La foto di FIK

Foto_di_FIK

Oggi inizio con il salutare alcuni lettori. Sì perché il raccontino di oggi, avviso subito, è un po’ triste e per chi non è dello spirito giusto, è meglio che si fermi qui. Vi saluto con simpatia, ci si rivede presto! Ciao.

————-

Quella mattina sembrava procedere come tutte le altre da due anni a quella parte. Sonno, caffè, pulizia, vestizione, automobile, distributore, autostrada, viaggio. Una giornata speculare alle sue sorelle.

Invece fu diversa.

Non avevo fatto nemmeno troppi chilometri dal casello di entrata dell’autostrada, e, per i casi della vita, mi sembrava addirittura si stesse diffondendo un crescente buonumore nei meandri della mia psiche. Ma ci volle veramente poco per far virare la giornata dalla routine di sempre verso il nuovo. Non era la prima volta che partecipavo ad una coda. Ma quella, fu subito chiaro, era diversa. Arrivato in coda, rimasi subito immobile. Non fu possibile andare avanti nemmeno di un giro di ruota. E, passati pochi secondi, fu il senso di colpa per l’inquinamento che diffondevo alacremente con il mio mezzo, che mi fece spegnere tutto.

Sono questi i casi in cui, se sei fortunato, può arrivare una telefonata di FIK.
FIK è un caro amico. Davvero esperto nella sottile arte del rabbocco del bicchiere di birra. Con lui si gareggia spesso nell’estrarre le verità della vita nascoste nelle sinapsi cerebrali della nostra memoria alcolica. Verità che, ad essere sinceri, il giorno dopo non ricordiamo mai, quasi fossimo vittime di un complotto continuo contro la nostra presa di coscienza. Ma ci lasciano sempre il piacere profondo legato alla loro effimera scoperta.

FIK quel giorno era una decina di chilometri davanti a me, sulla stessa autostrada, impegnato tanto quanto me a popolare la stessa fila di auto immobili. Mi raccontò le notizie di prima mano che venivano dal fronte, anticipando una storia che, oltre tre ore dopo, avrei avuto l’opportunità di osservare attraverso la vista, edulcorata dall’operosa attenzione di vigili del fuoco, dei suoi effetti. La compenetrazione senza scampo tra due autotreni lascia il segno.

Non parlammo molto al telefono. Quando sei in un corteo, si tende a stare in silenzio. Finimmo tutti a far vagare la mente silenziosamente negli stessi pensieri. Io, lui, e tutti gli altri automobilisti assiepati su quel lembo di asfalto. E’ strano. Puoi essere in dieci in coda alle poste per pagare un bollettino e dopo poco c’è sempre qualcuno che si lamenta senza decoro con qualcun’altro. Per i torti subiti, per le lentezze agli sportelli, per gli impiegati fannulloni, contro chi fuma, contro la sorte avversa impersonata da qualche nostro simile. Per qualsiasi motivo utile ad istigare il litigio.
Invece lì, quel giorno, avevo intorno a me qualcosa come cinquemila veicoli, forse diecimila persone. Tutti in silenzio. Qualcuno intento a passeggiare, altri a fumare, qualcuno a parlare sottovoce. Tutti con gli stessi pensieri e nessuna voglia di litigare.

Quante riunioni sono saltate quel giorno? No, non saprei. Tremila? Seimila? Forse. Sicuramente un toccasana per l’economia italiana.
Ma a nessuno di noi interessava nulla di questo. Il pensiero più frequente credo fosse rivolto a quella singola persona tra noi su quel tratto di strada che si era svegliato la mattina, una mattina come tante altre tutte uguali, e aveva dovuto scoprire, forse senza nemmeno riuscire a provare vera sorpresa, che quel giorno era più corto di tutti gli altri giorni, tremendamente più corto.

Certo. Forse nella vita poteva anche essere una persona antipatica, qualcuno con cui non saremmo mai andati d’accordo, del quale non saremmo mai stati amici, nemmeno se avessimo abitato porta a porta. Eppure ognuno di noi provava per lui un rispetto profondo, una specie di riconoscenza immotivata e non perché si era sacrificato al posto nostro nel fortunale di queste nostre esistenze concentrate nella corsa continua. C’è dell’eroismo a spingere avanti la propria vita difficile, e l’eroismo, a volte, è davvero totale e se ci passi vicino, lo senti.

Alcune ore di silenzio dopo, FIK mi ritelefonò:
– Manca poco. La volante della polizia, sta per farci strada. – Mi arriva via messaggio la sua foto. La foto di FIK. – Sono davanti a tutti. – cinquemila auto pronte a ributtarsi nella mischia dietro di lui.

Alla mia altezza la coda si mosse, lentamente, molte decine di minuti dopo. E, ancora FIK, quando ormai le nostre giornate avevano già preso la loro forma finale, mi raccontò come mai ci eravamo rimessi in movimento come tartarughe disperatamente intente a cercar di perdere la gara con Achille.

Sì perché ci eravamo mossi a passo d’uomo.

La polizia, carica della verità dell’esperienza, aveva preferito accompagnare dolcemente la fila lunghissima di auto nel suo “Rompete le righe!” imponendo un’andatura rispettosamente silenziosa fino al casello successivo. E, in tutto questo lento procedere, FIK e io, vedemmo grande saggezza.

Perché quel giorno lì avevamo già dato tutti quanti. Chi poco, chi tutto.

Angoli svoltati

casetta

– Sai, quel giorno lì me lo ricordo bene. Io e lui avevamo bevuto un aperitivo. Lo facevamo ogni tanto. Anche quel giorno eravamo stati benissimo. Avevamo riso, scherzato. Come sempre eravamo riusciti a trovare il modo di parlare di qualche argomento che non avevamo mai affrontato prima. Giacomo doveva andare ad un appuntamento senza importanza, si era scusato per non avere più tempo da dedicarmi in quella occasione, ma ormai si era impegnato. Mi aveva accarezzato sulla guancia leggero come faceva lui, si era alzato e, nonostante tutto, se ne è andato con il sorriso dolce di sempre. – Monica si fermò un attimo a prendere fiato per trovare la forza per le frasi successive – Appena aveva svoltato l’angolo, sono rimasta folgorata dall’intuizione. Non l’avrei più rivisto! L’ho capito subito. Dal suo passo deciso, dalla limpidezza della giornata, da quello che sentivo dentro di me. Da tutto. Sono una scema, cazzo! Ricordo ancora bene che una parte di me aveva ordinato alle mie gambe di rizzarsi in piedi e di corrergli dietro. Per raggiungerlo e tenerlo ancora dentro alla mia vita. Ma a quel tempo ero ancora confusa. A quel tempo iniziavo a perdermi per Pietro. Avevo solo lui nella testa. E così sono rimasta seduta. –

Federica, tutta protesa verso Monica, la fissava con un sorriso di comprensione e di serenità, ascoltando da buona amica le parole che arrivavano e le confessioni che sarebbero arrivate.

– L’ho capito un paio d’anni dopo. Giacomo è l’unico uomo che mi abbia veramente amato. Per come sono, per il mio aspetto fisico, per i miei pensieri, per i miei conflitti e per le mie passioni. Quando mi sfiorava non sentivo mai arrivare il batticuore come con Pietro, con Ugo, con Ferdinando e con gli altri. Però mi sentivo protetta e coccolata come se a toccarmi fosse un’altra parte di me. – Monica si fermò ancora cercando negli occhi di Federica un segnale di comprensione, che non sembrò così chiaro – Lo so non è facile da capire. Giacomo si era dichiarato con me. Mi aveva corteggiato con dolcezza, ma a quel tempo io cercavo i fuochi d’artificio e non avevo capito che quello di cui avevo veramente bisogno, ce lo avevo già, lì con me. E così è passato il tempo senza che ci sentissimo. Lui non mi ha più chiamata. Io l’ho cercato dopo molto tempo, ma qualcuno mi ha detto che aveva cambiato lavoro, cellulare, città. L’ho cercato in tutti i modi, un anno fa. Ho pianto mille volte ripensando a quell’ultimo aperitivo assieme. Sono sicura che se lo incontrassi oggi, scoprirei che è ancora quello di un tempo. Perché lui è così. Sono una scema, cazzo! Non lo rivedrò più! –

Calò un silenzio prolungato, qualche mezzo balbettio, quasi Federica non trovasse le parole buone per rincuorare Monica per i suoi errori, poi di nuovo il silenzio. Faceva un caldo innaturale per essere novembre, si stava bene all’aperto, e il sole illuminava con chiarezza ogni cosa. Gli occhi di Monica, virati ad un azzurro umido, tradivano pensieri introspettivi reiterati, e quasi scuotendosi, per reazione,  riprese:

– Ma non parliamo di questa storia. Raccontami di te, Federica, non ci vediamo da una vita. Non so niente né di dove vivi né di cosa fai. Raccontami! Dove lavori? Sei sposata? Hai un uomo? – Federica si rabbuiò un attimino, come se nella sua vita non ci fosse molto da esternare, si fece indietro appoggiandosi allo schienale e cominciò senza entusiasmo.

– Mah, a dire il vero non c’è molto da raccontare. Lo sai come sono. Io non sono questa grande bellezza, e non sono nemmeno un caterpillar emotivo. Mi piace avere tutto sotto controllo. E la mia vita è un po’ così. Lavoro, vivo programmando la mia vita e quella del mio uomo. Non vogliamo figli perché destabilizzerebbero il mio ordine, – fece un sorriso come per ricevere una approvazione da Monica – facciamo largo uso di ristoranti, cinema e teatro per mantenere il cervello in funzione lontano dalla noia. Tutto qui. –

– Ma dove vivi? Cosa fai? – Monica mostrava con il tono della voce e con gli atteggiamenti un entusiasmo che malcelava la gioia per aver ritrovato inaspettatamente la sua vecchia amica.

– Da alcuni anni vivo lontano da qui. Sono qui oggi solo perché avevo una faccenda da sbrigare. E’ stato quasi un caso che ci siamo incontrate. Quando sono andata via, pensati, per diversi mesi sono rimasta disoccupata, poi ho iniziato a lavorare per un’azienda che si occupa di motori elettrici. Mi trovo bene. Ti ricordi quella volta che tu e Sara mi prendavate in giro perché secondo voi ero adatta solo ai lavori ripetitivi, beh questo non lo è. Lavoro molto con clienti esteri ed è tutto in movimento, io sto sempre dietro la mia scrivania, ma intorno a me è tutto dinamico.  Li aiuto a tenere l’ordine, diciamo. E ti ricordi di quella volta in cui tu e Sara avete … – Federica cominciò a rispolverare i tempi in cui loro tre passavano le giornate ad ammazzare il tempo tra una chiacchiera sui loro ragazzi e i pettegolezzi sul futuro che arrivava.

Passarono dieci minuti di revival sul passato, poi Federica con un impercettibile oscuramento del volto, riprese:

– Ora sono in ritardo devo andare. –

– Sicura di non poterti fermare un altro po’? Mi dai il numero di cellulare che una volta organizzo un incontro con Sara? E magari ci fai conoscere il tuo uomo. –

– Sara l’ho incrociata stamattina. Era tantissimo che non vedevo anche lei. – ormai Federica si era già alzata in piedi e stava raccogliendo la sua borsa. – Magari mi faccio viva presto e ci ritroviamo. –

– Anch’io è parecchio che non vedo Sara.  Magari organizziamo e veniamo a trovarvi. A me e a Sara farà di sicuro piacere incontrare la vostra coppia felice. Noi siamo capaci di vivere solo mozziconi di relazioni. – Monica allungò un sorriso come per condividere della bonaria invidia. – Sono sicura che sarebbe una bella occasione per riallacciare i rapporti. –

– Coppia felice! – Federica fece un sorriso forzato – Ultimamente mi ha detto che si è risentito con una sua vecchia amica. So che non c’è nulla, ma io sai come sono fatta. Basta un niente e vado in ansia. –  Le si chinò sopra dandole due baci sulle guance. E sussurrandole “Ora vado” .

Stava già allontanandosi, ma giunta ad una decina di passi, si fermò, ruotò la testa verso Monica ancora seduta, e, quasi mossa da un ripensamento, le disse con voce nitida:

– Comunque hai ragione: Giacomo non lo rivedrai mai più! Non te lo farò incontrare! – e svoltò l’angolo pensando con soddisfazione al gelo dell’inverno in arrivo.

La fine delle idee

Condivisione

Fummo i primi ad averne coscienza.

Una mattina non diversa dalle altre avevamo atteso il momento di affacciarci alla nostra finestra sul mondo virtuale. La solita sommessa trepida attesa di ricevere qualcosa di importante e di donare qualche momento speciale alle altre persone intorno a noi. Un giorno come tutti gli altri.

Se ad intuire tutto fosse stato uno solo di noi non sarebbe stata la stessa cosa. Sarebbe stato tutto più semplice e l’evento sarebbe passato inosservato. Ne sarebbe uscito al più un post vagamente originale, qualche decina di sue condivisioni, una mezza giornata o due di commenti. Si sarebbe trattato di un passaggio interessante come ogni tanto era sempre successo in questo etereo mondo. Ma poi ogni rumore si sarebbe quetato.  Probabilmente, le alte sfere dell’azienda che gestiva la piattaforma avrebbero sguinzagliato i loro osservatori per guidare il motore di condivisione verso l’oscuramento permanente dell’effimera intuizione di quel singolo di noi appena più lungimirante degli altri.

La storia invece fu differente.

Ricordo ancora molto bene, i primi commenti che ci scambiammo a caldo in rete. Parlammo di sindrome da fuochi d’artificio, di persone stanche di muoversi nello spazio angusto dei flash condivisi che scorrono velocemente fino ad occupare il prima possibile il loro angolo di dimenticatoio. In fondo il nostro stato d’animo era davvero lo stesso di quando si assiste ai fuochi d’artificio: all’inizio si rimane incantati, dalla sorpresa, dai botti, dai colori scintillanti, dalle forme floreali che rischiarano imponenti il buio sovrastante. Ma alla lunga il tuo occhio non trasmette più sorpresa, il tuo istinto ti guida a riconoscere che si sta avvicinando il momento del gran finale, vaticinato precursore del vuoto che ne consegue. Il tuo animo si rammarica perché l’ultimo lampo fatto di pizzi finemente decorati stracarichi di colore è svanito molto prima di essere catturato dalla tua memoria.

La nostra predisposizione in quei giorni non era differente. Eravamo stanchi. Sorridevamo ancora alla vista di queste frasi a sorpresa, ma sapevamo già in anticipo, che scorrendo lo schermo dopo la prova costume riuscita a tutti con successo, perché qualcuno aveva ipotizzato che il costume bagnato si sarebbe asciugato, avremmo trovato quella dolcissima e virale cucciolata di gattini scampati alla leucemia felina grazie alla serata cosmica pro-animali organizzata dal nucleo volontari senza macchia e senza paura del quartiere San Tristino, e poi avremmo gustato una massima esistenziale degli indiani d’america, affiancata dalla confortevole forma a gaussiana del corpo di un oritteropo, che preannunciava la foto degli involtini primavera, invero molto simili a bolo predigerito, che la vicina di casa, vagamente gnocca, aveva appena cucinato senza invitarci né a mangiarli, né a scoparla … e così via. In una sequenza, senza sosta, di fugaci riecheggi di quarta e quinta mano delle stesse idee che qualcun altro aveva avuto chissà quanto tempo prima.

Ma, nella vita reale, lo sapevamo bene in cuor nostro, nessuno di noi avrebbe mai accettato, nemmeno come regalo, un’auto usata di quinta mano.

E forse quel giorno lo capimmo tutti assieme, di colpo: eravamo solo stanchi di ricevere e donare idee trite e ritrite di qualcun altro. Eravamo stati raggirati così profondamente da esserci convinti che ogni contenuto che ci palleggiavamo potesse essere così straordinario e senza tempo da poter rappresentare la versione universalmente ottimistica del nostro vero io. Ci eravamo a lungo identificati in frasi, immagini e situazioni, originali e forti, per colpire senza fatica l’immaginario nostro e dei nostri amichevoli obiettivi umani. Ma nella realtà avevamo solo dimenticato, piano piano, il meraviglioso valore celato dietro l’uso del nostro tempo, non dico per creare noi stessi qualcosa di significativo, ma anche solo per cercare dentro il libro di un nostro amato autore la frase d’effetto veramente in sintonia con il nostro stato d’animo.

Non è importante cercare il perché l’intuizione di massa si manifestò così repentinamente. Non è importante sapere chi sia stato il primissimo di tutti noi a inserire in rete questo concetto. La questione straordinaria e vincente fu che, indipendentemente gli uni dagli altri, mettemmo in circolo lo stesso pensiero scritto in forme sempre un po’ diverse ed originali e, nello spazio di un’ora, investimmo la rete.
Ricordo ancora perfettamente la sequenza degli eventi. Avevo appena lanciato l’aggiornamento del mio stato, con una smorfia di vago disgusto dipinto sulle mie labbra, e avevo deciso di chiudere tutto per quel giorno. Avevo esitato qualche secondo di troppo per quella mia indole un po’ vanesia che ama vedere il click del “Mi piace” da parte di qualche amico sulle mie cose, quando comparvero due condivisioni che scimmiottavano la mia: una frase in inglese maccheronico su sfondo rosa antico recitava “We have our balls completely broken” e subito sopra una “Certe condivisioni ci hanno sfracellato”, in verde speranza, cercava di nascondere con il suo font smisurato la sfondo preso da un film sulla discesa agli inferi. E da lì fu tutto un susseguirsi di sentenze a senso unico, separate qua e là solo dal solito “post consigliato” anacronistico e commerciale che rese il tutto ancor più grottesco. L’aspetto più curioso fu che, stranamente, nelle nostre frasi tutti o quasi avevamo fatto uso del plurale maiestatico, come se più che di intuizione di massa si fosse trattato di autocoscienza collettiva.

Il resto del giorno non lavorammo, commentammo alla grande, diventammo tutti molto più amici e a sera mezza nazione si tolse dalla piattaforma.

Quel che successe dopo lo conosciamo molto bene e non ha senso rivangarlo, ma ancora oggi passo spesso lunghe ore a chiedermi cosa sarebbe accaduto se quel giorno alcuni di noi ci avessero pensato qualche momento in più e avessero desistito dal pubblicare il loro stato o se i primi post di inizio giornata fossero stati quel tanto più originali del solito da scoraggiare ogni nuova tristezza o se i gestori della piattaforma avessero avuto l’intuizione di spegnere tutto in tempo per non far proliferare il rivoluzionario virus nato in quella prima ora. Quando ci rifletto, mi assale vera ansia al pensiero che se avessimo assistito ad un incastro di eventi solo leggermente differente, non ci sarebbe stata nessuna storia da raccontare, e saremmo ancora lì tutte le mattine con la solita sommessa trepida attesa di ricevere qualcosa di importante e di donare qualche momento speciale alle altre persone intorno a noi.

Tutti in balia di condivisioni geniali di decima mano.

Il branco

Il_Branco

La donna in cima alla scalinata, prima di iniziare a scendere, si guarda intorno circospetta quasi in preda ad una intuizione di quelle che solo l’animo femminile sa generare con chiarezza nelle situazioni apparentemente tranquille. Questa sera, nonostante l’approssimarsi della primavera inoltrata, l’aria è stranamente velata e limacciosa e i lampioni appena entrati in azione alla luce incerta dell’imbrunire faticano a rivelare la limpidezza della realtà.

Se non fosse convinta di poter dominare tutto dalla sommità, prima di affrontare i gradini, non credo procederebbe. Tornerebbe sui suoi passi, indietro, a cercare un’altra via verso casa oppure un comodo accogliente taxi. Ma lì, dall’alto, li vede tutti così isolati, distanti l’uno dall’altro, così sparsi e indifferenti, che per un attimo dimentica la sua intuizione. Sette o otto passi sotto di lei c’è un ragazzo distinto, forse di una decina di anni più giovane, alto, asciutto ed elegante, intensamente intento a leggere un libro sulla panchina al bordo della discesa. Riassetta con un vezzo impercettibile la sua minigonna, ordinando alle sue gambe ben tornite di muoversi per iniziare a scendere, mentre i suoi lunghi capelli neri ondeggiano spavaldi e ribelli dietro di lei.

Sono pochi i gradini che si è lasciata alle spalle quando i loro sguardi iniziano a ferirla. Li sente, pungenti, multipli e contemporanei, arrivare da quei punti che solo alcuni istanti prima le erano sembrati innocuamente sparsi. L’istinto la fa voltare incerta verso l’alto a cercare con lo sguardo quella che potrebbe essere la via di fuga. Così tristemente simile alla via che l’aveva portata in quell’incrocio sbagliato della sua vita, quel passaggio ora è presidiato. Un ragazzone dai lineamenti rudi e spigolosi sta scendendo pesante senza fretta e senza dolcezza.

Si volge nuovamente verso il basso e riprende a discendere la scalinata dissimulando malamente, al  ritmico tichettio dei suo tacchi, un’ansia crescente.  Supera l’accanito lettore della panchina che, con la testa rivolta al libro, la scruta attraverso una maligna fessura degli occhi alzata verso il suo petto. Improvvisamente comprende nell’animo che quella sua età ormai non lontana dai quaranta, quel suo corpo sinuoso ed emancipato, compatto e snello allo stesso tempo, inviolato da gravidanze e accentuato dall’aderenza dei suoi abiti è un’attrazione perfetta per portare alla luce gli istinti delle persone intorno a lei.

Alcool e droghe imprecisate fanno crescere e rivelano l’essenza dei più semplici e atavici bisogni. Codificati in maniera fintamente schematica nelle strane sequenze genetiche di milioni di cellule, liberati da ogni senso di umano equilibrio e di sublime condivisione di intenti, essi si scatenano senza alcun filtro verso quel corpo che solo incidentalmente appartiene a lei. Partono all’unisono e vanno concentrandosi verso l’unico punto quasi chiamati da una silenziosa adunanza. Mentre lei, scesa ancora di qualche tremulo passo, viene sorpresa da uno di loro che le balza di fianco coprendole con una mano l’intero volto a soffocare uno strillo che comunque non sarebbe uscito.

Passano pochi istanti ed è riversa sulla nuda terra, subissata da arti esploratori e suoni emessi da corde vocali che legano il suo cuore nella morsa della paura. E i suoi vestiti si dimenticano di proteggerla. Gli uomini intorno a lei sembrano ruotare, ondeggiando come impazziti, carichi di dolorosa energia e per non cedere alla nausea e alla vista dei loro volti, chiude gli occhi.

Sparito il senso della vista le rimangono attivi solo l’udito e il tatto. Ma non può urlare per sovrastare le loro voci, non glielo fanno fare. Non può divincolarsi per sentire contatti fisici differenti con i loro corpi, perché non glielo fanno fare. Morde il fango per concentrare la mente su qualcosa di sensibilmente diverso … ma loro si susseguono in armonia, uno dopo l’altro, quasi avessero studiato un ordine ottimale, a tavolino, molto tempo prima. Ma la sequenza maschera solo atavici bisogni. Intensi. Nulla più.

Ora è il turno del Pertica, l’istigatore di tutti. Lui non ha mai avuto una ragazza, per lui è facile fare il capobranco. Si avvicina solenne e minaccioso, i suoi movimenti sono decisi e impietosi.

E’ misterioso e sorprendente vedere la ragazza come divisa in due. Il volto in lacrime, riverso di lato a cercare quasi un nascondiglio nella fredda terra, in una smorfia di infinita sofferenza, mentre la parte inferiore del suo corpo si muove quasi ad assecondare, con l’ondeggiare del proprio ventre, il ritmo sempre più frequente del loro piacere.

Davvero un peccato che le loro prede dimentichino il piacere e ricordino solo il dolore.

Si alternano uno dopo l’altro incuranti delle lacrime, dei lamenti, e soprattutto incuranti delle suppliche. Anzi ad ogni preghiera della donna sembra scatenarsi un’incitazione ancor più veemente delle frasi ridanciane del Pertica. Uno dopo l’altro. Uno dopo l’altro.

Ora vi devo lasciare. Questo è il branco, io sono uno di loro, e adesso è il mio turno.

Soldato

Soldati

Sono in pausa pranzo in un locale molto affollato. Mi avvicino quel tanto che basta alla televisione per riuscire a sentire le notizie, perché il vociare degli avventori continua nonostante le scene truculente che scorrono al telegiornale. Come dare loro torto se continuano a discutere i loro affari? In fondo quelli dall’altra parte della telecamera distesi immobili nel loro sangue sono il nemico, gente che fa del cellulare ultimo grido l’idolo da venerare, mentre qui le persone muoiono di fame. Sullo schermo scorre veloce una sovraimpressione che sancisce il numero di vittime: 87 di cui 45 civili.

Ibrahim è stato bravo, penso tra me e me, ottantasette è un numero niente male, è quarto nella classifica di sempre; del resto si vedeva bene che era incazzato, aveva perso tutta la sua famiglia: moglie, figlio e tutti i fratelli. E quando non hai più niente a questo mondo, chi ti ferma più? Due giorni fa lo avevo incontrato, occhi fieri e determinati, concentrato su quale sarebbe stato il punto preciso e il momento ideale in cui farsi esplodere. L’odio azzera la paura. Quelli come lui non falliscono e rendono semplice il nostro compito.

Il nostro compito … Un tempo c’erano le guerre anche qui, un tempo si andava al fronte e si combatteva, si impugnavano le armi e si faceva morire o si moriva. Si mutilava o si rimaneva mutilati. Oggi è diverso, se crei una linea immaginaria dove combattere quelli ti mandano tutto l’arsenale che hanno e cancellano i tuoi soldati e tutto il fronte. E non rimane niente, prima ancora di poter dire “la guerra è iniziata”.

I miei superiori sono stati sempre chiari: se vogliamo che il nostro popolo si affranchi da questa vita di stenti servono soldi e armi e ancora soldi. E nessuno è disposto a dare abbastanza denaro se non porti avanti una guerra. E una guerra esiste solo se ci sono dei luoghi precisi in cui il sangue dell’uomo viene versato; non importa dove ciò avviene, l’importante è trovare questi luoghi anche al prezzo di farsi saltare in aria … Oppure bisogna aspettare nel dolore che il nemico si sciolga lentamente nel vuoto dei suoi valori.

Non oso raccontare a nessuno il sogno che insistentemente torna a tormentarmi tutte le notti da alcuni mesi; nel sonno vedo l’unico vero fronte, quello su cui dovrebbero confrontarsi i nostri popoli. Io vago per la periferia delle nostre città: miseria, fame, malattie e dolore. Le truppe nemiche avanzano e i soldati posizionano le loro artiglierie dando comandi frenetici nella loro incomprensibile lingua e subito intorno a noi inizia a piovere una gragnuola fittissima di pani e altri viveri, medicine e bottiglie di acqua. In molti cadono senza vita colpiti a morte dagli oggetti lanciati dal nemico; finalmente hanno finito di soffrire. Terminato l’attacco i superstiti seppelliscono i morti mestamente e raccolgono i viveri e i medicinali per cominciare una nuova vita e la guerra finisce. I pezzi dell’artiglieria del nemico sono inservibili, vengono abbandonati con i loro percussori grondanti mollica di pane e sono pronti per essere trasferiti nei nostri futuri monumenti ai caduti.

Mi libero dai miei sogni prima di rientrare nell’ufficio dove mi sta aspettando il prossimo soldato. Qualcuno li seleziona, io li motivo, altri ancora li preparano e infine qualcuno li segue da lontano mentre arrivano al loro obiettivo. Una catena di montaggio: nessuno potrebbe sobbarcarsi da solo il peso di portare a compimento il percorso di questi proiettili umani. Iniziano a scarseggiare, un tempo il costo più alto era l’esplosivo dei loro zainetti, ora sono loro la merce preziosa; anche la qualità inizia a diventare un problema. Gli Ibrahim sono cosa rara … Quello di oggi, non voglio neanche conoscere il suo nome, non sono dello spirito giusto, non ha nessun motivo per andare a schiantarsi contro il nemico. Non voglio sapere quale torto ha commesso per essere lì. Gestisco la discussione con un po’ di maestria dopo aver letto poche note della sua scheda personale; lui mi osserva con la fronte già imperlata di sudore, può voler dire tutto, si sa, ma quelle gocce, mi fanno capire perfettamente quale sarà l’esito di quella azione. Lo rassicuro parlando della pensione che riceverà la sua famiglia, potrà essere una bella cifra se il risultato sarà particolarmente positivo; non gli dico che è normale che nel caos di questi tempi già dopo due o tre mesi si perda traccia di chi ha diritto a qualcosa. Di certo scoraggerò l’idea che si erano fatta su di lui, un esperimento dicevano: volevano installargli webcam e auricolari e volevano guidarlo da lontano, passo passo fino all’obiettivo finale, fino a farlo saltare in aria da remoto. Lo congedo con un sorriso di incoraggiamento.

Poi mi lascio cadere sulla poltrona e osservo in alto sopra la libreria la confezione del mio nuovo smartphone. Mi è stato regalato dai superiori come premio per il lavoro svolto; ora è ancora lì, imballato, intatto, mi fissa continuamente da alcuni mesi a questa parte, vuole essere aperto …

Immagini dal futuro

Immagini_Dal_Futuro

Era domenica sera. Fabio, come sua abitudine, stava scaricando le riprese delle telecamere personali dell’ultima settimana. La vita stereoscopica dei suoi ultimi sette giorni sarebbe lentamente fluita nella chiavetta del suo computer. Poi sicuramente avrebbe rivisto i momenti più coinvolgenti sulla televisione 3D di casa, cercando di fissare ancor più nella memoria le emozioni di ogni passaggio.

Quasi per anticipare il piacere dell’imminente visione stava scorrendo le immagini della sua cena con Laura di mercoledì sera. Era davvero incantevole. Il suo sguardo magnetico lo lasciava sempre in uno stato di ammaliata dipendenza, al punto che il suo corpo sinuoso e armonico perdeva completamente di importanza.

Certo, qualche volta, riguardando le riprese, scopriva con sorpresa e un po’ di malcelata vergogna che il suo sguardo divagava, piombando fugace e pesante a scrutare le curve di Laura, per poi risalire di nuovo al suo volto. In quei momenti lo assalivano sensi di colpa per i suoi istinti animaleschi e, allo stesso tempo, il rammarico per non essersi attardato di più ad ammirare il suo corpo. In fondo presto, ne era certo, sarebbe stata la sua donna. E forse addirittura lo sarebbe stata per sempre.

Ora le immagini presentavano Laura sempre più grande. Lei aveva appena fatto una battuta simpatica e lui le si stava avvicinando per sfiorare le sue labbra. Risaltava sullo schermo la bellezza e la profondità del suo sguardo e spiccavano le due piccole minitelecamere posizionate appena a lato dei suoi occhi luminosi. Lei era una di quelle bellezze naturali che disdegnava i trucchi pesanti e i ninnoli di contorno al volto, ma aveva un’unico vezzo. Cambiava ad ogni uscita le cover delle sue telecamere e le abbinava a lenti a contatto colorate creando a volte contrasti spiazzanti, a volte armonie ammalianti.

Ora si stavano di nuovo allontanando dopo il fugace bacio. A Fabio, quel tipo di scene, riviste nel futuro dopo averle vissute dal vivo, generavano sempre un fondo di tristezza a cui non riusciva ad opporsi. Era un po’ come rivivere un’emozione forte avendola svuotata completamente dal contatto e dal calore che l’avevano generata. Pensò in quell’istante che prima o poi le persone avrebbero smesso di avvicinarsi mentre registravano, perché il rivedere la tenerezza vissuta da protagonisti, senza riprovarne i rintocchi sui sensi dell’agire, avrebbe svuotato i loro sentimenti.

Scacciò quello scomodo movimento dell’animo ripensando a Laura e a quello che gli aveva raccontato proprio in quella cena. Anche lei era solita scaricare i video della sua settimana alla domenica, alla fine della serata. Fu colto dall’intuizione che anche lei fosse proprio in quel momento davanti ad uno schermo a rivivere quel loro bacio fugace e si sentì invaso nuovamente da una tenerezza commossa.

   ……

Il bel volto di Stefano era sotto di me ma non lo vedevo. I miei occhi erano chiusi ed ero persa in un luogo senza tempo e senza spazio. Il palo su cui stavo salendo e scendendo con tutta me stessa, mentre lui accarezzava dolcemente le mie curve, era piuttosto rigido. Peccato solo che nelle riprese non si sarebbe visto.

L’Amante

Amante

Lo vedo da lontano, cammina senza convinzione, spingendo i passi in direzioni sempre un po’ diverse. L’argine lo vincola a seguire un flusso, un percorso in qualche misura obbligato che lo porterà al ponte successivo. Lì potrà decidere di tornare indietro o proseguire ancora, fino al collegamento seguente verso l’altra sponda. L’altra riva del fiume, il luogo dove lei sta aspettando, invece, sembra troppo lontana per il suo incedere.

E se non fosse sull’argine, se fosse su un prato di erba tagliata di fresco, il suo passeggiare disegnerebbe solo un cerchio malfermo, fatto di accelerazioni e di soste, di scostamenti laterali e di sguardi verso il vuoto.

Lo vedo da lontano e capisco che è indeciso, ma non è una esitazione dettata dal ricordo concitato del suo membro dentro di lei o dal calore ancora acceso di una carezza di lei sulla sua guancia, è un’incertezza piena di pensiero. Si ferma e rivolge il volto al fiume, ma non vede le increspature sull’acqua che spezzano la morbida sequenza del canneto. Non vede il topolino che rincorre la riva cercando la tana e non vede sul pelo della superficie i cerchi concentrici con cui la libellula azzurra sta giocando. Il suo sguardo è meccanico, guarda lontano i pro e i contro di una situazione che non governa. E riparte con il passo malfermo verso il ponte che non varcherà.

Chiudo gli occhi e mi sembra di vederlo da vicino, il volto teso e le guance rubizze cariche di tensione. Vuole uscire dai capillari della pelle per liberare finalmente la sua mente dai pensieri. Essi sono affollati dai lunghi capelli biondi e dal fascino delle espressioni di lei, dai tratti originali del suo volto, dall’eleganza con cui le caviglie si innalzano verso le gambe e dalla profondità del suo sguardo. Ma anche se i suoi pensieri parlano di tutto questo non riescono a non concentrarsi su quello che sarebbe giusto fare, ragionevole per lui e per la sua storia di uomo, su quello che il resto del mondo si aspetta che lui faccia e su cosa succederebbe fra qualche anno di tutte quelle immagini di lei che gli affollano la mente. E vedo anche la sua paura proiettare quello che lei penserà di lui quando il magico desiderio dell’imprevisto avrà lasciato il posto alla consuetudine della vicinanza.

Ho gli occhi chiusi e comunque lo sento arrivare alla soglia del ponte, lancia una rapida occhiata verso l’altra sponda con la testa sempre china e lo vedo invertire la rotta. Sembra per un attimo aver preso coraggio, sembra camminare più deciso e spedito, forse preda di un fugace benessere suggerito dalla convinzione che decidere qualcosa sia più importante di lasciare il ricordo di lei vagargli nella mente su quell’argine punteggiato di sparuti podisti. Ma bastano pochi passi decisi, che subito si fanno avanti i passi indecisi, quelli di prima, che rallentano e fanno pensare. Anche se una decisione è già presa, ce ne è un’altra che potrebbe sostituirla. E lo seguo mentre avanza verso di me, che mi tengo in disparte senza nascondermi.

Apro gli occhi. La panchina dove sono seduto è a poche decine di passi dall’argine dove lui sta passando. Ma non mi vede, perché vede solo i suoi pensieri, i pro e i contro, senza riuscire a vedere la gioia che gli potrebbero dare le immagini di lei che gli affollano la mente. Mi oltrepassa e arriva lento ai bordi della discesa, dove l’auto l’aspetta per portarlo lontano dai suoi desideri.

L’amante di mia moglie si perde ogni giorno, per sempre, qualcosa di importante.

Reminder Facebook

Notifica_Facebook

Aiutare a ricordare

Oggi è sabato.
Come tutti i sabato da molti mesi a questa parte Frank non riusciva più a dormire. Gli altri giorni della settimana non aveva particolari problemi. Sabato no. Se avesse continuato a non dormire in questa maniera così travagliata, avrebbe sicuramente fatto cambiare giornata o almeno la modalità di invio degli avvisi agli utenti.

Nemmeno sapere che il suo stipendio era raddoppiato da quella volta, sapere di potersi permettere nuovi lussi gli lasciava spazi per dormire.

Avevano detto che era stato incredibile. L’idea di avvisare il mondo di tutti i compleanni imminenti … Un vero colpo di genio. E il genio, in aziende come questa, viene premiato.

Questo sabato stava ancora peggio del solito. Lunedì aveva assistito ad una conferenza del management dell’azienda sullo stato di tutte le principali iniziative. Alla sua idea erano state riservate ben tre slides. Con i numeri. Il numero di messaggi di auguri censiti era impressionante. A leggerlo al centro della prima slide, a fianco della cifra con gli introiti indiretti di quella iniziativa, avrebbe potuto far tremare i polsi, ma ormai, su di lui, quei numeri non facevano più colpo. A turbarlo era stata la seconda slide con il numero stimato di nuove coppie che si erano formate grazie alla sua idea geniale: il reminder compleanni. E ancor di più il numero di bambini che esse avevano prodotto. L’analisi automatica dei messaggi e dei post della rete aveva identificato chiaramente che almeno 6.818 nuovi bambini erano nati indirettamente grazie alla sua idea. L’almeno era sottolineato doppio e aveva un font più alto di tutte le altre parole della slide ed era seguito, più in piccolo, da un altrettanto inquietante in rapida crescita.
Quella slide era lì perché doveva essere il momento ilare della presentazione, il relatore si era divertito e con lui tutta la platea quando aveva indicato Frank con un gran sorriso e il braccio teso, dicendo che si sarebbe potuto dire che Frank era un po’ il papà di tutti quei 6.818 bambini. Tutti si erano girati a fissarlo con larghi sorrisi sornioni, come se lui fosse stato l’inventore di un giocattolo innocuo, una specie di liquidator che invece di sparare acqua o bolle di sapone, fosse stato predisposto per essere riempito di sperma.

La slide successiva lo aveva steso definitivamente. Recitava con soddisfazione che l’unico effetto collaterale erano state quelle sole 125.167 persone in tutto il network che avevano smesso completamente di fare auguri ai loro amici a seguito dell’inizio della nuova campagna di reminder compleanni. Rispetto ai benefici generali, una conseguenza trascurabile.

Insomma tutto un vero successo. A parte la sua insonnia del sabato, ovviamente.

Il Tir dentro al racconto

In_autostrada

Il primo racconto parla di sé

Ho deciso di inaugurare una raccolta di Racconti Lampo per il mio blog. A dire il vero, queste idee originali, mi vengono spesso quando viaggio e il problema arriva dopo, al momento del rientro a casa alla sera, perché sono davvero troppo stanco per dare loro seguito. E tutto rimane confinato nello spazio angusto della mia esistenza mobile.

Oggi però, me la sento proprio, sarà diverso. Questa volta non mi fermerà niente e nessuno e darò finalmente inizio a questa lunga sezione di racconti brevissimi. Pare ne sia convinto anche il Tir che mi scorre accanto lungo l’autostrada. Dapprincipio non me ne accorgo neppure, perché la musica di “You Shook Me All Night Long” inonda l’abitacolo della mia auto conciliando i miei ragionamenti. Ma poi, per un attimo solo, lo sento bene. E’ tutto piegato verso di me, plasma con la sua energia il tettuccio della mia auto come fosse una pellicola di stagnola ed ora vuole entrare dentro la mia testa per fare il protagonista del mio primo racconto.

Vorrei non lasciarglielo fare, ma, inevitabilmente, non posso.