Del toccare il cielo con un dito

Toccare_il_Cielo

Qualche giorno fa ero con un mio caro amico, mi ha mostrato alcune sue foto e abbiamo convenuto che queste erano buone foto da utilizzare per un articolo nel mio blog. Con quattro semplici click Tom le ha condivise e mi accingevo ad utilizzarle. Credo siano state scattate dal suo aviogetto superveloce, nel mezzo di uno dei suoi viaggi in missione segreta verso Cosenza. Perché Tom è un agente segreto. Più volte la Lega Stellare ha ingiustamente e senza successo cercato di collegare la sua identità con quella di un noto pericoloso narco-fabbricante di gemelli.
Si chiama così, ne sono quasi certo, perché mischia nello stesso uomo la dolcezza del personaggio di Tom & Jerry con la medesima accattivante instancabile energia di un Tom Cruise in Mission Impossible.  Come riprova di queste sue impavide caratteristiche ho saputo che di recente ha disinvoltamente fatto la pipì al cospetto dell’intera Via Lattea, al buio, dalla cima di un pericoloso burrone dal minaccioso nome di “Peron del Moz“.

Mi apprestavo dunque,  gustando un po’ di magime vegan,  ad utilizzare una delle sue foto per adornare uno dei miei soliti raccontini senza speranza, quando, mentre la caricavo su WordPress, ho capito che la sua destinazione d’uso sarebbe stata differente.

 Nella vita le nostre sensazioni ci ingannano. Sono moltissime le volte in cui ci sembra di toccare il cielo con un dito, in cui ci sentiamo come se potessimo ottenere tutto dalla nostra esistenza. Questi momenti sono molto più frequenti di quello che crediamo e sovente, più saliamo in alto, più ci facciamo abbattere, dopo, nella malinconica realtà della nostra essenza. Perché, la verità è che siamo tutti poco più di formiche, nemmeno troppo riconoscibili gli uni dagli altri, proprio come le formiche. Camminiamo radenti al suolo, poi ci ritroviamo trasportati dall’aviogetto della vita fin sopra le nuvole, dove gioia, sorpresa, bellezza e forza sembrano regnare inscalfibili. Ma poi immancabilmente si ritorna a terra. Si slacciano le cinture, il viaggio nel sublime finisce e si ritorna a camminare nel nostro habitat naturale.

Ho visto grandi dirigenti d’azienda, persone straordinarie simili a condottieri, terminare il loro mandato e finire in un triste oblio, snobbati dalle stesse persone che pochi giorni prima li veneravano.
Ho visto grandi amori finire nell’odio e nell’astio, quando non sarebbe stato possibile nemmeno lontanamente immaginare un litigio.
Ho visto persone giustamente entusiaste per le loro conquiste perdersi un giorno dopo nell’ansia smarrita per non sapere come aggiungere un nuovo successo al loro insaziabile palmarés.
Ho visto luoghi così mozzafiato da porsi la domanda “E se rimanessi qui per sempre?” sbiadire al calare di una nuvola in un mesto richiamo per le tristezze della nostra anima.

Toccare il cielo con un dito.
Una figata quando succede. Anche se la vera figata, io credo, sia soprattutto la sua versione completa: una formica sta toccando il cielo con un dito.
Dovremmo ambire ai momenti sublimi, ma non dimenticarci di provare gioia anche quando siamo stabilmente a terra e teniamo stretto il nostro granello di sabbia da portarci appresso. E magari ogni tanto alzare gli occhi al cielo e dire: “Sono stato là!”.

Il difetto del resistere

Uccelli

Oggi mi sono ritrovato in una riunione con una collega e altri dodici apostoli intorno a noi. Più tardi, mentre rientravo alla stazione Termini, nello spazio di trenta metri nella zona “barboni” ho incrociato esistenze. Una donna di colore diceva ad alta voce in inglese “Ho bisogno di essere baciata!” – stranamente, non c’era la coda davanti alla panchina che aveva colonizzato, anche se non era affatto una brutta donna -. Un paio di uomini distesi, raggomitolati,  davano l’aria di fare il sonno più profondo della loro vita. Una donna sui cinquanta stava seduta completamente immobile – e quando dico immobile intendo dire dotata di stabilizzatore di immagine a prova di qualsiasi impercettibile movimento – con la testa china nascosta dentro i suoi lunghi capelli che avevano il solo difetto di non aver mai visto una tintura. Un’altra anziana dall’aria arcigna, con la chioma gialla e il carrellino al seguito,  urlava alla fila di taxi “Siete tutti cattivi!”. E qui mi fermo, ma potrei continuare ad allungare la lista di immagini tutte disgiunte, ma con fili conduttori comuni.  In questi casi, complice anche una certa stanchezza, i miei pensieri tendono ad avvilupparsi ed intrecciarsi … e non possiamo farci niente.

Esistono due differenti tipi di resistenza nella vita, molto diversi tra loro. Sono entrambi la dimostrazione che la tenacia dell’uomo può essere straordinaria.
Ho in mente lo sforzo continuo ed eroico di certe madri che seguono i loro figli giorno per giorno per anni e anni e anni e instancabilmente, anche se tra mille silenziose, nascoste rinunce, mettono il bene dei loro figli, e non solo, davanti a tutto.

Penso a coloro che resistono costantemente alle loro pulsioni più strane nella speranza di riuscire a mantenere quel minimo equilibrio che possa portare la loro vita in qualche punto preciso.

Ho in mente la tenacia di certi uomini,e non solo, che anche nelle tempestose circostanze delle crisi economiche spingono il loro aratro in cerca della vena buona per dare sicurezza a sé e al futuro dei propri cari.

E, dall’altro lato, penso a quei lavoratori che hanno agguantato un posto di lavoro buono, anche se ormai anacronistico, e lo difendono con i denti, le unghie e le minacce, al punto di impaurire tutti intorno a loro e tenere vivo un modo di lavorare e una professione che non hanno più senso di esistere nel mondo di oggi.

Penso a quegli amanti che tengono in scacco perpetuo il loro amato sotto la spinta di un desiderio di vincere un predominio che lasci lontano il rischio del distacco. Anche quando ormai l’amore è solo l’ombra di sé stesso.

Tutte espressioni di una straordinaria capacità dell’uomo di resistere alle difficoltà e alle sofferenze, al cambiamento e alle incertezze.

Pensiamo tutti di essere un po’ più fighi di quanto in realtà siamo e, proprio per questo, non riusciamo mai a diventare tutto quello che potremmo diventare. Ma quando facciamo uso della resistenza, nel nostro piccolo e senza preoccuparci troppo del fine ultimo del nostro resistere, siamo soprattutto una specie di eroi. Rinunciamo ad una parte della vita nell’illusione di raggiungere qualcosa di migliore. (O per lo meno … non peggiore).

E per quanto diverso possa essere il resistere nelle sue differenti espressioni, un grande punto in comune esiste sempre. E temo sia il suo vero difetto.

Basta che ci attardiamo un secondo con i pensieri, basta che perdiamo un attimo la concentrazione delle nostre energie verso gli obbiettivi “resistenti”, e in un lampo tutti potremmo facilmente scrivere nella nostra vita e nella nostra storia un articoletto rilassante e sconsolato dal titolo “I molteplici pregi del mollare la presa”.

Il difetto della speranza

Speranza

Oggi ero incerto su cosa scrivere. Un raccontino è nell’aria da un po’ di tempo e invoca i suoi spazi per essere scritto. E’ un raccontino estivo, che dovrà prendere luce prima che oltrepassiamo la boa autunnale, altrimenti non ci ricorderemo più di come si vive in agosto al limitare della spiaggia e finirà per essere ancor più fuor di luogo di quanto sarà già naturalmente.

Tuttavia qualche giorno fa, chiacchierando serenamente, qualcuno mi ha detto con delicatezza che i miei raccontini, sì non sono male, ma sono molto meno efficaci di quando scrivo perché ho qualcosa di interessante da dire.
Ammesso che io abbia qualcosa di interessante da dire…

Tutto questo non è realmente importante, se non fosse che, nel susseguirsi dei voli pindarici della mia mente, sono passato di pensiero in pensiero, dallo scrivere un futile raccontino, alle incertezze che ci prendono a volte nella vita, e, alla fine, ad una riflessione sulla speranza. Perché, si sa, la speranza è uno stato d’animo bello! Ci predispone al buonumore, ci apre la strada a nuove emozioni, ci fa sentire carichi di potenzialità e soprattutto ci fa pregustare anche quello che non sarà. Una specie di piccolo miracolo!
Addirittura stiamo parlando di quella straordinaria emozione che è l’ultima a morire e finché abbiamo un minimo alito di vita, pur moribondi, può ancora venirci a trovare, dolce e piena di positivi presagi.

Però, se ci pensate bene, non è così.

Sia che stiamo anelando l’interesse della cosciona della porta accanto perché si accorga ammaliata di noi, oppure che il nostro capo finalmente ci riconosca tutti i meriti che abbiamo collezionato nella nostra splendente carriera professionale, finanche se pensiamo a quella magica continuazione della vita oltre la morte, che è sicuramente la Speranza con la S con il font più grande  tra tutte quelle a cui possiamo concedere il nostro coinvolgimento, il meccanismo è sempre quello.
Desideriamo, iniziamo a sperare in qualcosa e piombiamo in una dinamica da cui difficilmente usciamo. Perché appena si incomincia a dar spazio alla speranza, naturalmente, è come se svoltassimo un angolo che ci porta dritti dietro alla medaglia e iniziamo a vagare nel regno dell’incertezza e dell’incompletezza. Temiamo lo sbaglio che allontani l’obiettivo da raggiungere, cediamo all’ansia dell’inadeguatezza, pendiamo dalle decisioni di qualcun altro.

Perché quando speriamo in qualcosa, fatalmente, c’è sempre qualcun altro che deve fare qualcosa perché il nostro sogno si avveri.

E’ così che, se ambiamo un riconoscimento, finiamo a volte per perseguire l’immobilismo nel lavoro per non turbare l’efficacia dei nostri benemeriti capisaldi conquistati nel passato. Se desideriamo sondare la speranza di vita oltre la morte, finiamo sovente a raffazzonare la nostra esistenza caricandola di falsi buonismi nell’illusione di poter convincere il nostro Dio di essere più degni del suo dono di quanto lo siamo realmente.

La speranza invece è solo un trucco. Per tenerci in gioco quando non lo siamo già più, per confondere le acque quando tutto è chiaro, per trasformare il nostro potenziale successo in cocente delusione, trasferendo ai nostri occhi il controllo del nostro personale agire verso la benevolenza degli altri. Suona veramente male da scrivere, ma la parola buona per spiegare a cosa serve la speranza è … deresponsabilizzazione. Suona veramente male. E non è un caso.

Desiderare non sperare. Essere noi stessi e non abdicare la nostra reale essenza a favore di reiterati e goffi tentativi di percorrere strade che non ci appartengono, per ottenere risultati fuori dalla nostra portata, perché declinati nelle forme auliche esagerate che solo i nostri sogni sanno immaginare.

Abbandonare le speranze per essere sempre noi stessi. In ogni frangente. Sarebbe una specie di piccolo miracolo! Questo sì.

Forse allora potremo varcare l’uscio di casa e saremo finalmente notati dalla cosciona della porta accanto che rimarrà interdetta non capendo se il nostro sorriso sereno fosse stato rivolto alla sua persona, invece che alle sue gambe lungimiranti. Forse allora condurremo la nostra onesta giornata lavorativa noncuranti dell’habitat intorno a noi, interessati solo ad essere coerenti con la nostra professionalità. Forse allora vivremo la nostra esistenza sempre allineata a quello che siamo dentro. Non sarà la versione più buona e vincente come prescritto dal Manuale delle Giovani Marmotte alla voce “guadagnarsi l’Aldilà”, ma forse Lassù non sono nemmeno così inclini alle finzioni.

A volte, specialmente sorseggiando un bicchiere di vino, mi appare chiarissimo che i nostri geni sono proprio tutti disposti con maestria straordinaria per farci accogliere l’arrivo della speranza con benevolenza e illusorio ottimismo, ma ho il sospetto che il loro obiettivo sia completamente differente.

Nella mia vita

Plenilunio

Alcuni giorni fa ero in montagna.
In realtà la storia è più articolata. Avevo passato la giornata un po’ più lontano da lì, a ridosso del mondo indaffarato del business, mischiato ad altre persone, più o meno della mia età, per accudire questo fiume, che chiamiamo pomposamente lavoro, che tortuosamente cerca di portare da qualche parte così tanti di noi.

Solo in serata ero rientrato in montagna.
A causa della discendenza di una parte del ceppo familiare da quel paesino, la mia famiglia ha colonizzato quel piccolo luogo esposto al sole delle dolomiti venete, occupando con piccoli avamposti tre o quattro dei suoi quartieri.
Quella sera, ho offerto, in un ristorantino tipico del luogo la cena a due mie nipoti, figlie di mia sorella. Età tra i venticinque e i trenta, seguono amorevolmente i miei genitori che svernano durante l’estate al fresco dei mille metri di altitudine. Brave ragazze, dimostrano, con le parole dei loro discorsi, serietà e concentrazione verso il loro incerto futuro, quasi fossero già fin troppo mature.

Parlando del più e del meno, ho avuto quasi la sensazione di essere io, più adolescente di loro, come se questa vita portasse con sé delle fasi in cui il senso di marcia del nostro spirito si dovesse adeguare, andando avanti e indietro, ad un costante tentativo di trovare la posizione buona per riuscire a parcheggiare nello spazio riservato alla serenità.

Finita la cena siamo andati a trovare i miei genitori all’altro lato del paese. Mio padre, ormai ha traguardato la soglia dei novanta, mia madre, cerca di raggiungerlo. Non è un segreto, gli anni che ci separano raccontano una storia la cui sintesi è semplice: la mia famiglia era già al completo. Due genitori, quattro fratelli, più o meno ravvicinati tra loro. Io, distanziato a molte lunghezze, sono comparso a perturbare gli equilibri. Ma, come mia mamma ha sempre ripetuto con soddisfazione un’infinità di volte, ero così buono che non si sono nemmeno accorti di avermi allevato.

E infatti, è andata così, perché, qualche volta, te lo senti dentro di essere una specie di intruso in questo mondo. Nessuno ti attendeva, c’era una festa e non eri propriamente invitato, ma ti sei fatto vedere alla porta lo stesso. Ti fanno entrare, sorridendoti, e il minimo che puoi fare è non disturbare, muovendoti con circospezione, sentendoti a tratti poco di più di uno spermatozoo che per caso è incocciato in un ovulo.

Mio papà non mi riconosce più. Non sa più chi sono. Entro in casa dei miei, al seguito delle mie nipoti, mi sorride, si ricorda che ci siamo già visti i giorni precedenti, il mio volto gli è familiare, ma non è più collegato alla relazione di parentela che ci lega. Ci si scambia i saluti con mia mamma, si fanno le prime parole, lui è silenzioso. Poi mi viene vicino, mi prende la mano e mi porta davanti alla parete dove ci sono alcune foto. Me ne indica una in cui lui e la mamma sono in posa sotto un ripido sentiero tra le rocce vicino ad un rifugio. È di pochissimi anni fa. Con loro due ci siamo anche io e mia figlia ora adolescente.
Non parla, ma mi sorride, puntando il dito contro la mia chioma di capelli decisamente più contenuta rispetto ad oggi.

Ricordo bene quella foto. Quel giorno ero orgoglioso di portare i miei genitori ad un rifugio in alta montagna. Erano emozionatissimi. Io ero orgoglioso e … terrorizzato. Temevo che, mettendo il piede in fallo, potessero farsi male e, alla loro età, subire conseguenze devastanti per gli anni a venire. Era estate piena, una giornata calda e soleggiata, ma arrivati al rifugio faceva freddissimo, un vento impetuoso ci aveva costretto a mangiare risotti e minestre calde, anche se avevamo gli zaini gremiti di altre vettovaglie. Quel giorno era stata una bellissima gita, tutto era filato liscio e arrivati a casa io ero sollevato. Oggi so anche che quella gita era necessaria per poter portare a casa il simulacro di ricordo che ora contemplavamo.

Nell’indicare la foto, mio papà era felice e emozionato. Non sapeva chi ero, ma sapeva dentro di sé che ero un pezzo importante della sua vita. Lo so che dietro il suo stato c’è la malattia. E so bene che si potrebbe pensare che sono senza cuore, ma la verità è che io quella sera sono stato contento per lui. Ha lavorato una vita, donando ogni energia nel suo corpo per i suoi figli e la sua famiglia. Ora fisicamente sembra un giovanotto a dispetto della sua età e il non ricordare chi sono io, chi sono i suoi figli, lo mette in uno stato di sereno, emozionato distacco e di perenne sorpresa.

Non so cosa si possa veramente sperare per la propria vecchiaia, ma se oblio deve essere, io credo che quello di conservare la gentilezza infinita di mio papà, senza preoccupazioni di sorta e con l’affetto dei propri cari sia un buon modo di avvicinarcisi.

Quella sera poi, dopo il pellegrinaggio alla foto e le parole di mio papà mentre mi abbracciava felice perché io e lui eravamo nella stessa immagine, ho visto mia mamma pendere dalle mie labbra chiedendomi di seguito dieci volte la stessa cosa con sfumature sempre diverse per sapere come stavo, come andava la mia vita, se riuscivo a reggere il carico, … E quando avevo salutato tutti per ritornare a casa, mi aveva rincorso per darmi una bottiglietta di acqua tonica. Perché per lei io devo sempre mangiare e bere. È ancora tutto come se dovesse accudirmi, come se io fossi ancora su quel vecchio seggiolone. Il seggiolone che viene costruito apposta perché i genitori non debbano chinarsi troppo, così sufficientemente alto perché tu, quando piombi giù a terra perché non sei legato bene (e io ricordo ancora nitidissimamente il suolo che si avvicina veloce mentre cado), se sopravvivi, si capisce  bene che il tuo angelo custode è di buona qualità.

Quella sera sono tornato a casa percorrendo la strada fino al lato opposto del paese. C’era una atmosfera magica, nessun lampione acceso, silenzio e luce lunare. L’aria era carica di foschia, a stento faceva vedere i profili delle montagne in lontananza. La Luna piena, invece sembrava non risentire minimamente dell’umidità, la sua luce era limpida quanto i contorni ultradefiniti dei suoi mari. E illuminava tutto con forza e mistero.

Mentre camminavo tutto solo perso in sensazioni contrastanti tra l’incerto e l’insicuro, ripensavo all’arco di esistenze che avevo toccato nell’intera giornata. Mi sentivo al centro della vita, perché sono ormai dieci anni che dalle mie parti si continua a sperare che Dante Alighieri avesse sbagliato a definire con esattezza il mezzo del cammino. E, con la testa al cielo, nonostante avessi la retina impressionata dalla Luna in tutta la sua maestosa presenza, l’immagine che vedevo dentro il mio animo era quella dell’intera parabola della vita nella sua lineare complessità.

Ci agitiamo. Sogniamo. Viaggiamo. Percorriamo il mondo in lungo e in largo. Programmiamo le nostre esistenze. Improvvisiamo. Corriamo di qua, corriamo di là. A volte persino amiamo.
In realtà, la verità è che, qualsiasi cosa facciamo, stiamo solo camminando scostati di una manciata di centimetri, da un lato o dall’altro di quella parabola. Nulla di più.

E oggi, che ho ripensato a tutte quelle sensazioni, e ho provato a metterle in frasi, mi accorgo che mi dispiace un po’ perché quello che ho scritto oggi è solo un articoletto senza sostanza, e non uno dei miei soliti raccontini.
Se avessi messo tutto sotto forma di racconto, sicuramente avrei potuto almeno sperare in uno dei miei classici finali a sorpresa.

L’importanza dell’aria e come la viviamo

Aria2

Un po’ di tempo fa, non poi così poco visto il susseguirsi di giornate che da allora ho visto passare, tutte così insensibili da non chiedermi mai il permesso di andarsene per lasciare il passo alla successiva, avevo scritto da qualche parte nel mondo virtuale questa frase:

Per capire veramente quanto importante sia l’aria bisogna provare a trattenere il respiro

Ad essere sincero non sono nemmeno mai stato sicuro che si trattasse di originale farina integrale del mio sacco. Ormai nella storia dell’umanità è stato detto e scritto, ascoltato e letto così tanto che non si può mai essere certi di non trafugare l’originalità con pensieri personali mischiati a ricordi inconsci che riaffiorano mistificanti.
Ma a dire il vero questa questione è abbastanza irrilevante.

La vita insegna a piccoli passi lezioni importanti e spesso difficili da capire nella loro pienezza. E da allora il corso dell’esistenza non si è risparmiato nel farmi provare di quando in quando i momenti di apnea in cui si capisce appieno quanto l’aria sia importante. E quella frasetta di allora rimane inevitabilmente sempre valida.

Da un po’ di tempo a questa parte, però, il mio pensiero si è modificato. E una delle cose più belle che ci possano capitare nella nostra inevitabile introspezione è accorgerci che su certe questioni sappiamo rielaborare e modificare emozioni e percezioni fino ad apprezzare aspetti precedentemente non valutati e fino a creare nuovi stati di coscienza e sentimento che ci fanno sentire dentro un processo continuo di crescita. Un cammino che non ha vere soste.

Oggi non scriverei più quella frase, e non perché l’aria sia meno importante oggi del passato. Non scriverei più quella frase perché da tempo ho capito che il centro vero è da un’altra parte, nella nostra personale, intima e cosciente attitudine a vivere l’indispensabile, costante, presenza dell’aria. E, guarda il caso, si gode veramente dell’aria non quando la tratteniamo dentro di noi, ma quando la facciamo nostra, e, dopo che le abbiamo iniziato a togliere l’ossigeno, la liberiamo sperando che al prossimo passaggio sia di nuovo carica di vitali molecolone.

Ecco, oggi ero perso in queste riflessioni, che non potranno che essere oscure, perché l’autore oggi è fuori servizio. Tuttavia mi è venuta questa intuizione geniale (licenza poetica) che volevo condividere: molti aspetti e vicende della vita si vivono bene solo se riusciamo davvero a riportarli al semplice meccanismo del respirare.

Un difetto dei giovani (maschi) di oggi

Il_Grnochi_Rosa

Oggi, dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a ricaricare le pile esauste, si sarebbe dovuto lavorare ad un raccontino, invece, complici le coincidenze, così non è stato. Ne è sortita una giornata da difetti.

Alla mattina presto è arrivata la signora gentile ed energica che mi aiuta a tenere pulita e in ordine la casa, le ho offerto il caffè, come è consuetudine del sabato prima dell’inizio dei lavori,  e abbiamo scambiato due parole in ordine sparso. Sono così venuto a sapere che la Cgia di Mestre ha appena emesso un’altra delle sue analisi statistiche di grande interesse per il panorama economico italiano, immediatamente echeggiata dal telegiornale di prima serata di una tv locale a larghissima diffusione provinciale. Praticamente, se l’analisi e la sua interpretazione sono corrette, in Italia il lavoro c’è tutto, ma ai giovani italiani non piace più sporcarsi le mani.
A dire il vero questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Non sono riuscito a leggere, né a conoscere il contenuto del comunicato, e qualche perplessità su tutta questa abbondanza di posti di lavoro, non vi nascondo, mi rimane forte. Tuttavia mentre parlavo delle implicazioni di questa notizia shock, il mio pensiero è andato a finire su un evento che si è manifestato profondo negli ultimi dieci-quindici anni di silenziosa e devastante efficacia. Un tempo le compagnie telefoniche mobili erano quello che erano, con il loro target di mercato di riferimento fatto di business man tesi a dimostrare che il loro telefonino era più cazzuto con una tariffa più capace di fare miracoli di tutte le altre. E si sa bene, i business man non perdono né il pelo, né il vizio. Sono ancora tutti là a misurarsi su queste cose strategiche.

Le compagnie telefoniche però si sono un po’ dimenticate di questa importante corsa all’apparire del business, perché il centro delle loro attenzioni si è spostato da tempo su giovani e giovanissimi.
A dire il vero anche questa notizia sa un po’ di Déjà Vu.

Ora sento già sfregolare le mani di quei lettori tra voi che stanno aspettando il momento di poter scrivere con soddisfazione come commento qualcosa del tipo “Questo articolo è una vera ca..ata!!!”. Perché mettere in relazione organica l’attento studio della Cgia di Mestre con il solerte impegno delle compagnie telefoniche che compiono quotidianamente l’altruistico straordinario miracolo di far colloquiare tra loro incessantemente questa montagna di giovincelli appare impresa fuor dall’umana possibilità.

Fortunatamente mi soccorre in extremis proprio la panacea di tutto, di sempre, da sempre: il sesso. E anche il collegamento impossibile diventa facile.

Perché sappiamo tutti bene che passiamo il nostro tempo, diciamo per non offendere nessuno una cifra variabile dal 50% al 95% del nostro tempo (che nel seguito per semplicità indicheremo con la cifra tonda del 90%), con il pensiero o il retropensiero finalizzato all’accoppiamento. E i giovani di questi ultimi quindici anni sono stati facilitati anche troppo su questo fronte, perché le loro famiglie benestanti (e non) li hanno messi nelle condizioni di avere in tasca sempre due cose: qualche soldo, giusto il minimo che serve per sballare un po’, e un cellulare, il buon veicolo per rimanere sempre in connessione con il centro dell’attenzione di qualcun altro.

Mi sembra di poter dire che ragazzi e ragazze vivano queste comuni fortune con approcci molto diversi in sintonia con la loro armonia di genere. Le ragazze vivono il cellulare come uno strumento per aumentare il proprio fascino, istillare curiosità e contatti, punzecchiare il materiale emotivo dei maschietti intorno a loro. I ragazzetti sono invece molto più rozzi e pesanti, rapaci e ottusi.

Faccio un salto indietro nella mia gioventù e mi immagino come avrei potuto reagire ad una vita così come viene offerta ai giovani maschi di oggi. Il 90% dei miei pensieri sarebbero soddisfatti (o comunque persi) attraverso forme diverse di comunicazione tutte in mio potere, avrei avuto in tasca sempre più soldi di quelli di cui avrei avuto stretta necessità.
E allora se avessi dovuto imboccare un lavoro faticoso (magari di muratore ed idraulico in cui si costruisce qualcosa di concreto) per portare a casa gli stessi soldi che già avevo in tasca, chi me l’avrebbe fatto fare? Ho visto molte facce di certi ragazzi di oggi dire la stessa cosa.
Se avessi voluto usare quel 10% di energie residue per fare qualcosa di importante avrei accettato un primo lavoro per meno di duemila-tremila euro al mese? I ragazzi di oggi tendono a non farlo. Molto meglio fare qualcosa di idealizzato, non pratico, oppure peggio, finalizzato solo a poter esercitare un giorno una professione che soddisfi quell’arcigna voglia, propria dell’animo maschile, di primeggiare schiacciando chi ci è intorno.

Purtroppo lo studio della Cgia di Mestre è aria fritta. Usa la cognizione comune che i giovani d’oggi apparentemente hanno tutto quello che serve per appagare il 90% dei loro bisogni apparenti, per giustificare il fatto che il lavoro abbonda sulla bocca degli stolti. Ci sono problemi infiniti intorno a tutto ciò, dall’economia reale, alle banche, dalla etica (sentite come suona male anche solo scritta), al lavoro pubblico, dalla mancanza di linee guida di lungo termine, alla pazienza e alla determinazione per perseguirle.

Tuttavia, cari giovani maschi di oggi, lo so i vostri genitori vi proteggeranno da questo evento, ma un giorno le vostre compagne vi spiegheranno l’obiettivo dell’accoppiamento, diventeranno facilmente insofferenti anche se avrete in tasca molti euro e l’ultimo cellulare i-grido, e se avrete troppo apprezzato soldi e divertimenti facili, farete davvero fatica a fare il piccolo passaggio che intercorre tra l’essere fruitore e l’essere creatore. Perché per fare questo insignificante passaggio è necessario prendere le proprie palle e metterle sull’incudine. Prima lo si fa, prima ritornano della loro forma naturale.

Un difetto dei blog

Edera

Oggi passeggiavo tranquillo per le lande che frequento usualmente in questo periodo. Tra le altre questioni un po’ più rilevanti, pensavo anche a quale sarebbe stato il mio prossimo post. Ho una serie di raccontini, idee e altre sciocchezuole che aspettano di essere sviluppate e poi consegnate alle rotative virtuali del tasto Pubblica di wp.

Ma la verità è che in questi giorni non ho veramente voglia di raccontare niente. Non mi sento all’altezza dell’uscire dal banale. Mi sento come se fossi avvolto da un’edera che oscura tutto,  anche le antenne sensoriali.

In questo frangente la voglia di dire qualcosa diventa effimera e i pensieri sono rivolti soprattutto alla confusa introspezione.

Ora che di questo articolato mondo dei blog capisco qualcosa di più dello zero assoluto di qualche mese fa, devo dire che è una figata da molti punti di vista. E, se dovessi riassumere al massimo questo pensiero per non diventare noioso, direi  che credo tutto abbia a che fare con il rispetto, la libertà e la comprensione reciproca. Per lo meno nella maggioranza dei casi.

Il rispetto di chi scrive qualcosa nei confronti dei propri sparuti potenziali lettori, e, dall’altra parte, proprio i lettori, che leggono quando vogliono, con l’attenzione che si sentono di fornire in quel momento della loro vita, con lo spirito ugualmente aperto alla critica, alla suggestione, alla costruttiva valutazione, alla curiosa attenzione. Questa libertà e l’arricchimento nella comprensione che ne consegue è la vera anima del mondo blog e dello spirito che lo anima.

Ma, in giorni come questi, la predisposizione è ancora differente. Sarà l’atmosfera vacanziera che il popolo immerso nelle sue holidays immancabilmente trasuda anche in questi luoghi, saranno le piccole insignificanti storie personali che accadono nella realtà, sarà il repentino passaggio dal caldo torrido al fresco inatteso di questi giorni, difficile valutare. Il risultato finale è che in questi giorni mi è chiarissimo uno dei limiti più grandi di questo spazio virtuale dei blog.

Si sente la mancanza nel non avere a disposizione uno strumento blog che, all’occorrenza, diventi introspettivo. Che ti consenta, ogni tanto, di scrivere qualcosa non rivolto all’ignoto o alle altre persone intorno a noi, ma che sia esclusivamente indirizzato a tutti quei pochi o tanti io (c’è chi ne ha di più, chi ne ha di meno, ma tutti siamo un po’ multipli dentro noi stessi) che abitano la nostra mente e il nostro cuore. Si sente la mancanza di poter scrivere qualche parola, anche raffazzonata (tanto la comprensione dovrebbe essere facile, almeno così si spera), e lasciarla là a disposizione perché l’io di turno che ne ha voglia ed è ispirato, la possa leggere e dia i suoi consigli e i suoi commenti.

Immaginatevi se a fronte di un disagio, o un dubbio esistenziale, o lo scoramento, o l’entusiasmo, o l’amore cieco, potessimo lasciare arrivare gli io nascosti dentro di noi ad uscire allo scoperto, leggere quando ne hanno voglia,  comprendere e rielaborare, proporre, fare un passo avanti o uno indietro spontaneamente. Arriverebbe il Pj razionale, ancorato alla sua ottusa convinzione che due più due fa cinque, e rifletterebbe senza il bisogno di convincere nessuno su niente, l’io romantico che non si accanirebbe a punzecchiare questo nostro cuore più pervicacemente del mondo femminile intorno a noi, arriverebbe l’io sognatore e magari capirebbe che per questa volta è meglio tenere i piedi per terra, il Pj prudente o quello coraggioso che potrebbe finalmente convincersi che questo è il suo momento. E piano piano si farebbero sentire, così, senza una regola tutti gli altri. Il Pj bambino, quello serioso, quello burlone, quello stanco, il pilota esperto, il centauro mancato, lo sportivo alla Decoubertain, il Pj un po’ maligno, quello che vorrebbe bere un amaro prima di coricarsi e quello che fuma tranquillamente seduto in poltrona … E così via. Una cosa è certa. L’ipotetico blog di cui parliamo avrebbe davvero un sacco di followers.

Purtroppo un diario non sarebbe la stessa cosa. Equivale a mettere tutti i PJ che abbiamo dentro di noi nello stesso luogo e nello stesso tempo a discutere in una riunione troppo spesso ciarliera e improduttiva. Mentre lasciandoli ciascuno libero a sé stesso, senza vincoli di sorta e bisogno di interagire l’un l’altro, se ne vedrebbero, io credo, delle belle.

Chissà quanti commenti e osservazioni argute, tutte da rielaborare a posteriori per trasformare la nostra confusa introspezione in crescita ripida, rapida e produttiva.
Ecco cosa manca a questo mondo dei blog. Uno spazio completamente privato e incomprensibile al resto dell’Universo, dove far accedere in libertà qualche rara volta solo i nostri io interiori.
E se poi, vi chiederete, uno di loro perdesse la sua password di accesso?
(direi io) Sfiga! La password non si può recuperare e dovrebbe starsene buono senza rompere più le palle … per il resto della vita.

Murmurations, della Natura

Murmuration

Gli amici che ci sono vicini assolvono a tantissimi piccoli compiti nei nostri confronti, a volte senza nemmeno averne piena coscienza. Può capitare, ad esempio, che grazie alla loro frequentazione arriviamo a conoscere aspetti della realtà che ci circonda di cui non immaginavamo proprio l’esistenza.

Mi è capitato diverse volte di imbattermi nei preparativi alla partenza attraversando nei periodi autunnali i tratti di autostrada un po’ sperduti a ridosso dei lunghi filari di tralicci dell’alta tensione. Sequenze interminabili di uccelli al calduccio degli sfrigolii energetici, pronti a salpare verso nuovi più adatti habitat stagionali. Quando assistevo impotente alla loro repentina partenza rimanevo sempre estasiato. La sincronia di intenti di migliaia di volatili che si staccano all’unisono da un filo sospeso in aria per formare un bolo aereo dalle movenze armoniose, richiama dentro noi stessi una sensazione di sconcertante sorpresa come al manifestarsi della magia. Ci aspetteremmo che la perfezione debba seguire necessariamente le schematiche regole del mondo umano, e invece, vedere l’ordine generarsi dal nulla in cielo, in completa assenza di qualsiasi circolare informativa che ne coordini l’azione, ci lascia senza fiato.

Negli ultimi anni ho la sempre crescente percezione che tra il nostro mondo e la Natura ci sia una dicotomia sempre più marcata. L’Uomo plasma tutto ai suoi bisogni, compie scempi tremendi, si inventa allevamenti di bestiame grandi come una regione italiana, dove gli animali non sono quasi nemmeno più animali, abatte foreste, crea foreste di palma. Non si ferma.

Parallelamente allo strapotere dell’uomo, si sviluppano silenziosi strani fenomeni di segno completamente opposto. Esci dalla porta di casa, passeggi lungo qualche argine poco più lontano della scuola dove porti tuo figlio, e ti imbatti in questi uccelli enormi. Aironi cinerini, garzette, volatili di cui non conosco nemmeno i nomi, esseri sempre più spavaldi che con i loro lunghi becchi sembrano quasi sbuffare al tuo passaggio perché devono sfoggiare la loro apertura alare per farsi più in là. Ogni anno sono sempre di più. Ma quando ero ragazzetto, di loro, nemmeno l’ombra.

Oppure ritorni nel paese di montagna dove hai trascorso momenti spensierati nella tua infanzia, e lo scopri improvvisamente assediato dal bosco. Un tempo intorno alle sparute case c’erano prati, sentieri e donne di ritorno dalla foresta con lunghi rami secchi per ravvivare il fuoco appoggiati sulle gerle. Ora gli alberi sembrano voler entrare direttamente dentro le case con i loro tronchi. Un tempo l’uomo curava la natura intorno al proprio ambiente, ora invece tagliare le piante e l’erba dei prati, ingegnarsi nel contenimento delle frane e delle intemperie non sono attività remunerative. L’uomo non fa più quello che è utile, fa solo quello che gli rende denaro. E negli anni passati evidentemente si è reso necessario aprire troppe gelaterie in Germania. La Natura se ne è accorta e ora si sta riprendendo i suoi spazi.

L’Uomo si concentra nei grandi agglomerati urbani, dove la vita non è più quella delle sue origini naturali, è diventata una specie di disegno architetturale di bisogni e sogni studiati a tavolino negli headquarters della crescita del PIL del mondo. Ma la Natura, è molto chiaro, di tutto questo se ne frega. Sorniona sviluppa le sue piccole mosse per occupare tutti gli spazi che le vengono lasciati. C’è una vera dicotomia in atto tra il mondo umano civilizzato e l’essenza biologica del divenire.

Quando, diverso tempo fa, un’amica mi ha fatto conoscere un fenomeno naturale di cui non avevo mai saputo l’esistenza nonostante i miei più di quattro decenni di orgogliosa presenza cosciente in questo mondo, devo dire che sono rimasto molto colpito. Sono rimasto estasiato perché il fenomeno è mozzafiato, pazzesco. Sono rimasto colpito perché in questo nostro mondo cose così, questi murmurations, non interessano più, non ci si possono forse fare abbastanza soldi, io credo. In luoghi particolari, forse nemmeno così lontani da quelli in cui viviamo, molti disgiunti stormi di uccelli a volte si combinano in una danza frenetica e armoniosa, che coordina migliaia e migliaia di esseri. Si muovono nell’aria mossi da chissà quale recondita spinta che li porta a disegnare nel cielo delle geometrie perfette. E al mio spirito un po’ sognatore sembrano l’espressione di una straordinaria gioia di gruppo. Limiti inarrivabili per le nostre esistenze sociali.

E sono rimasto molto colpito perché un fenomeno così è talmente dicotomicamente disgiunto dalla nostra realtà di tutti i giorni che non esiste nemmeno un termine italiano per indicare questi murmurations. Guardi il video è ti commuovi pensando che è uno spettacolo pazzesco, ma non sai nemmeno bene che nome dare a quello che vedi .

Ritorno a Facebook City

 CelebratePride2

Non moltissimo tempo fa sono uscito per un po’ da Facebook.

Nello scorso fine settimana, credo in conseguenza di qualche impostazione fatta a suo tempo in fase di partenza, FB ha pensato bene di riattivarmi. E io ho accolto la notizia con una naturale serenità, senza ansie, né aspettative di sorta.

Facebook è un luogo meraviglioso, la sua efficacia è senza precedenti. E’ una specie di propulsore emotivo di attese disattese e ricordi radicati. E una volta rientrati, sono sufficienti pochi minuti e tutti i pensieri che ti avevano portato lontano da Facebook City si rimaterializzano nella tua mente nitidi come un tempo.

Meno nitido, devo dire, è l’aspetto che ho ritrovato in molti miei amici. Non so se sia stata la lontananza dalla mia amicizia virtuale, una specie di lutto in onore della PJassenza, non so se la frequentazione Fb genera a lungo andare degli effetti che noti solo se non ne fai parte, ma devo dire che quando sono entrato ho capito subito che c’era qualcosa che non andava.

Le possibili spiegazioni per questo evento sono moltissime e nel formularle bisogna sempre tenere presente la viralità dell’habitat naturale in cui vive il popolo di FB City. Perché, nella vita reale, appena uno di noi viene colto da un qualsiasi virus che lo fa starnutire tre volte, viene messo in quarantena, emarginato, invitato caldamente a fruire di inutili antibiotici, per poterlo poi additare a possibile veicolo pandemico. Nella vita virtuale,  se una persona viene colta da un nuovo virus (di originalità), il fenomeno è opposto. Tutti si fanno contagiare, vogliono entrare nella moda a piè pari, quando sono ancora sotto al cinquantamillesimo posto, perché se superano quel limite, arrivare dopo, è un’onta e un disonore. Nessuno si ricorderà che sei stato tra i primi a costruire la moda e lascerai lo spiacevole dubbio di esserti aggregato solo per paura di non essere considerato una persona con la degna sensibilità. Spesso chi rimane indifferente al movimento massonico globale pro-qualcosa, viene portato piano piano, mano nella mano, di discussione in discussione, nella riserva indiana dei “diversi”.

Magari qualcuno si inventa un movimento modaiolo pro-gay d’oltreoceano per l’uguaglianza dei diritti (idea benemerita e sacrosanta, intendiamoci; e non ci sarebbe da meravigliarsi se dietro queste facce smunte dei miei amici, per lo più etero e per giunta italiani, ci sia proprio questo). Partita la moda, tutti corrono a scimmiottare qualche simbolo, e chi rimane con il suo vecchio avatar dai contorni nitidi e bei colori accesi inizia a sentirsi un escluso, un untore al rovescio, una mosca bianca.

Comunque, a distanza di un paio di giorni dai primi avvistamenti, rimango ancora nel dubbio su cosa possa aver sbiadito così tanto i miei amici. I ricordi di un vecchio film, Indipendece Day, potrebbero far pensare che, sempre, quando le immagini diventano sfocate e piene di distorsioni la colpa è di una razza aliena che sta per invadere la Terra e sterminare l’Umanità intera.

Oppure come sostiene qualche agenzia giornalistica e scandalistica si tratta solo di una gigantesca operazione di web marketing e indagine di mercato per scoprire le tendenze in fatto di colori ingialliti (e non solo) della totalità degli abitanti della City.

Io penso però che la risposta buona sia quella più semplice. In un altro film, Contact,  si cerca di applicare il principio del Rasoio di Occam ad ogni puttanata. E così faccio anch’io.

Io sono stato via un po’. Quando si sta decorosamente bene si fa fatica ad avere una percezione esatta dello scorrere del tempo. E forse in questo caso, il periodo trascorso lontano da FB, è stato molto più lungo della mia percezione, abbastanza più lungo da far sì che le emulsioni fotografiche delle Polaroid utilizzate dagli amici per aggiornare il loro profilo siano semplicemente andate a male. Sembrano quasi foto d’altri tempi.

E Facebook è così, autentico, non ti fa vedere le cose che non sono. Nessuno si vergogna se la sua foto profilo fa un po’ schifo (ma il termine giusto era un italianizzabile “cagare”).

Mosso da questa certezza, di aver trovato la soluzione semplice che spiega tutto, vi confesso, non credo mi toglierò da FB City per un bel po’. Non vorrei proprio rischiare di trovarmi talmente bene lontano da essa fino a perdere la nozione del tempo così tanto da scoprire, alla prossima riattivazione, attraverso gli ultimi post super eccitati, che la Fine del Mondo sia già passata. Sai che delusione sarebbe non sapere in diretta che tutto è finito?

Il difetto della resilienza

Resilienza

Negli ultimi mesi mi sono imbattuto più volte nella resilienza e nella sua dichiarata scesa in campo. Potremmo dire che c’è una recrudescenza nell’uso di questo termine, di cui, solo pochi anni fa, non conoscevo nemmeno il significato, non per lo meno nella sua accezione psicologica.

E’ una di quelle poche parole particolari, che quando le senti nominare capisci che dietro ad essa c’è molto di più. In sole dieci lettere racchiude tutto un universo di dolore, energia e proiezione al futuro che rende la speranza il nuovo motore di una vita. E’ una parola bella. Nasce dalla sofferenza, ma ne oscura lo spettro, dando alla forza e al valore della persona il motivo della sua rinascita.

Eppure, questa parola è strana.

Negli ultimi mesi l’ho sentita chiamare in causa almeno una decina di volte. Sempre in modalità riflessiva. Sempre da donne. Per la mia cultura scientifica tendo a dare alla statistica un senso, non assoluto, ma sicuramente di indirizzo, e quando percepisco che una distribuzione non sta seguendo un andamento usuale che a lungo andare emuli la perfezione di una gaussiana, finisco sempre con il perdermi in riflessioni per cercare l’origine della possibile anomalia.

Sicuramente, in passato, mi è capitato di sentire qua e là qualche uomo parlare di resilienza, ma, se la memoria non mi inganna, erano sempre ingegneri che decantavano la straordinaria capacità di un certo materiale nell’assorbire l’energia elastica quando posto in forte trazione.
Se guardo la storia recente cercando di immedesimarmi con l’occhio maschile dell’ingegnere medio, l’idea che tutte le donne, che ho sentito invocare la resilienza su sé stesse, siano state posizionate su una morsa emotiva e lì siano state sottoposte alla dolorosa applicazione di una continua torsione sull’animo e sul cuore, mi sembra il pericoloso sintomo di un latente conflitto di generi.

A dire il vero, non credo che il genere maschile sia completamente immune dal subire eventi traumatici e non penso che, a modo suo, alla bisogna, non sappia tirare fuori una giusta dose di resilienza. Forse semplicemente non le dà un nome, forse non sente il bisogno di esternare un suo stato interiore vagamente trionfale nell’aver scoperto dentro sé stesso quel barlume di energia necessario a costruire la pericolante staccionata con cui conta di confinare il suo dolore.

Poche cose mi sono chiare. Da qualsiasi punto di vista si guardi la questione, la resilienza non può essere solo una App dell’animo femminile, né può soppiantare la presa di coscienza che essa origina sempre da un disagio profondo. Non possiamo assegnare una colpa generica ed esclusiva al mondo esterno che ci porta ad attingere il massimo dalle nostre energie più vive per non soccombere, perché diamo sempre anche noi il nostro contributo alla creazione delle situazioni che ci riguardano. Non possiamo permettere che il termine resilienza diventi una moda, perché dietro ad esso c’è troppa sofferenza, valore ed eroismo che non devono andare sprecati in luoghi comuni. E non dobbiamo nemmeno escludere a priori che la constatazione che essa si manifesti così forte e orgogliosa nel genere femminile rappresenti proprio un sintomo della possibilità che, nei tempi moderni, il genere maschile si stia dimostrando sempre più inadeguato a seguire le necessità del cuore della nostra società.

Difficile dare una visione accorta di questa insistente comparsa della resilienza nel nostro mondo, ma di certo, soprattutto per la sofferenza che essa indomitamente cerca di vincere, dobbiamo cercare di evitare la sua diffusione incontrollata, la sua recrudescenza.