fosse arrivato a destinazione molto prima di lei.
– Le passo il bisturi, dottore? – disse fissandomi con un ossequioso mezzo sorriso dipinto in volto – O aspettiamo che la ragazza si risvegli prima di cominciare? – finì la frase virando il mezzo sorriso in una strizzatina d’occhio enigmatica.

Il finale non è nella corsa

Corsa_finale

Non mi era mai piaciuto correre.
E non sapevo nemmeno bene come mai, nonostante questo, da alcuni anni a quella parte ogni volta che potevo mi cimentavo in una inusuale, faticosa corsa campestre tra canne riverse sui canali e uccelli del malaugurio. Non sceglievo momenti qualsiasi della giornata. Esisteva un unico frangente buono per mettere alla prova il mio fisico: l’una del pomeriggio, sotto il sole, preferenza per le giornate di intensa canicola.

Io credo che questo correre fosse il mio modo per scongiurare il crescere della mia pancia: conoscevo bene ogni suo difetto. E forse rappresentava anche la nuova strada per allenare me stesso a dare, ogni giorno, tutto quello che avevo dentro di me per limitare i miei rimpianti. Amavo il silenzio del vuoto di anime dei luoghi accaldati che percorrevo e amavo il vociare della natura che cicalava, stanca padrona di quegli argini soleggiati.

Quel giorno, ricordo ancora benissimo, calura e afa gareggiavano per primeggiare nei pensieri degli uomini e nei disperati spazi riempitivi dei telegiornali vacanzieri. Il termometro segnava trentacinque gradi all’ombra e ogni desiderio di movimento era frenato dalla appiccicosa sostanza che copriva i nostri corpi.
Con il caldo, le persone perdono facilmente sensibilità e gentilezza, e alla notizia della mia imminente corsa, vi fu una vera inaspettata insurrezione popolare nei dintorni della mia abitazione. Scopo dell’insurrezione: tenermi ancorato alle mura di casa.

Fu allora che estrassi tutto il mio orgoglio e la mia spavalda simpatia, e liquidai sul nascere ogni principio di insurrezione con un perentorio sorriso:
– Non temete, state tranquilli, se starò per morire … vi avviso!  –

Ma mia figlia adolescente rispose con una prontezza che mi sorprese:
– Ma Papi, … dicono tutti così! –

Fu così che quel giorno affrontai la mia corsa pensando al racconto che avrei scritto di lì a poco. E non sentii il caldo intenso perché era come se, fendendo l’immobile aria torrida, fossi protetto dal mio nuovo mantello di giovane saggezza.

Il tempo asincrono

Questione_di_tempo

Per quanto ci si muovesse con circospezione nel nostro mondo, il tempo in cui vivevamo era sempre un po’ disgiunto dai nostri sentimenti e dai nostri desideri. Ci avvicinavamo ad un passaggio importante della nostra vita e la sua intensità cresceva limitata e asintotica, perché non eravamo mai completamente presenti a quel momento. Esistevamo, lì, vicini l’uno all’altra nello stesso istante, ma nel contempo, era come se tutto ci sfuggisse  via lasciandoci con il sapore delle cose incomplete e delle occasioni perse.

Era un po’ come vivere un sogno carico di emozioni, ma dai contorni drogati e sfocati. Ogni evento aveva in sé la perfezione, ma eravamo in continua tensione verso il passato o verso il futuro, mai verso il presente. Perché accadesse questo con le nostre vite non lo sapevamo, né sembrava esserci modo per risolvere l’enigma che portava ogni istante del nostro affetto lontano dalla dinamica oscillazione dei nostri sentimenti.

Io credo fosse soprattutto paura del futuro. Paura che il tempo ancora lontano potesse cancellare la gioa del momento presente. E ogni carezza era intrisa dell’ombra di quell’improbabile futuro.

Poi, un giorno, invece, non fu più così.

Murmurations, della Natura

Murmuration

Gli amici che ci sono vicini assolvono a tantissimi piccoli compiti nei nostri confronti, a volte senza nemmeno averne piena coscienza. Può capitare, ad esempio, che grazie alla loro frequentazione arriviamo a conoscere aspetti della realtà che ci circonda di cui non immaginavamo proprio l’esistenza.

Mi è capitato diverse volte di imbattermi nei preparativi alla partenza attraversando nei periodi autunnali i tratti di autostrada un po’ sperduti a ridosso dei lunghi filari di tralicci dell’alta tensione. Sequenze interminabili di uccelli al calduccio degli sfrigolii energetici, pronti a salpare verso nuovi più adatti habitat stagionali. Quando assistevo impotente alla loro repentina partenza rimanevo sempre estasiato. La sincronia di intenti di migliaia di volatili che si staccano all’unisono da un filo sospeso in aria per formare un bolo aereo dalle movenze armoniose, richiama dentro noi stessi una sensazione di sconcertante sorpresa come al manifestarsi della magia. Ci aspetteremmo che la perfezione debba seguire necessariamente le schematiche regole del mondo umano, e invece, vedere l’ordine generarsi dal nulla in cielo, in completa assenza di qualsiasi circolare informativa che ne coordini l’azione, ci lascia senza fiato.

Negli ultimi anni ho la sempre crescente percezione che tra il nostro mondo e la Natura ci sia una dicotomia sempre più marcata. L’Uomo plasma tutto ai suoi bisogni, compie scempi tremendi, si inventa allevamenti di bestiame grandi come una regione italiana, dove gli animali non sono quasi nemmeno più animali, abatte foreste, crea foreste di palma. Non si ferma.

Parallelamente allo strapotere dell’uomo, si sviluppano silenziosi strani fenomeni di segno completamente opposto. Esci dalla porta di casa, passeggi lungo qualche argine poco più lontano della scuola dove porti tuo figlio, e ti imbatti in questi uccelli enormi. Aironi cinerini, garzette, volatili di cui non conosco nemmeno i nomi, esseri sempre più spavaldi che con i loro lunghi becchi sembrano quasi sbuffare al tuo passaggio perché devono sfoggiare la loro apertura alare per farsi più in là. Ogni anno sono sempre di più. Ma quando ero ragazzetto, di loro, nemmeno l’ombra.

Oppure ritorni nel paese di montagna dove hai trascorso momenti spensierati nella tua infanzia, e lo scopri improvvisamente assediato dal bosco. Un tempo intorno alle sparute case c’erano prati, sentieri e donne di ritorno dalla foresta con lunghi rami secchi per ravvivare il fuoco appoggiati sulle gerle. Ora gli alberi sembrano voler entrare direttamente dentro le case con i loro tronchi. Un tempo l’uomo curava la natura intorno al proprio ambiente, ora invece tagliare le piante e l’erba dei prati, ingegnarsi nel contenimento delle frane e delle intemperie non sono attività remunerative. L’uomo non fa più quello che è utile, fa solo quello che gli rende denaro. E negli anni passati evidentemente si è reso necessario aprire troppe gelaterie in Germania. La Natura se ne è accorta e ora si sta riprendendo i suoi spazi.

L’Uomo si concentra nei grandi agglomerati urbani, dove la vita non è più quella delle sue origini naturali, è diventata una specie di disegno architetturale di bisogni e sogni studiati a tavolino negli headquarters della crescita del PIL del mondo. Ma la Natura, è molto chiaro, di tutto questo se ne frega. Sorniona sviluppa le sue piccole mosse per occupare tutti gli spazi che le vengono lasciati. C’è una vera dicotomia in atto tra il mondo umano civilizzato e l’essenza biologica del divenire.

Quando, diverso tempo fa, un’amica mi ha fatto conoscere un fenomeno naturale di cui non avevo mai saputo l’esistenza nonostante i miei più di quattro decenni di orgogliosa presenza cosciente in questo mondo, devo dire che sono rimasto molto colpito. Sono rimasto estasiato perché il fenomeno è mozzafiato, pazzesco. Sono rimasto colpito perché in questo nostro mondo cose così, questi murmurations, non interessano più, non ci si possono forse fare abbastanza soldi, io credo. In luoghi particolari, forse nemmeno così lontani da quelli in cui viviamo, molti disgiunti stormi di uccelli a volte si combinano in una danza frenetica e armoniosa, che coordina migliaia e migliaia di esseri. Si muovono nell’aria mossi da chissà quale recondita spinta che li porta a disegnare nel cielo delle geometrie perfette. E al mio spirito un po’ sognatore sembrano l’espressione di una straordinaria gioia di gruppo. Limiti inarrivabili per le nostre esistenze sociali.

E sono rimasto molto colpito perché un fenomeno così è talmente dicotomicamente disgiunto dalla nostra realtà di tutti i giorni che non esiste nemmeno un termine italiano per indicare questi murmurations. Guardi il video è ti commuovi pensando che è uno spettacolo pazzesco, ma non sai nemmeno bene che nome dare a quello che vedi .

L’ABC della felicità

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Parlare della felicità è tutt’altro che semplice. Se poi ci venisse chiesto di raccontare una ricetta per raggiungerla, l’istinto primordiale sarebbe quello di rimanere ad ascoltare la tremarella delle nostre gambe.

Cedo dunque a questo compito davvero difficile solo per la generosa nomina di Marisa Cossu, creatrice di splendide poesie, che ringrazio di cuore. E cedo anche per l’origine dell’idea, arrivata direttamente dalla Dimora del Pensiero (luogo sempre ricco di spunti interessanti e mai banali).

Purtroppo la felicità ha mille sfaccettature e mille espressioni e ridurre tutto ad una ricetta è solo l’inizio di una lunga digressione che nessuno scriverà mai, perché la felicità è forse, di tutti i sentimenti, quello più intimo e personale. Anche se, una delle fortune più grandi che ci può capitare, è essere vicino a qualcuno proprio nel momento in cui dentro i suoi occhi risplende la sua felicità.

Vi do allora la mia banale interpretazione del compito:

Attesa – la felicità arriva intensa quando c’è una aspettativa disattesa da lungo tempo. Magari arriva improvvisamente, ma sana un bisogno lontano. Se arriva un evento fulminante che autogenera uno stato di felicità, senza basi preesistenti, io credo che il più delle volte questa felicità risulti flebile ed effimera. Al contrario quando esso arriva su un terreno fertilizzato dal lavorio continuo dell’aspettativa limpida e consapevole, lo stato che si genera è spesso sublime.

Bisogno del Desiderio – Sì, lo confesso, sto imbrogliando. Se si preferisce posso cambiare il titolo in l’ADC della Felicità. Non c’è felicità che non abbia nel suo profondo un desiderio intenso di qualcosa o di qualcuno.

Chiarezza e Conquista – Per raggiungere la felicità bisogna aver chiaro il nostro autentico desiderio interiore e bisogna aver un po’ penato per la sua conquista. Perché un desiderio soddisfatto senza il nostro anelato impegno, difficilmente avrà il dirompente effetto di scatenare la felicità più vera dentro noi stessi.

Ora dovrei nominare ben dieci esperti di ABC della felicità, per stare ai patti dell’ideatrice (che per inciso li ha disattesi da subito nominando 12 blog 🙂 ). Non è che non lo farei. Ma molti blog che seguo con piacere ho visto che sono già stati nominati da altri, molti si stanno gustando le ferie, e così via. Quindi mi limito a nomine limitate:

Gecolife,  magari se non ha voglia lui direttamente, può sempre darci la visione di Cirillo sul tema. 🙂

Emozioni in immagini, sospetto che sul tema abbia una sua visione precisa 🙂

Nel giardino segreto, tornata dalle ferie sarà sicuramente “attrezzata” per scrivere qualcosa 🙂

Diemme – Ogni cosa è illuminata, ricambio un vecchio favore e le do un buon motivo per ritornare in vista 🙂

Ritorno a Facebook City

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Non moltissimo tempo fa sono uscito per un po’ da Facebook.

Nello scorso fine settimana, credo in conseguenza di qualche impostazione fatta a suo tempo in fase di partenza, FB ha pensato bene di riattivarmi. E io ho accolto la notizia con una naturale serenità, senza ansie, né aspettative di sorta.

Facebook è un luogo meraviglioso, la sua efficacia è senza precedenti. E’ una specie di propulsore emotivo di attese disattese e ricordi radicati. E una volta rientrati, sono sufficienti pochi minuti e tutti i pensieri che ti avevano portato lontano da Facebook City si rimaterializzano nella tua mente nitidi come un tempo.

Meno nitido, devo dire, è l’aspetto che ho ritrovato in molti miei amici. Non so se sia stata la lontananza dalla mia amicizia virtuale, una specie di lutto in onore della PJassenza, non so se la frequentazione Fb genera a lungo andare degli effetti che noti solo se non ne fai parte, ma devo dire che quando sono entrato ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.

Le possibili spiegazioni per questo evento sono moltissime e nel formularle bisogna sempre tenere presente la viralità dell’habitat naturale in cui vive il popolo di FB City. Perché, nella vita reale, appena uno di noi viene colto da un qualsiasi virus che lo fa starnutire tre volte, viene messo in quarantena, emarginato, invitato caldamente a fruire di inutili antibiotici, per poterlo poi additare a possibile veicolo pandemico. Nella vita virtuale,  se una persona viene colta da un nuovo virus (di originalità), il fenomeno è opposto. Tutti si fanno contagiare, vogliono entrare nella moda a piè pari, quando sono ancora sotto al cinquantamillesimo posto, perché se superano quel limite, arrivare dopo, è un’onta e un disonore. Nessuno si ricorderà che sei stato tra i primi a costruire la moda e lascerai lo spiacevole dubbio di esserti aggregato solo per paura di non essere considerato una persona con la degna sensibilità. Spesso chi rimane indifferente al movimento massonico globale pro-qualcosa, viene portato piano piano, mano nella mano, di discussione in discussione, nella riserva indiana dei “diversi”.

Magari qualcuno si inventa un movimento modaiolo pro-gay d’oltreoceano per l’uguaglianza dei diritti (idea benemerita e sacrosanta, intendiamoci; e non ci sarebbe da meravigliarsi se dietro queste facce smunte dei miei amici, per lo più etero e per giunta italiani, ci sia proprio questo). Partita la moda, tutti corrono a scimmiottare qualche simbolo, e chi rimane con il suo vecchio avatar dai contorni nitidi e bei colori accesi inizia a sentirsi un escluso, un untore al rovescio, una mosca bianca.

Comunque, a distanza di un paio di giorni dai primi avvistamenti, rimango ancora nel dubbio su cosa possa aver sbiadito così tanto i miei amici. I ricordi di un vecchio film, Indipendece Day, potrebbero far pensare che, sempre, quando le immagini diventano sfocate e piene di distorsioni la colpa è di una razza aliena che sta per invadere la Terra e sterminare l’Umanità intera.

Oppure come sostiene qualche agenzia giornalistica e scandalistica si tratta solo di una gigantesca operazione di web marketing e indagine di mercato per scoprire le tendenze in fatto di colori ingialliti (e non solo) della totalità degli abitanti della City.

Io penso però che la risposta buona sia quella più semplice. In un altro film, Contact,  si cerca di applicare il principio del Rasoio di Occam ad ogni puttanata. E così faccio anch’io.

Io sono stato via un po’. Quando si sta decorosamente bene si fa fatica ad avere una percezione esatta dello scorrere del tempo. E forse in questo caso, il periodo trascorso lontano da FB, è stato molto più lungo della mia percezione, abbastanza più lungo da far sì che le emulsioni fotografiche delle Polaroid utilizzate dagli amici per aggiornare il loro profilo siano semplicemente andate a male. Sembrano quasi foto d’altri tempi.

E Facebook è così, autentico, non ti fa vedere le cose che non sono. Nessuno si vergogna se la sua foto profilo fa un po’ schifo (ma il termine giusto era un italianizzabile “cagare”).

Mosso da questa certezza, di aver trovato la soluzione semplice che spiega tutto, vi confesso, non credo mi toglierò da FB City per un bel po’. Non vorrei proprio rischiare di trovarmi talmente bene lontano da essa fino a perdere la nozione del tempo così tanto da scoprire, alla prossima riattivazione, attraverso gli ultimi post super eccitati, che la Fine del Mondo sia già passata. Sai che delusione sarebbe non sapere in diretta che tutto è finito?